ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica

PARTE PRIMA
I principii


CAPITOLO III.

Perfezione della vita cristiana.

295.   Ogni vita deve perfezionarsi, ma principalmente la vita cristiana, la quale è, per sua natura, essenzialmente progressiva e non toccherà il suo termine se non in cielo. Dobbiamo quindi esaminare in che consista la perfezione di questa vita, per poterci così meglio dirigere nelle vie della perfezione. Essendoci però su questo punto fondamentale errori e idee più o meno monche ed inesatte, cominceremo a rimuovere le false nozioni della perfezione cristiana e ne esporremo poi la vera natura.

ART. I. FALSE NOZIONI SULLA PERFEZIONE.

Queste false nozioni si trovano presso gl'increduli, i mondano e i falsi devoti.

296.   1° Agli occhi degl'increduli la perfezione cristiana è un puro fenomeno soggettivo, che non corrisponde ad alcuna sicura realtà.

A) Molti di loro studiano quelli che essi chiamano fenomeni mistici con malevoli pregiudizi e senza discernere tra i veri e i falsi mistici: tali Max Nordau, J. H. Leuba, E. Murisier 296-1. A loro giudizio, la pretesa perfezione dei mistici non è che un fenomeno morboso, una specie di psiconevrosi, di esaltazione del sentimento religioso, ed anche una forma speciale di amore sessuale, come appare dai vocaboli di sponsali o sposalizio, di matrimonio spirituale, di baci, di amplessi, di carezze divine, che ricorrono così spesso sotto la penna dei mistici.

È chiaro che questo autori, i quali non s'intendono quasi d'altro che di amore profano, non anno capito nulla dell'amor divino e sono di coloro a cui si potrebbe applicare la parola di Nostro Signore: "Neque mittatis margaritas vestras ante porcos 296-2 ". Quindi anche gli altri psicologi, come W. James, fanno loro notare che l'istinto sessuale non ha nulla da vedere con la santità; che i veri mistici praticarono la purità eroica, gli uni non avendo mai o quasi mai provato le debolezze della carne, gli altri avendo superate violente tentazioni con mezzi eroici, per esempio voltolandosi tra le spine. Se dunque unarono il linguaggio dell'amor umano, la ragione è che non ve n'è altro che sia più adatto ad esprimere in modo analogico le tenerezza dell'amore divino 296-3. Del resto essi mostrarono in tutta la loro condotta, con le grandi opere che impresero e condussero a buon fine, che erano persone savie e prudenti; e in ogni caso non si possono che benedire le nevrosi che ci diedero i Tommasi d'Aquino, i Bonaventura, gli Ignazi di Loiola, i Franceschi Saveri, le Terese e i Giovanni della Croce, i Franceschi di Sales, le Giovanne di Chantal, i Vincenzi de' Paoli, le Damigelle Legras, i Berulle e gli Olier, gli Alfonsi de' Liguori e i Paoli della Croce.

297.   B) Altri increduli rendono giustizia ai nostri mistici, pur dubitando della realtà obbiettiva dei fenomeni da loro descritti: tali William James e Massimo di Montmorand 297-1. Riconoscono che il sentimento religioso produce nelle anime mirabili effetti, uno slancio invincibile verso il bene, una illimitata dedizione verso il prossimo, che il loro preteso egoismo non è in fondo che una carità eminentemente sociale feconda della più lieta influenza, che la loro sete di patimenti non impedisce loro di godere ineffabili delizie e diffondere un poco di felicità attorno a loro; solo dubitano che siano vittime d'autosuggestione e d'allucinazione. Ma noi facciamo osservare che così benefici effetti non possono derivare se non da una causa proporzionata; che, nel complesso, il bene reale e duraturo non può venire che dal vero, e che se solo i mistici cristiani hanno praticato le virtù eroiche e prodotto opere sociali utili, la ragione è che la contemplazione e l'amore di Dio, ispiratori di queste opere, non sono allucinazioni ma realtà viventi ed operose: "ex fructibus eorum cognoscetis eos 297-2 ".

298.   2° I mondani, anche quando hanno la fede, hanno spesso, sulla perfezione o su ciò ch'essi chiamano la devozione, idee molto false.

A) Gli uni riguardano i devoti come ipocriti, come Tartufi, che, sotto la maschera della pietà, nascondono vizi odiosi o ambiziose mire politiche, come sarebbe il desiderio di dominare le coscienze e così governare il mondo. Or questo è un confondere l'abuso con la cosa stessa, e la continuazione di questo studio dimostrerà che la semplicità, la lealtà e l'umiltà sono i veri caratteri della devozione.

299.   B) Altri considerano la pietà come un'esaltazione della sensibiiltà e dell'immaginazione, una specie di emotività, buona tutt'al più per le donne e per i bambini ma indegna di uomini che vogliono guidarsi con la ragione e con la volontà. Eppure quanti uomini iscritti nel catalogo dei Santi, che si distinsero per un proverbiale buon senso, per una intelligenza superiore, per una volontà energica e costante? Anche qui si confonde dunque la caricatura col ritratto.

300.   C) Vi sono infine di quelli che pretendono che la perfezione sia un'utopia inattuabile e per ciò stesso pericolosa, che basti osservare i comandamenti e sopratutto aiutare il prossimo, senza perdere il tempo in pratiche minuziose, o nella ricerca di virtù straordinarie. Basta la lettura della vita dei Santi a correggere quest'errore, mostrando che la perfezione fu veramente conseguita sulla terra, e che la pratica dei consigli non solo non nuoce all'osservanza dei precetti ma la rende anzi più facile.

301.   3° Tra le stesse persone devote ce ne sono di quelle che s'ingannano sulla vera natura della perfezione, dipingendola ognuno "secondo la propria passione e la propria fantasia 301-1 ".

A) Molti, confondendo la devozione con le devozioni, si immaginano che la perfezione consista nel recitare un gran numero di preghiere e nel fare parte di molte confraternite, talora anche a detrimento dei doveri del proprio stato che costoro trascurano per fare questo o quel pio esercizio, o mancando alla carità verso le persone di casa. Questo è un sostituire l'accessorio al principale e un sacrificare al mezzo il fine.

302.   B) Altri poi si danno ai digiuni e alle austerità, fino ad esternuarsi e rendersi incapaci di compiere bene i doveri del proprio stato, credendosi con ciò dispensati dalla carità verso il prossimo; e mentre non osano intingere la lingua nel vino, non temono poi "di immergerla nel sangue del prossimo con la maldicenza e con la calunnia". Anche qui si prende abbaglio su ciò che vi è di più essenziale nella perfezione, e si trascura il dovere capitale della carità per esercizi buoni senza dubbio ma meno importanti. -- In pari errore cadono coloro che fanno ricche elemosine, ma non vogliono poi perdonare i nemici, oppure, perdonando i nemici, non pensano poi a pagare i debiti.

303.   C) Alcuni, confondendo le consolazioni spirituali col fervore, si credono perfetti quando sono inondati di gioia e pregano con facilità; e s'immaginano invece s'essere rilassati quando sono assaliti dalle aridità e dalle distrazioni. Dimenticano che ciò che conta agli occhi di Dio è lo sforzo generoso e spesso rinnovato, non ostante le apparenti sconfitte che si possono provare.

