ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica

PARTE SECONDA
Le Tre Vie

LIBRO I
La purificazione dell'anima
o la via purgativa


CAPITOLO II.

Della penitenza 705-1.

Indicata brevemente la necessità e la nozione della penitenza, esporremo:

NECESSITÀ E NOZIONE DELLA PENITENZA.

705.   Dopo la preghiera, la penitenza è il mezzo più efficace per purificar l'anima dalle colpe passate e anche per premunirla contro le future.

1° Quindi Nostro Signore, volendo dar principio al pubblico suo ministero, fa predicare dal precursore la necessità della penitenza: "Fate penitenza perchè il regno dei cieli è vicino: pœnitentiam agite, appropinquavit enim regnum cælorum 705-2. Dichiara di essere egli pure venuto a chiamare i peccatori a penitenza: "Non veni vocare justos, sed peccatores ad pœnitentiam705-3. Tanto necessaria è questa virtù che, se non facciamo penitenza, periremo: "si pœnitentiam non egeritis, omnes similiter peribitis705-4. Gli Apostoli compresero così bene questa dottrina che fin dalle prime prediche insistono sulla necessità della penitenza come condizione preparatoria al battesimo: "Pœnitentiam agite, et baptizetur unusquisque vestrum705-5.

La penitenza è infatti pel peccatore un atto di giustizia; avendo offeso Dio e violatine i diritti, è obbligato a riparare questo oltraggio: il che fa con la penitenza.

706.   2° La penitenza si definisce: una virtù soprannaturale, connessa con la giustizia, che inclina il peccatore a detestare il peccato perchè offesa di Dio, e a prendere la ferma risoluzione di schivarlo per l'avvenire e di ripararlo.

Comprende quindi quattro atti principali, di cui è facile vedere la genesi e la connessione. 1) Alla luce della ragione e della fede, vediamo che il peccato è un male, il più grande di tutti i mali, a dir vero, l'unico vero male, perchè offende Dio e ci priva dei più preziosi beni; questo male lo odiamo con tutta l'anima "iniquitatem odio habui". 2) Considerando d'altra parte che questo male è in noi, perchè abbiamo peccato, e che, anche quando vien perdonato, ne resta nell'anima qualche traccia, ne concepiamo un vivo dolore, dolore che ci tortura e stritola l'anima, una sincera contrizione, una profonda umiliazione. 3) Per evitare nell'avvenire questo odioso male, prendiamo la ferma risoluzione o il saldo proponimento di schivarlo, sollecitamente fuggendo le occasioni che vi ci potrebbero condurre e rafforzando la volontà contro le lusinghe dei pericolosi diletti. 4) Finalmente, persuasi che il peccato è un'ingiustizia, risolviamo di ripararlo e di espiarlo con sentimenti ed opere di penitenza.

ART. I. MOTIVI DI ODIARE E FUGGIRE IL PECCATO 707-1.

Prima d'esporre questi motivi 707-2, diciamo che cosa è il peccato mortale e il veniale.

707.   Nozione e specie. Il peccato è una trasgressione volontaria della legge di Dio. È dunque una disobbedienza a Dio e quindi un'offesa di Dio, perchè preferiamo la volontà nostra alla sua e violiamo così gl'imprescrittibili suoi diritti alla nostra sottomissione.

708.   a) Il peccato mortale. Quando con piena avvertenza e pieno consenso trasgrediamo una legge importante, necessaria al conseguimento del nostro fine, in materia grave, il peccato è mortale, perchè priva l'anima della grazia abituale che ne costituisce la vita soprannaturale (n. 105). Ecco perchè questo peccato è definito da S. Tommaso: un atto con cui ci distacchiamo da Dio, ultimo nostro fine, attaccandoci liberamente e disordinatamente a qualche bene creato. Perdendo infatti la grazia abituale che ci univa a Dio, ci distacchiamo da lui.