304.   D) Altri, invaghiti di azioni e di opere esteriori, trascurano la vita interiore per darsi più intieramente all'apostolato. È un dimenticare che l'anima di ogni apostolato è la preghiera abituale, che attira la grazia divina e rende feconda l'azione.

305.   E) Finalmente alcuni, avendo letto libri mistici o vite di Santi in cui si descrivono estasi e visioni, si immaginano che la devozione consista in questi fenomeni straordinarii e fanno sforzi di mente e di fantasia per arrivarvi. Non capiscono che, a detta dei mistici stessi, questi sono fenomeni accessori che non costituiscono la santità, ai quali quindi non bisogna aspirare, e che la vita della conformità alla volontà di Dio è molto più sicura e più pratica.

Sgombrato così il terreno, potremo ora più facilmente intendere in che essenzialmente consista la vera perfezione.

ART. II. LA VERA NOZIONE DELLA PERFEZIONE 306-1.

306.   Stato della questione. Per ben risolvere questo problema, cominciamo con determinar lo stato della questione:

1° Nell'ordine naturale un essere è perfetto (perfectum) quando è finito e compito, e quindi quando consegue il suo fine: "Unumquodque dicitur esse perfectum in quantum attingit proprium finem, qui est ultima rei perfectio306-2. Questa è la perfezione assoluta; ve n'è però un'altra, relativa e progressiva, che consiste nell'avvicinarsi a questo fine, sviluppando tutte le proprie facoltà e praticando tutti i propri doveri secondo le prescrizioni della legge naturale manifestata dalla retta regione.

307.   2° Il fine dell'uomo, anche nell'ordine naturale, è Dio. 1) Creati da Lui, siamo necessariamente creati per Lui, poichè è chiaro che non può Dio trovare un fine più perfetto di Sè, essendo la pienezza dell'Essere; e d'altra parte creare per un fine imperfetto sarebbe indegno di Lui. 2) Di più, essendo Dio la perfezione infinita e quindi la fonte di ogni perfezione, l'uomo è tanto più perfetto quanto più s'avvicina a Lui e ne partecipa le divine perfezioni; ecco perchè il cuore umano non trova nelle creature nulla che possa soddisfarne le legittime aspirazioni: "Ultimus hominis finis est bonum increatum, scilicet Deus, qui solus sua infinita bonitate potest voluntatem hominis perfecte implere307-1. A Dio quindi convien rivolgere tutte le nostre azioni; conoscerlo, amarlo, servirlo, e così glorificarlo, tal è il fine della vita e la fonte d'ogni perfezione.

308.   3° Il che è anche più vero nell'ordine soprannaturale. Gratuitamente elevati da Dio ad uno stato che supera le nostre esigenze e le nostre possibilità, chiamati a contemplarlo un giorno con la visione beatifica e possedendolo già con la grazia, dotati di un intiero organismo soprannaturale per unirci a Lui con la pratica delle virtù cristiane, è chiaro che non possiamo perfezionarci se non avvicinandoci continuamente a Lui. E non potendo far questo senza unirci a Gesù, che è la via necessaria per andare al Padre, la nostra perfezione consisterà nel vivere per Dio in unione con Gesù Cristo: "Vivere summe Deo in Christo Jesu308-1. Il che facciamo praticando le virtù cristiane, teologali e morali, che tutte hanno per fine di unirci in modo più o meno diretto a Dio, facendoci imitare N. S. Gesù Cristo. i

309.   4° Sorge quindi la questione di sapere se, tra queste virtù, non ve ne sia una che compendi e contenga tutte le altre, e costituisca, a così dire, l'essenza della perfezione. S. Tommaso, sintetizzando la dottrina della S. Scrittura e dei Padri, risponde affermativamente e c'insegna che la perfezione consiste essenzialmente nell'amor di Dio e del prossimo amato per Dio: "Per se quidem et essentialiter consistit perfectio christianæ vitæ in caritate, principaliter quidem secundum dilectionem Dei, secundario autem secundum dilectionem proximi309-1. Ma, poichè nella vita presente l'amor di Dio non può praticarsi senza rinunziare all'amore disordinato di se stessi, ossia alla triplice concupiscenza, in pratica all'amore bisogna aggiungere il sacrificio. Questo verremo esponendo col dimostrare:

§ I. L'essenza della perfezione consiste nella carità.

310.   Spieghiamo anzitutto il senso della tesi. L'amore di Dio e del prossimo, di cui trattiamo, è soprannaturale nel suo oggetto come nel suo motivo e nel suo principio. Il Dio che noi amiamo è il Dio manifestatoci dalla rivelazione, il Dio della Trinità; e l'amiamo perchè la fede ce lo mostra infinitamente buono e infinitamente amabile; l'amiamo con la volontà perfezionata dalla virtù della carità e aiutata dalla grazia attuale. Non è dunque un amore di sensibilità; è vero che, essendo l'uomo composto d'anima e di corpo, spesso si mescola ai nostri più nobili affetti un elemento sensibile; ma un tal sentimento manca talora intieramente, e in ogni caso è del tutto accessorio. L'essenza stessa dell'amore è la dedizione, è la volontà ferma di darsi e, occorrendo, d'immolarsi intieramente per Dio e per la sua gloria, di preferire il suo beneplacito al nostro e a quello delle creature.

311.   Conviene dire altrettanto, salve le proporzioni, dell'amor del prossimo. In lui amiamo Dio, un'immagine, un riflesso delle sue divine perfezioni; il motivo quindi che ce lo fa amare è la bontà divina in quanto è manifestata, espressa, irradiata nel prossimo; o, in parole più intelligibili, noi vediamo e amiamo nei nostri fratelli un'anima abitata dallo Spirito Santo, ornata della grazia divina, riscattata dal sangue di Gesù Cristo; e amandola, ne vogliamo il bene soprannaturale, lo spirituale perfezionamento, la salute eterna.

Non vi sono quindi due virtù di carità, l'una verso Dio e l'altra verso il prossimo; ve n'è una sola che abbraccia insieme Dio amato per se stesso e il prossimo amato per Dio.

Con queste nozioni ci sarà facile intendere come la perfezione consiste proprio nella virtù della carità.

Le prove della tesi.

312.   1° Interroghiamo la S. Scrittura. A) Nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, ciò che domina e compendia tutta la Legge è il gran precetto della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo. Quindi, quando un dottore della legge domanda a Nostro Signore che cosa bisogna fare per acquistare la vita eterna, il divin Maestro gli risponde soltanto: Che cosa dice la legge? E il dottore pronto gli cita il testo del Deuteronomio: "Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex omnibus viribus tuis et ex omni mente tua, et proximum tuum sicut teipsum. E Nostro Signore l'approva dicendogli: "Hoc fac et vives312-1. Aggiunge altrove che questo doppio precetto dell'amor di Dio e dell'amor del prossimo costituisce la legge e i Profeti 312-2. Ed è ciò che sotto altra forma dichiara S. Paolo, quando, dopo aver rammentati i principali precetti del Decalogo, aggiunge che la pienezza della legge è l'amore: "Plenitudo legis dilectio312-3. Così l'amor di Dio e del prossimo è nello stesso tempo la sintesi e la pienezza della Legge. Ora la perfezione cristiana non può essere che l'adempimento perfetto ed intero della Legge; perchè la Legge è ciò che Dio vuole, e che cosa v'è di più perfetto della santa volontà di Dio?

313.   B) Vi è un'altra prova tratta dalla dottrina di S. Paolo sulla carità nel cap. XIIIº della Iª Lettera ai Corinti; con lirico linguaggio Paolo vi descrive l'eccellenza della carità, la sua superiorità sui carismi o sulle grazie gratisdate, sulle altre virtù teologali, la fede e la speranza; e mostra ch'essa compendia e contiene in modo eminente tutte le virtù, che è anzi il complesso di queste virtù: "caritas patiens est, benigna est; caritas non æmulatur, non agit perperam, non inflatur, non est ambitiosa, non quærit quæ sua sunt, non irritatur, non cogitat malum..."; e in ultimo aggiunge che i carismi passeranno, che la fede e la speranza spariranno, ma che la carità è eterna. Non è questo un insegnare che non solo la carità è la regina e l'anima delle virtù, ma che è pur così eccellente da bastare a rendere un uomo perfetto, comunicandogli tutte le virtù?

314.   C) S. Giovanni, l'apostolo del divino amore, ce ne dà la fondamentale ragione. Dio, egli dice, è carità, "Deus caritas est"; è questa, a così dire, la sua nota caratteristica. Se dunque vogliamo somigliar a lui ed essere perfetti come il Padre celeste, bisogna che noi amiamo lui come egli ha amato noi "quoniam prior ipse dilexit nos314-1; e non potendo amar lui senza amar pure il prossimo, dobbiamo amare questo caro prossimo fino a sacrificarci per lui, "et nos debemus pro fratribus animas ponere": "Carissimi, amiamoci l'un l'altro, perchè l'amore viene da Dio, e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore... Or questo amore sta in ciò che non fummo noi ad amar Dio, ma egli il primo amò noi e mandò il suo Figliuolo vittima di propiziazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati in tal guisa, dobbiamo noi pure amarci l'un l'altro... Dio è amore e chi sta nell'amore sta in Dio e Dio in lui" 314-2. Si può dire in modo più chiaro che tutta la perfezione consiste nell'amor di Dio e del prossimo per Dio?

315.   2° Interroghiamo la ragione illuminata dalla fede: se consideriamo sia la natura della perfezione sia la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione.

A) Abbiamo detto che la perfezione d'un essere consiste nel conseguire il proprio fine o nell'avvicinarsegli quanto più è possibile (n. 306). Ora il fine dell'uomo nell'ordine soprannaturale è Dio eternamente posseduto con la visione intuitiva e con l'amore beatifico; sulla terra ci avviciniamo a questo fine vivendo già in unione intima con la SS. Trinità che vive in noi e con Gesù mediatore necessario per andare al Padre. Quanto più dunque siamo uniti a Dio, ultimo nostro fine e fonte della nostra vita, tanto più siamo perfetti.

316.   Or qual è tra le virtù cristiane la più unificante, quella che unisce l'anima nostra intieramente a Dio, se non la divina carità? Le altre virtù ci preparano a questa unione, o anche a lei ci iniziano, ma non possono compierla. Le virtù morali, prudenza, fortezza, temperanza, giustizia, etc., non ci uniscono direttamente a Dio, ma servono solo a sopprimere o diminuire gli ostacoli che ce ne allontanano e ad avvicinarci a Dio conformandoci all'ordine; così la temperanza, combattendo lo smoderato uso del piacere, attenua uno dei più violenti ostacoli all'amor di Dio; l'umiltà, allontanando l'orgoglio e l'amor proprio, ci predispone alla pratica della divina carità. Inoltre queste virtù, facendoci praticare l'ordine ossia la giusta misura, sottomettono la nostra volontà a quella di Dio e ci avvicinano a lui. Le virtù teologali poi distinte dalla carità, ci uniscono certamente a Dio, ma in modo incompleto. La fede ci unisce a Dio, infallibile verità, e ci fa vedere le cose alla luce di Dio; ma è compatibile col peccato mortale che ci separa da Dio. La speranza ci eleva a Dio, in quanto è cosa buona per noi, e ci fa desiderare i beni del cielo, ma può sussistere con colpe gravi che ci allontanano dal nostro fine.

317.   La sola carità ci unisce intieramente a Dio. Suppone la fede e la speranza ma le oltrepassa: prende tutta quanta l'anima, intelligenza, cuore, volontà, attività, e la dà a Dio senza riserva. Esclude il peccato mortale, che è il nemico di Dio, e ci fa godere della divina amicizia: "Si quis diligit me, et Pater meus diliget eum317-1. Ora l'amicizia è unione, è fusione di due anime in una sola: cor unum et anima una... unum velle, unum nolle; completa unione di tutte le nostre facoltà: unione della mente, che fa che il nostro pensiero si modelli su quello di Dio; unione della volontà, che ci fa abbracciare la volontà di Dio come fosse nostra; unione del cuore, che ci stimola a darci a Dio come Egli si dà a noi, dilectus meus mihi et ego illi: unione delle forze attive, onde Dio mette a servizio della nostra debolezza la divina sua potenza per aiutarci a eseguire i nostri buoni disegni. La carità ci unisce dunque a Dio, nostro fine, a Dio infinitamente perfetto, e costituisce quindi l'elemento essenziale della nostra perfezione.

318.   B) Studiando la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione: come infatti dimostra S. Francesco di Sales, la carità racchiude tutte le virtù e dà loro anzi una speciale perfezione 318-1.

a) Racchiude tutte le virtù. La perfezione consiste, com'è chiaro, nell'acquisto delle virtù: chi le possiede tutte, in un grado non solo iniziale ma elevato, è certamente perfetto. Ora chi possiede la carità possiede tutte le virtù e le possiede nella loro perfezione: possiede la fede, senza cui non si può conoscere ed amare l'infinita amabilità di Dio; e la speranza, che, ispirandoci la fiducia, ci conduce all'amore; e tutte le virtù morali, per esempio, la prudenza, senza cui la carità non potrebbe nè conservarsi nè crescere; la fortezza, che ci fa trionfare degli ostacoli che si oppongono alla pratica della carità; la temperanza, che doma la sensualità, implacabile nemica dell'amor di Dio.

Anzi, aggiunge S. Francesco di Sales, "il grande Apostolo non dice solo che la carità ci dà la pazienza, la benignità, la costanza, la semplicità, ma dice ch'essa stessa è paziente, benigna, costante" 318-2, perchè contiene la perfezione di tutte le virtù.