709.   b) Il peccato veniale. Quando la legge da noi violata non è necessaria al conseguimento del nostro fine, o quando la violiamo in materia leggiera, oppure, essendo la legge grave in sè, non la trasgrediamo con piena avvertenza o pieno consenso, il peccato è soltanto veniale, e non ci priva dello stato di grazia. Rimaniamo uniti a Dio nel fondo dell'anima, perchè vogliamo farne la volontà in tutto ciò che è necessario a conservarne l'amicizia e conseguire il nostro fine. È però sempre una trasgressione della legge di Dio e una offesa inflitta alla sua Maestà, come proveremo più avanti.

§ I. Del peccato mortale 710-1.

710.   Per pronunziare un retto giudizio sul peccato grave, bisogna considerare:

Chi con la meditazione approfondisca queste considerazioni, avrà per il peccato un odio invincibile.

I. Che cosa pensa Dio del peccato mortale.

Per averne una qualche idea, vediamo come lo castighi e come lo condanni nella S. Scrittura.

711.   1° Come lo castiga. A) Negli angeli ribelli: non commettono che un solo peccato, un peccato interno, un peccato di superbia, e Dio, loro Creatore e loro Padre, Dio che li amava non solo come opera delle sue mani ma anche come figli adottivi, si vede obbligato, per punirne la ribellione, a precipitarli nell'inferno, dove, per tutta l'eternità, saranno separati da lui e privi quindi di ogni felicità. Eppure Dio è giusto e non punisce mai i colpevoli più di quanto meritino; è misericordioso perfino nei castighi temperandone il rigore colla bontà. Dev'essere dunque qualche cosa d'abbominevole il peccato per meritare d'essere punito tanto rigorosamente.

712.   B) Nei nostri progenitori: erano stati ricolmi d'ogni sorta di beni, naturali, preternaturali e soprannaturali, n. 52-66. Ma commettono essi pure un peccato di disubbidienza e di superbia, ed ecco che perdono subito, con la vita della grazia, i doni gratuiti che erano stati così liberalmente loro largiti, vengono cacciati dal paradiso originale, di cui subiamo ancora le tristi conseguenze (n. 69-75). Ora Dio amava i nostri progenitori e se il Dio della giustizia e della misericordia dovette castigarli tanto severamente, perfino nella posterità, vuol dunque dire che il peccato è un male orribile che non potremo mai detestare abbastanza.

713.   C) Nella persona del Figlio. Per non lasciar eternamente perire l'uomo e conciliar nello stesso tempo i diritti della giustizia e della misericordia, il Padre manda il Figlio sulla terra, lo costituisce capo del genere umano, commettendogli d'espiare e riparare il peccato in vece nostra. Or che gli chiede per questa redenzione? Trentatrè anni di patimenti e di umiliazioni, coronati dalla fisica e morale agonia dell'orto degli Ulivi, del Sinedrio, del Pretorio, del Calvario. Chi vuol sapere che cosa sia il peccato, segua passo passo il divin Salvatore, dal presepio alla Croce: nella vita nascosta, ove pratica l'umiltà, l'obbedienza, la povertà, il lavoro; nella vita apostolica, tra le fatiche, le delusioni, gli affanni, le persecuzioni di cui è vittima; nella vita paziente, ove soffrì tali torture fisiche e morali, da parte degli amici e dei nemici, da venire a ragione chiamato l'uomo dei dolori; e poi dica a sè stesso in tutta sincerità: ecco l'opera dei miei peccati, "vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra". Così stenterà meno a comprendere che il peccato è il più grande dei mali.

714.   2° Come Dio condanna il peccato. La S. Scrittura ci presenta il peccato come la cosa più abominevole e criminosa.

a) È una disubbidienza a Dio, una trasgressione dei suoi ordini, che viene severamente e giustamente punita, come si vede nei nostro progenitori 714-1. Nel popolo d'Israele, che appartiene in modo speciale a Dio, questa disobbedienza è considerata come rivolta e ribellione 714-2. b) È un'ingratitudine verso il più insigne dei benefattori, un'empietà verso il più amabile dei padri: "Filios enutrivi et exaltavi, ipsi autem spreverunt me714-3. c) È una mancanza di fedeltà, una specie d'adulterio, perchè Dio è lo sposo delle anime e giustamente esige inviolabile fedeltà: "Tu autem fornicata es cum amatoribus multis714-4. d) È un'ingiustizia, perchè violiamo apertamente i diritti di Dio sopra di noi: "Omnis qui facit peccatum et iniquitatem facit, et peccatum est iniquitas714-5.