319.   b) Anzi dà loro una perfezione e un valore speciale, perchè è, secondo l'espressione di S. Tommaso 319-1, la forma di tutte le virtù. "Tutte le virtù separate dalla carità sono molto imperfette, perchè non possono senza di lei giungere al loro fine che è di rendere l'uomo felice... Non dico che senza la carità non possano nascere e anche progredire; ma che abbiano tal perfezione da meritare il titolo di virtù fatte, formate e compite, questo dipende dalla carità, che dà loro la forza di volare a Dio, e raccogliere dalla sua misericordia il miele del vero merito e della santificazione dei cuori in cui si trovano. La carità è tra le virtù come il sole tra le stelle: distribuisce a tutte la loro luce e la loro bellezza. La fede, la speranza, il timor di Dio e la penitenza, vengono ordinariamente nell'anima prima di lei a prepararle la dimora; e giunta che è, la ubbidiscono e la servono come tutte le altre virtù, ed ella le anima, le adorna e le avviva con la sua presenza" 319-2. In altri termini, la carità, orientando direttamente l'anima nostra verso Dio, perfezione somma ed ultimo fine, dà pure a tutte le altre virtù che vengono a porsi sotto il suo impero, lo stesso orientamento e quindi lo stesso valore. Così un atto d'obbedienza e di umiltà, oltre al proprio valore, riceve dalla carità un valore assai più grande quando è fatto per piacere a Dio, perchè allora diventa un atto di amore, cioè un atto della più perfetta tra le virtù. Aggiungiamo che quest'atto diventa più facile e più attraente: obbedire e umiliarsi costano molto alla orgogliosa nostra natura, ma il pensiero che, praticando questo atti, si ama Dio e se ne procura la gloria, li rende singolarmente facili.

Così dunque la carità è non solo la sintesi ma l'anima di tutte le virtù, e ci unisce a Dio in modo più perfetto e più diretto delle altre; è quindi lei quella che costituisce l'essenza stessa della perfezione.

CONCLUSIONE.

320.   Poichè l'essenza della perfezione consiste nell'amor di Dio, ne viene che l'accorciatoia per arrivarvi è d'amar molto, d'amare con generosità ed intensità, e principalmente di amare con amor puro e disinteressato. Ora noi amiamo Dio non solo quando recitiamo un atto di carità ma anche quando facciamo la sua volontà o quando compiamo un dovere sia pur minimo per piacergli. Ognuna quindi delle nostre azioni, per quanto volgare ella sia in se stessa, può essere trasformata in un atto di amore e farci avanzare verso la perfezione. Il progresso sarà tanto più reale e più rapido, quanto più intenso e più generoso sarà quest'amore e quindi quanto più il nostro sforzo sarà energico e costante; perchè ciò che conta agli occhi di Dio è la volontà, è lo sforzo, indipendentemente da ogni emozione sensibile.

E poichè l'amore soprannaturale del prossimo è anch'esso un atto d'amor di Dio, tutti i servizi che rendiamo ai nostri fratelli, vedendo in loro un riflesso delle divine perfezioni, o, ciò che torna lo stesso, vedendo in loro Gesù Cristo, diventano tutti atti d'amore che ci fanno avanzare verso la santità. Amare dunque Dio e il prossimo per Dio, ecco il segreto della perfezione, purchè su questa terra vi si aggiunga il sacrificio.

§ II. La carità sulla terra suppone il sacrificio.

321.   In paradiso ameremo senza bisogno di immolarci, ma sulla terra la cosa corre altrimenti. Nello stato attuale di natura decaduta ci è impossibile di amare Dio con amore vero ed effettivo senza sacrificarci per Lui.

È ciò che risulta da quanto abbiamo detto più sopra, ai n. 74-75, sulle tendenze della natura corrotta che restano nell'uomo rigenerato. Noi non possiamo amar Dio senza combattere e mortificare queste tendenze; è lotta che comincia col primo svegliarsi della ragione e termina solo con l'ultimo respiro. Vi sono, è vero, momenti di sosta, in cui la lotta è meno viva; ma anche allora non possiamo disarmare senza esporci ai contrattacchi del nemico. È un fatto provato dalla testimonianza della Sacra Scrittura.

La Sacra Scrittura ci dichiara apertamente la necessità assoluta del sacrificio o dell'abnegazione per amar Dio e il prossimo.

322.   A) A tutti i suoi discepoli rivolge Nostro Signore questo invito: "Chi vuol seguir me, rinneghi sè stesso, prenda la sua croce e mi segua: "Si quis vult post me venire, abnegat semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me 322-1". Per seguire Gesù ed amarlo, è condizione essenziale il rinunziare a sè stesso, cioè alle cattive tendenze della natura, all'egoismo, all'orgoglio, all'ambizione, alla sensualità, alla lussuria, all'amore disordinato delle comodità e delle ricchezze; è il portare la propria croce, accettare i patimenti, le privazioni, le umiliazioni, i rovesci di fortuna, le fatiche, le malattie, in una parola tutte quelle croci provvidenziali che Dio ci manda per provarci, per rassodarci nella virtù e facilitarci l'espiazione delle colpe. Allora, e allora soltanto, si può essere suoi discepoli e camminare per le vie dell'amore e della perfezione.

Gesù conferma questa lezione col suo esempio. Egli che era venuto dal cielo espressamente per mostrarci il cammino della perfezione, non tenne altra via che quella della croce: Tota vita Christi crux fuit et martyrium. Dal presepio al Calvario è una lunga serie di privazioni, d'umiliazioni, di pene, di fatiche apostoliche, coronate dalle angoscie e dalle torture della dolorosa sua passione. È il commento più eloquente del "Si quis vult venire post me"; se ci fosse stata altra via più sicura, ei ce l'avrebbe mostrata, ma sapendo che non c'era, tenne quella per trarci a seguirlo: "Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini: "Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum 322-2". Così l'intesero gli Apostoli che ci ripetono, con S. Pietro, che se Cristo patì per noi, lo fece per trarci alla sua sequela: "Christus passus est pro nobis, vobis relinquens exemplum ut sequamini vestigia ejus 322-3".

323.   B) Tal è pur l'insegnamento di S. Paolo: per lui la perfezione cristiana consiste nello spogliarsi dell'uomo vecchio e rivestirsi del nuovo, "exspoliantes vos veterem hominem cum actibus suis et induentes novum 323-1". Or l'uomo vecchio è il complesso delle cattive tendenze ereditate da Adamo, è la triplice concupiscenza che bisogna combattere e infrenare con la pratica della mortificazione. Dice quindi nettamente che coloro che vogliono essere discepoli di Cristo devono crocifiggere i loro vizi e i loro cattivi desideri: "Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis 323-2". È condizione essenziale, tanto ch'egli stesso si sente obbligato a castigare il suo corpo e a reprimere la concupiscenza per non rischiare di essere riprovato: "Castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte, cum aliis prædicaverim, ipse reprobus efficiar323-3.

324.   C) S. Giovanni, l'apostolo dell'amore, non è meno chiaro e netto: insegna che, per amar Dio, bisogna osservare i comandamenti e combattere la triplice concupiscenza che regna da padrona nel mondo; e aggiunge che se si ama il mondo e ciò che è nel mondo, cioè la triplice concupiscenza, non si può possedere l'amor di Dio: "Si quis diligit mundum, non est caritas Patris in eo324-1. Ora per odiare il mondo e le sue seduzioni, è chiaro che bisogna praticare lo spirito di sacrificio, privandosi dei piaceri cattivi e pericolosi.

325.   2° Ed è del resto necessaria conseguenza dello stato di natura decaduta qual l'abbiamo descritto al n. 74, e della triplice concupiscenza che dobbiamo combattere, n. 193 ss. È impossibile infatti amar Dio e il prossimo senza sacrificar generosamente ciò che si oppone a questo amore. Ora, come abbiamo dimostrato, la triplice concupiscenza s'oppone all'amor di Dio e del prossimo; bisogna quindi combatterla senza tregua e pietà, se vogliamo progredire nella carità.

326.   Rechiamo qualche esempio. I nostri sensi esterni corrono avidamente verso tutto ciò che li solletica e mettono in pericolo la fragile nostra virtù. Che fare per resistervi? Ce lo dice Nostro Signore coll'energico suo linguaggio: "Se il tuo occhio destro è per te occasione di caduta, cavalo e gettalo via da te: è meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, anzichè tutto il tuo corpo venga gettato nell'inferno" 326-1. Il che significa che bisogna saper staccare con la mortificazione gli occhi, le orecchie, tutti i sensi da ciò che è occasione di peccato; altrimenti non c'è nè salvezza nè perfezione.

Lo stesso si dica dei nostri sensi interni, specialmente della fantasia e della memoria; chi non sa a quali pericoli ci esponiamo se non ne reprimiamo sul nascere i traviamenti?

Le stesse nostre facoltà superiori, l'intelligenza e la volontà, sono soggette a molte deviazioni, alla curiosità, all'indipendenza, all'orgoglio; quanti sforzi non sono necessari, quante lotte sempre rinascenti per tenerle sotto il giogo della fede e dell'umile sottomissione alla volontà di Dio e dei suoi rappresentanti!

Dobbiamo dunque confessare che, se vogliamo amar Dio ed il prossimo per Dio, bisogna saper mortificare l'egoismo, la sensualità, l'orgoglio, l'amore disordinato delle richezze, onde il sacrifizio diventa necessario come condizione essenziale dell'amor di Dio sulla terra.

È questo in sostanza il pensiero di S. Agostino quando dice: "Due amori hanno fatto due città: l'amor di sè spinto fino al disprezzo di Dio ha fatto la città terrestre; l'amor di Dio spinto fino al disprezzo di sè ha fatto la città celeste" 326-2. Non si può, in altre parole, amar veramente Dio che disprezzando se stesso, cioè disprezzando e combattendo le cattive tendenze. In quanto a ciò che vi è di buono in noi, bisogna esserne grati al primo suo autore e coltivarlo con sforzi incessanti.

327.   La conclusione che logicamente ne viene è che, se per essere perfetti bisogna moltiplicare gli atti d'amore, non è meno necessario moltiplicare gli atti di sacrificio, poichè sulla terra non si può amare che immolandosi. Del resto si può dire che tutte le nostre opere buone sono insieme atti d'amore e atti di sacrificio: atti di sacrificio in quanto ci distaccano dalle creature e da noi stessi, atti di amore in quanto ci uniscono a Dio. Resta quindi da vedere in che modo si possano conciliare insieme questi due elementi.

§ III. Parte rispettiva dell'amore e del sacrificio nella vita cristiana.

328.   Dovendo l'amore e il sacrificio avere la loro parte nella vita cristiana, quale sarà l'ufficio di ognuno di questi due elementi? Su tale argomento, vi sono punti in cui tutti convengono e altri in cui si manifesta qualche disparere, benchè poi in pratica i dotti delle diverse scuole riescano a conclusioni pressochè identiche.

329.   1° Tutti ammettono che in sè, nell'ordine ontologico o di dignità, l'amore tiene il primo posto: è lo scopo e l'elemento essenziale della perfezione, come abbiamo provato nella prima nostra tesi, n. 312. L'amore quindi occorre tenere primieramente in vista, a questo mirare continuamente, è lui che deve dare al sacrificio l'intima sua ragione e il suo valore principale: "in omnibus respice finem". Bisogna dunque parlarne fin dal principio della vita spirituale e far rilevare che l'amor di Dio facilita singolarmente il sacrificio senza però poterne mai dispensare.

330.   2° Quanto all'ordine cronologico, tutti ammettono pure che questi due elementi sono inseparabili e che devono quindi coltivarsi insieme e anche compenetrarsi, poichè non v'è sulla terra amore vero senza sacrificio, e che il sacrificio fatto per Dio è una delle migliori prove di amore.

Tutta la questione quindi si riduce in fondo a questa: nell'ordine cronologico, su quale elemento bisogna maggiormente insistere, sull'amore o sul sacrificio? Or qui ci troviamo di fronte a due tendenze e a due scuole diverse.

331.   A) S. Francesco di Sales, appoggiandosi su molti rappresentanti della scuola benedettina e domenicana e confidando negli aiuti che ci offre la natura rigenerata, dà la precedenza all'amor di Dio per farci accettare e praticar meglio il sacrificio; ma non esclude quest'ultimo, chiede anzi alla sua Filotea molto spirito di rinunzia e di sacrificio; lo fa però con molto riguardo e con molta dolcezza nella forma per meglio arrivare al suo scopo. Il che appare fin dal primo capitolo dell'Introduzione alla vita devota: "La vera e viva devozione presuppone l'amor di Dio, anzi non è altro in se che in vero amor di Dio... E appunto perchè la devozione sta in un certo grado di eccellente carità, non solo ci rende pronti, attivi, diligenti nell'osservanza di tutti i comandamenti di Dio, ma ci stimola pure a fare con prontezza ed affetto quante più buone opere possiamo, benchè non siano in alcun modo comandate ma solamente consigliate o ispirate". Ora osservare i comandamenti, seguire i consigli e le ispirazioni della grazia, è certamente un particare un alto grado di mortificazione. Del resto il Santo chiede a Filotea che cominci dal mondarsi non solo dai peccati mortali ma anche dei peccati veniali, dall'affetto alle cose inutili e pericolose e dalle cattive inclinazioni. E quando tratta delle virtù, non ne dimentica la parte penosa; vuole soltanto che tutto sia condito coll'amor di Dio e del prossimo.

332.   B) Per altro verso, la scuola ignaziana e la scuola francese del secolo XVII, pur non dimenticando che l'amor di Dio è lo scopo da conseguire e quello che deve avvivare tutte le nostre azioni, mettono al primo posto, sopratutto per i principianti, la rinunzia, l'amor della croce o la crocifissione dell'uomo vecchio, come il più sicuro mezzo per arrivare al vero ed effettivo amore 332-1. Pare che temano che, se non v'insiste sul principio, molte anime cadano poi nell'illusione, immaginandosi d'essere già molto avanzate nell'amor di Dio mentre la loro pietà è più sensibile ed apparente che reale; onde poi certe miserande cadute al presentarsi di violente tentazioni o al sopravvenire delle aridità. Del resti il sacrificio, virilmente accettato per amor di Dio, conduce a una più generosa e più costante carità, e la pratica abituale dell'amor di Dio viene a coronare l'edificio spirituale.

333.   Conclusione pratica. Senza aver la pretesa di dirimere cotesta controversia, proporremo alcune conclusioni ammesse dai dotti di tutte le scuole.