II. Che cosa è il peccato mortale in sè stesso.

Il peccato mortale è il male, l'unico vero male, perchè tutti gli altri mali non ne sono che la conseguenza o il castigo.

715.   1° Riguardo a Dio, è un delitto di lesa maestà divina: infatti offende Dio in tutti i suoi attributi, ma soprattutto come primo nostro principio, ultimo nostro fine, Padre nostro e nostro benefattore.

A) Essendo Dio il primo nostro principio, il nostro Creatore, da cui ci viene tutto ciò che siamo e tutto ciò che possediamo, è per ciò stesso il nostro supremo Padrone, a cui dobbiamo ubbidienza assoluta. Ora, col peccato mortale, noi lo disubbidiamo, facendogli l'ingiuria di preferire la volontà nostra alla sua, una creatura al Creatore! Facciamo anzi di peggio: ci rivoltiamo contro di lui, noi che per creazione siamo sudditi suoi assai più che non siano sudditi gli uomini soggetti ad un principe. a) Rivolta tanto più grave in quanto che è Padrone infinitamente sapiente e infinitamente buono che nulla ci ordina che non sia nello stesso tempo utile alla nostra felicità come alla sua gloria, mentre la nostra volontà, ben lo sappiamo, è fiacca, fragile, soggetta all'errore: eppure la preferiamo a quella di Dio! b) Questa rivolta poi è tanto meno scusabile, perchè, istruiti fin dall'infanzia da genitori cristiani, abbiamo conoscenza più chiara, più esatta dei diritti di Dio su di noi, e della malizia del peccato, cosicchè operiamo sapendo bene quello che facciamo. c) E perchè tradiamo così il nostro Padrone? Per un vile piacere che ci avvilisce e ci abbassa al livello dei bruti; per uno stolto orgoglio con cui ci appropriamo la gloria che appartiene solo a Dio; per un interesse, per un guadagno passeggiero a cui sacrifichiamo un bene eterno!

716.   B) Dio è pure l'ultimo nostro fine: ci creò e non potè creare che per sè, non essendovi fuori di lui bene alcuno più grande in cui possiamo trovar la nostra perfezione e la nostra felicità; ma poi è giusto e necessario che, usciti da Dio, a lui ritorniamo; essendo cosa sua e sua proprietà, dobbiamo riverirlo, lodarlo, servirlo e glorificarlo 716-1; teneramente amati da lui, dobbiamo anche noi riamarlo con tutta l'anima: nell'amarlo e nell'adorarlo troviamo la felicità e la perfezione. Ha quindi stretto diritto che l'intiera nostra vita con tutti i pensieri, tutti i desideri, tutte le azioni, sia rivolta a lui e lo glorifichi.

Ora, col peccato mortale, ci stacchiamo volontariamente da lui per dilettarci in un bene creato; gli facciamo l'ingiuria di preferirgli una sua creatura o meglio l'egoistica nostra soddisfazione; perchè in fondo più che alla creatura ci attacchiamo al diletto che in lei troviamo. È una flagrante ingiustizia, perchè si tende a privar Dio degli imprescrittibili suoi diritti su di noi e di quella gloria esterna che gli dobbiamo; è una specie d'idolatria, che erige, nel tempio del nostro cuore, un idolo a fianco del vero Dio; è un disprezzar la fonte d'acqua viva, che sola può dissetar le anime, e preferirgli quell'acqua fangosa che si trova in fondo alle cisterne scrostate, secondo l'energico linguaggio di Geremia 716-2: Duo enim mala fecit populus meus: me dereliquerunt fontem aquæ vivæ, et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas, quæ continere non valent aquas".