A) Ci sono due eccessi da evitare: a) quello di voler lanciare troppo presto le anime in quella che si chiama la via dell' amore, senza esercitarle nello stesso tempo nella pratica austera della rinunzia quotidiana. Così si fomentano le illusioni e talora anche miserande cadute: quante anime, provando le consolazioni sensibili che Dio concede ai principianti e credendosi salde nelle virtù, si espongono alle occasioni di peccato, commettono imprudenze e cadono in colpe gravi! Un poco più di mortificazione, di vera umiltà, di diffidenza di se stesse, una lotta più corraggiosa contro le passioni, le avrebbe preservate da queste miserie.

b) Un altro eccesso sta nel parlare soltanto di rinunzia e di mortificazione senza far rilevare che sono soltanto mezzi per arrivare all'amor di Dio o manifestazioni di quest'amore. È questa la ragione per cui certe anime di buona volontà, ma ancor poco coraggiose, si sentono ributtate ed anche disanimate. Si sentirebbero maggiore slancio ed energia, se si mostrasse loro che questi sacrifici diventano molto più facili quando si fanno per amor di Dio: "Ubi amatur, non laboratur".

334.   B) Evitati questi eccessi, il direttore saprà scegliere per il suo penitente la via più conveniente al carattere suo e alle attrattive della grazia.

a) Vi sono anime sensibili e affettuose che non prendono gusto alla mortificazione se non dopo aver già praticato per qualche tempo l'amor di Dio. È vero che questo amore è spesso imperfetto, più ardente e sensibile che generoso e durevole. Ma, se si bada a giovarsi di questi primi slanci per mostrare che il vero amore non può perseverare senza sacrificio, se si riesce a far praticare, per amor di Dio, alcuni atti di penitenza, di riparazione, di mortificazione, quegli atti che sono più necessari a evitare il peccato, la loro virtù a poco a poco si rinsalda, si fortifica la loro volontà, e viene il momento in cui capiscono che il sacrificio deve andare di pari passo con l'amor di Dio.

b) Se si tratta invece di caratteri energici, abituati ad agire per dovere, si può, pur mettendo loro avanti agli occhi l'unione con Dio come scopo, insistere dapprincipio sulla rinunzia come pietra di paragone della carità, e far praticare la penitenza, l'umiltà e la mortificazione, pur condendo queste austere virtù con un motivo d'amor di Dio o di zelo per le anime.

Così non si separerà mai l'amore dal sacrificio, e si mostrerà che questi due elementi si conciliano e si perfezionano a vicenda.

§ IV. La perfezione consiste nei precetti o nei consigli?

335.   1° Stato della questione. Abbiamo visto che la perfezione essenzialmente consiste nell'amor di Dio e del prossimo spinto fino al sacrificio. Ora intorno all'amor di Dio e al sacrificio vi sono nello stesso tempo precetti e consigli: precetti che ci comandano, sotto pena di peccato, di fare questa o quella cosa o di astenercene; consigli che c'invitano a fare per Dio più di quello che ci è comandato, sotto pena d'imperfezione volontaria e di resistenza alla grazia. Vi allude Nostro Signore quando dichiara al giovane ricco: "Se vuoi entrar nella vita, osserva i comandamenti... Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: "Si autem vis ad vitam ingredi, serva mandata... Si vis perfectus esse, vende quæ habes et da pauperibus, et habebis thesaurum in cælo, et veni, sequere me335-1. Osservare dunque le leggi della giustizia e della carità in materia di proprietà basta per entrare in cielo; ma, se si vuole essere perfetti, bisogna vendere i propri beni, darne il prezzo ai poveri e praticare così la volontaria povertà 335-1. S. Paolo ci fa pure notare che la verginità è un consiglio e non un precetto, che lo sposarsi è cosa buona ma che restar vergine è anche migliore 335-2.

336.   2° La soluzione. Alcuni autori ne hanno conchiuso che la vita cristiana consiste nell'osservanza dei precetti e la perfezione nei consigli. È un modo di vedere un po' semplicista e che, frainteso, potrebbe condurre a funeste conseguenza. La verità è che la perfezione esige prima di tutto l'adempimenti dei precetti e secondariamente l'osservanza d'un certo numero di consigli.

È questo appunto l'insegnamento di S. Tommaso 336-1. Dopo aver provato che la perfezione non è altro che l'amor di Dio e del prossimo, conchiude che in pratica consiste essenzialmente nei precetti, di cui il principale è quello della carità, e secondariamente nei consigli, i quali pure si riferiscono tutti alla carità, perchè allontanano gli ostacoli che si oppongono al suo esercizio. Spieghiamo questa dottrina.

337.   A) La perfezione esige prima di tutto e imperiosamente l'adempimento dei precetti; è necessario inculcar fortemente questo concetto a certe persone che, per esempio, col pretesto della devozione, dimenticano i doveri del proprio stato, oppure, per praticar la limosina con maggior pompa, ritardano indefinitamente il pagamento dei debiti, insomma a tutti quelli che trascurano questo o quel precetto del decalogo con la pretesa di più alta perfezione. Ora è evidente che la violazione d'un precetto grave, come è quello di pagare i debiti, distrugge in noi la carità, e che il pretesto di far l'elemosina non può giustificare questa infrazione della legge naturale. Parimente la violazione volontaria d'un precetto in materia lieve è un peccato veniale, che, senza distruggere la carità, ne impaccia più o meno l'esercizio e sopratutto offende Dio e diminuisce la nostra intimità con lui; il che è vero principalmente del peccato veniale deliberato e frequente, che crea in noi degli attacchi e c'impedisce di slanciarci liberamente verso la perfezione. Bisogna dunque, per essere perfetti, osservare prima di tutto i precetti.

338.   B) Ma è necessario aggiungervi l'osservanza dei consigli, almeno di alcuni, specialmente di quelli impostici dall'adempimento dei doveri del nostro stato.

a) Così i Religiosi, essendosi obbligati per voto a praticare i tre grandi consigli evangelici della povertà, della castità e dell'obbedienza, non possono santificarsi senza essere fedeli ai loro voti. Del resto questa pratica facilita singolarmente l'amor di Dio distaccando l'anima dai principali ostacoli che s'oppongono alla divina carità: la povertà, strappandoli all'amore disordinato delle ricchezze, fomenta lo slancio del cuore verso Dio e i beni celesti; la castità, sottraendoli ai piaceri della carne, anche a quelli leciti nel santo stato del matrimonio, li aiuta ad amar Dio senza divisione; l'obbedienza, combattendo l'orgoglio e lo spirito d'indipendenza, assoggetta la loro volontà a quella di Dio ed è in sostanza un atto d'amore.

339.   b) Quelli poi che non hanno fatto voti, devono, per essere perfetti, praticarne lo spirito, ognuno secondo la propria condizione, le ispirazioni della grazia e i consigli d'un savio direttore. Così praticheranno lo spirito di povertà, privandosi di molte cose inutili per poter fare qualche risparmio da erogare in elemosine e in opere di beneficenza; lo spirito di castità, anche se sono coniugati, usando moderatamente e con qualche restrizione dei legittimi piaceri del matrimonio e diligentemente evitando tutto ciò che è proibito o pericoloso; lo spirito di obbedienza, assoggettandosi docilmente ai propri superiori, in cui vedranno l'immagine di Dio, e alle ispirazioni della grazia accertate da un savio direttore.

Amar dunque Dio e il prossimo per Dio e saper sacrificarsi a fine di meglio osservare questo doppio precetto e i consigli che vi si riferiscono, ognuno secondo il proprio stato, qui sta la vera perfezione.

§ V. Dei diversi gradi di perfezione.

La perfezione ha su questa terra i suoi gradi e i suoi limiti; onde due questioni:

I. Dei diversi gradi di perfezione.

340.   I gradi per cui uno si eleva alla perfezione sono numerosi; e non è qui il caso di enumerarli tutti ma solo di notare le principali tappe. Ora, secondo la dottrina comune, esposta da S. Tommaso, si distinguono tre tappe principali, o, come generalmente si dice, tre vie, quella degli incipienti, quella dei proficienti, quella dei perfetti, secondo lo scopo principale a cui si mira.

341.   a) Nel primo stadio, la principale cura degli incipienti è di non perdere la carità che possiedono: lottano quindi per evitare il peccato, sopratutto il peccato mortale, e per trionfare delle male cupidigie, delle passioni e di tutto ciò che potrebbe far loro perdere l'amor di Dio 341-1. Questa è la via purgativa, il cui scopo è di mondar l'anima dalle sue colpe.

342.   b) Nel secondo stadio si vuol progredire nella pratica positiva delle virtù, e fortificar la carità. Essendo già purificato, il cuore è più aperto alla luce divina e all'amor di Dio: si ama di seguire Gesù e imitarne le virtù, e poichè, seguendolo, si cammina nella luce, questa via si chiama illuminativa 342-1. L'anima si studia di schivare non solo il peccato mortale, ma anche il veniale.

343.   c) Nel terzo stadio, i perfetti non hanno più che un solo pensiero, star uniti a Dio e deliziarsi in Lui. Costantemente studiandosi di unirsi a Dio, sono nella via unitiva. Il peccato fa loro orrore, perchè temono di dispiacere a Dio e di offenderlo; le virtù li attirano, specialmente le virtù teologali, perchè sono mezzi d'unirsi a Dio. La terra quindi sembra loro un esilio, e, come S. Paolo, desiderano di morire per andarsene con Cristo 343-1.

Sono queste brevi indicazioni soltanto che più tardi ripiglieremo e svolgeremo nella seconda parte di questo Compendio, dove seguiremo un'anima dalla prima tappa, la purificazione dell'anima, all'unione trasformante che la prepara alla visione beatifica.

II. Dei limiti della perfezione sulla terra.

344.   Quando si leggono le vite dei santi e principalmente dei grandi contemplativi, si resta meravigliati al vedere a quali sublimi altezze può elevarsi un'anima generosa che nulla rifiuta a Dio. Nondimeno vi sono dei limiti alla nostra perfezione su questa terra, limiti che non si deve voler oltrepassare, sotto pena di ricadere in un grado inferiore o anche nel peccato.

345.   1° È certo che non si può amar Dio tanto quanto è amabile: Dio infatti è infinitamente amabile e il nostro cuore, essendo finito, non potrà mai amarlo, anche in cielo, che con amore limitato. Possiamo quindi sforzarci d'amarlo sempre più, anzi, secondo S. Bernardo, la misura d'amar Dio è d'amarlo senza misura. Ma non dimentichiamo che il vero amore, più che il pii sentimenti, consiste in atti di volontà, e che il miglior mezzo d'amar Dio è di conformare la nostra volontà alla sua, come spiegheremo più avanti, trattando della conformità alla divina volontà.

346.   2° Sulla terra non si può amar Dio ininterrottamente e senza debolezze. Si può certamente con grazie particolari che non sono rifiutate alle anime di buona volontà, schivare ogni peccato veniale deliberato ma non ogni colpa di fragilità; nè si diventa mai impeccabili, come la Chiesa ha in parecchie circostanze dichiarato.

A) Nel Medio Evo, i Beguardi avevano preteso che "l'uomo, nella vita presente, è capace d'acquistare tal grado di perfezione da divenire affatto impeccabile e da non potere crescere di più in grazia" 346-1. Ne concludevano che colui il quale ha conseguito questo grado di perfezione, non deve più nè digiunare nè pregare, perchè in questo stato la sensualità è talmente assoggettata allo spirito e alla ragione ch'egli può concedere al suo corpo ogni diletto; non è più obbligato ad osservare i precetti della Chiesa, nè ad obbedire agli uomini, nè anche a praticare gli atti delle virtù, tutte cose proprie dell'uomo imperfetto. Sono dottrine pericolose che finiscono poi nell'immoralità; quando uno si crede impeccabile e non si esercita più nella virtù, diventa presto preda delle più vili passioni. Ed è ciò che avvenne ai Beguardi, che il Concilio ecumenico di Vienna dovette poi giustamente condannare nel 1311.

347.   B) Nel secolo XVII, Molinos rinnovò quest'errore, insegnando che "con la contemplazione acquisita si arriva a un tal grado di perfezione che non si commettono più peccati nè mortali nè veniali". Ma mostrò troppo bene col suo esempio che, con massime apparentemente così alte, si è pur troppo esposti a cadere in scandalosi disordini. Fu giustamente condannato da Innocenzo XI il 19 novembre 1687, e quando si leggono le proposizioni che aveva osato sostenere, si resta inorriditi delle orribili conseguenze a cui conduce questa pretensione d'impeccabilità 347-1. -- Siamo dunque più modesti e pensiamo soltanto correggerci delle colpe deliberate e diminuire il numero di quelle di fragilità.

348.   3° Sulla terra non si può amar Dio costantemente o anche abitualmente con amore così perfettamente puro e disinteressato che escluda ogni atto di speranza. A qualunque grado di perfezione si sia giunti, si è obbligati a fare di tanto in tanto degli atti di speranza, e non si può quindi in modo assoluto restare indifferente alla propia salvezza. Vi furono, è vero, dei santi che, nelle prove passive, s'acconciarono momentaneamente alla loro riprovazione in modo ipotetico, cioè se tale fosse la volontà di Dio, pur protestando che in tal caso non volevano cessare d'amar Dio, ma sono ipotesi che si devono ordinariamente scartare, perchè di fatto Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini.

Si possono però fare, di quando in quando, atti di amor puro senza alcuna mira a sè stesso e quindi senza attualmente sperare o desiderare il cielo. Tal è, per esempio, questo atto d'amore di S. Teresa: 348-1 "Se vi amo, O Signore, non è per il cielo che m'avete promesso; se temo d'offendervi, non è per l'inferno di cui sarei minacciata; ciò che m'attira verso di voi, o Signore, siete voi, voi solo, che vedo inchiodato alla croce, col corpo straziato, tra agonie di morte. E il vostro amore si è talmente impadronito del mio cuore che, quand'anche non ci fosse il paradiso, io vi amerei lo stesso; quand'anche non ci fosse l'inferno, pure io vi temerei. Nulla voi avete da darmi per provocare il mio amore; perchè, quand'anche non sperassi ciò che spero, pure io vi amerei come vi amo".

349.   Abitualmente vi è nel nostro amor di Dio un misto d'amor puro e d'amore di speranza, il che significa che noi amiano Dio e per sè stesso, perchè è infinitamente buono, e anche perchè è la fonte della nostra felicità. Questi due motivi non si escludono, perchè Dio volle che nell'amarlo e nel glorificarlo troviamo la nostra felicità.

Non ci affanniamo quindi di questo misto e, pensando al paradiso, diciamo soltanto che la nostra felicità consisterà nel posseder Dio, nel vederlo, nell'amarlo e nel glorificarlo; così il desiderio e la speranza del cielo non impediranno che il motivo dominante delle nostre azioni sia veramente l'amor di Dio.

CONCLUSIONE.

350.   Amore e sacrificio, ecco dunque tutta la perfezione cristiana. Or chi non può, con la grazia di Dio, adempiere questa doppia condizione? È dunque così difficile amar Colui che è infinitamente amabile e infinitamente amante? L'amore che ci si chiede non è qualche cosa di straordinario, è l'amore di abnegazione, è il dono di sè stesso, è specialmente la conformità alla divina volontà. Voler amare è dunque amare; osservare i comandamenti per Dio è amare; pregare è amare; compiere i doveri del proprio stato per piacere a Dio è amare; anzi ricrearsi, nutrirsi con le stesse intenzioni è amare; rendere servizio al prossimo per Dio è amare. Non v'è quindi nulla di più facile, con la grazia di Dio, del praticare costantemente la divina carità e così incessantemente progredire verso la perfezione.

351.   Il sacrificio certamente appare più penoso; ma non ci si chiede di amarlo per sè stesso: basta amarlo per Dio, o, in altre parole, persuadersi che sulla terra non si può amar Dio senza rinunziare a ciò che è di ostacolo al suo amore. Allora il sacrificio diventa prima tollerabile e poi presto anche amabile. Una madre che passa le lunghe notti al capezzale del foglio ammalato, non accetta forse lietamente le sue fatiche, quando ha la speranza, specialmente poi se ha la certezza di salvargli la vita? Ora noi abbiamo non solo la speranza ma la certezza di piacere a Dio, di procurarne la gloria, e nello stesso tempo di salvarci l'anima, quando, per amor di Dio, c'imponiamo i sacrifici che ci domanda. E non abbiamo per rinfrancarci gli esempi e gli aiuti dell'Uomo-Dio? Non patì Gesù quanto e più di noi per glorificare il Padre suo e salvare le anime nostre? E noi, suoi discepoli, incorporati a lui col battesimo, nutriti del suo corpo e del suo sangue, esiteremo a patire in unione con lui, per amore di lui, secondo le stesse sue intenzioni? E non è forse vero che la croce ha i suoi vantaggi, specialmente per i cuori che amano? "Nella croce sta la salute, dice l'Imitazione 351-1; nella croce la vita; nella croce la protezione contro i nemici; nella croce una soavità tutta celeste: "In cruce salus, in cruce vita, in cruce protectio ab hostibus, in cruce infusio supernæ suavitatis". Concludiamo dunque con S. Agostino: "Per i cuori che amano non vi sono sacrifici troppo penosi; vi si trova anzi diletto, come si vede in quelli che amano la caccia, la pesca, la vendemmia, gli affari... Perchè, quando si ama, o non si patisce o anche qual patimento si ama, aut non laboratur aut et labor amatur351-2.

E affrettiamoci a progredire, per la via del sacrificio e dell'amore, verso la perfezione, perchè per noi è un obbligo.


296-1 Max Nordau, Dégénérescence, t.I, p. 115; J. H. Leure, La psychologie des phénomènes religieux; E. Murisier, Les maladies du sentiment religieux.

296-2 Matth., VII, 6.

296-3 W. James, L'expérience religieuse, trad. Abauzit, 1906, p. 9-12.

297-1 M. Montmorand, Psychologie des mystiques, 1920.

297-2 Matth., VII, 20.

301-1 È quanto osserva S. Fr di Sales, Intr. alla vita devota, P. I, c. I, che è da leggersi per intero.

306-1 S. Thom., IIª IIæ, q. 184, a. 1-3; Opuscul. de perfectione vitæ spiritualis; Alvarez de Paz, op. cit., l. III; Le Gaudier, op. cit., P. 1ª; Schram, Instit. mysticæ, § IX-XX; Ribet, L'Ascétique chrétienne, c. IV-VI; Ighina, Istituzioni di Teol. Ascet. e Mistica, Mondovì, 1889; Garrigou-Lagrange, Perfection chrétienne et contemplation, t. I, p. 151-173.

306-2 Sum. theol., IIª IIæ, q. 184, a. 1.

307-1 S. Thom, Iª IIæ, q. 3, a. 1; Cfr. Tanquerey, Syn. Theol. moralis. Tr. de ultimo fine.

308-1 J.-J. Olier, Pietas Seminarii, n. 1.

309-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 184, a. 3; cfr. De perfectione vitæ spiritualis, c. I, V-VI.

312-1 Luc., X, 25-29; cfr. Deut., VI, 5-7.

312-2 Matth., XXII, 39-40.

312-3 Rom., XIII, 10.

314-1 I Joan., III, 16; IV, 10.

314-2 Iª Lettera di S. Giovanni, IV, 7-16. Questa lettera è da leggersi tutta.

317-1 Joan., XIV, 23.

318-1 Trattato dell'amor di Dio, l. XI, c. 8.

318-2 I Cor., XIII, 4.

319-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 23, a. 8.

319-2 S. Fr. di Sales, l. c., c. 9.

322-1 Matth., XVI, 24; cfr. Luc., IX, 23. -- Si veda il commentario del B. Grignion di Montfort, Lettera circolare agli Amici della Croce, Roma, 1909.

322-2 Joan., XII, 32.

322-3 I Petr., II, 21.

323-1 Col., III, 9.

323-2 Galat., V, 24.

323-3 I Cor., IX, 27.

324-1 I Joan., II, 15.

326-1 Matth., V, 29.

326-2 De civitate Dei, XIV, 28: "Fecerunt itaque civitates duas amores duo: terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, cælestem vero amor Dei usque ad contemptum sui".

332-1 Non si dà quindi un'idea compita della spiritualità berulliana passandone sotto silenzio la dottrina sull'abnegazione.

335-1 Matth., XIX, 17, 21.

335-2 I Cor., VII, 25-40.

336-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 184, a. 3: "Perfectio essentialiter consistit in præceptis... secundario autem et instrumentaliter in consiliis: quæ omnia sicut et præcepta ordinantur ad caritem".

341-1 "Nam primo quidem incumbit homini studium principale ad recedendum a peccato et resistendum concupiscentiis ejus, quæ in contrarium caritatis movent: et hoc pertinet ad incipientes, in quibus caritas est nutrienda vel fovenda, ne corrumpatur". (Sum. theol., 2ª 2æ, q. 24, a. 9.)

342-1 "Secundum autem studium succedit ut homo principaliter intendat ad hoc quod in bono proficiat; et hoc studium pertinet ad proficientes, qui ad hoc principaliter intendunt ut in eis caritas per augmentum roboretur". (L. cit.)

343-1 "Tertium autem studium est ut homo ad hoc principaliter intendat ut Deo inhæreat, et eo fruatur: et hoc pertinet ad perfectos, qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo". (L. cit.)

346-1 Denz.-Bann., n. 471. -- Cfr. P. Pourrat, La Spiritualité chrétienne, t. II, p. 327-328.

347-1 Denz.-Bann., n. 1221 ss.

348-1 Storia di S. Teresa ricavata dai Bollandisti, t. II, c. XXXI, (Lega Eucaristica, Milano).

351-1 Imitazione, l. II, c.12, v. 2.

351-2 S. August., De bono viduitatis, c. 21, P. L., XL, 448.


Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@gmail.com>.
Ultima revisione del testo: 9 ottobre 2008.
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