717.   C) Dio è pure per noi un Padre, che ci adottò per figli e ci tratta con sollecitudine tutta paterna (n. 94), colmandoci dei più preziosi suoi benefici, dotandoci di soprannaturale organismo onde farci vivere di vita simile alla sua, e largheggiando con noi di copiose grazie attuali onde porre in atto i suoi doni e accrescerci la vita soprannaturale. Ora, col peccato mortale, disprezziamo questi doni, ne abusiamo anzi per volgerli contro il nostro benefattore e il nostro Padre, profaniamo le sue grazie e l'offendiamo nel momento stesso in cui ci colma dei suoi beni. Non è ingratitudine tanto più colpevole quanto maggiori sono i doni ricevuti, che grida vendetta contro di noi?

718.   2° Rispetto a Gesù Cristo, nostro redentore, il peccato è una specie di deicidio. a) È infatti il peccato che cagionò i patimenti e la morte del divin Salvatore: "Christus passus est pro nobis 718-1... Lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo718-2. Perchè questo pensiero ci faccia impressione dobbiamo richiamare la parte che abbiamo personalmente avuta nella dolorosa Passione del Salvatore. Son io che con un bacio ho tradito il mio maestro, e qualche volta anche per qualche cosa di meno di trenta denari; io che fui causa del suo arresto e della sua condanna a morte; io ero là col popolaccio a gridare: Non hunc, sed Barabbam... Crucifige eum 718-3; io ero là coi soldati a flagellarlo con le mie immortificazioni, a coronarlo di spine con gl'interni miei peccati di sensualità e d'orgoglio, a porgli sulle spalle la pesante croce e a crocifiggerlo. Come bene spiega l'Olier 718-4, "la nostra avarizia inchioda la sua carità, la nostra collera la sua dolcezza, la nostra impazienza la sua pazienza, il nostro orgoglio la sua umiltà; e così con i nostri vizi attanagliamo, stringiamo in catene e facciamo a brani Gesù Cristo abitante in noi". Quanto dobbiamo odiare il peccato che ha così crudelmente inchiodato alla croce il nostro Salvatore!

b) Ora non possiamo certamente infliggergli più nuove torture perchè non può più patire; ma le presenti nostre colpe continuano ad offenderlo perchè, commettendole volontariamente, disprezziamo il suo amore e i suo benefici, rendiamo inutile per noi il sangue da lui così generosamente versato, lo priviamo di quell'amore, di quella riconoscenza, di quell'ubbidienza, a cui ha diritto. Non è un corrispondere al suo amore con la più nera ingratitudine e chiamar quindi sul nostro capo i più gravi castighi?

III. Gli effetti del peccato mortale.

Dio volle che la legge avesse una sanzione, che la felicità fosse, in fin dei conti, la ricompensa della virtù e il dolore castigo del peccato. Onde, considerando gli effetti del peccato, potremo in qualche modo arguirne la reità. Li possiamo studiare in questa vita o nell'altra.

719.   1° Per renderci conto dei terribili effetti del peccato mortale in questa vita, richiamiamo che cosa è un'anima in istato di grazia: abita in lei la SS. Trinità che vi trova le sue compiacenze e la orna delle sue grazie, delle sue virtù e dei suoi doni; sotto l'influsso della grazia attuale i suoi atti buoni diventano meritorii della vita eterna; possiede la santa libertà dei figli di Dio, partecipa della forza e della virtù di Dio e gode, in certi momenti specialmente, tale felicità che è come un saggio della felicità celeste. Or che fa il peccato mortale?

a) Caccia Dio dall'anima, e poichè il possesso di Dio è già un'anticipazione della beatitudine celeste, la sua perdita è come il preludio della riprovazione eterna: chi perde Dio non perde forse tutti i beni di cui Dio è la fonte?

b) Con lui perdiamo la grazia santificante, che ci faceva vivere d'una vita simile a quella di Dio, ond'è come una specie di suicidio spirituale; e perdiamo pure con lei il glorioso corteggio delle virtù e dei doni che l'accompagnavano. Se nell'infinita sua misericordia Dio ci lascia la fede e la speranza, queste virtù non sono più informate e avvivate dalla carità e non rimangono in noi che per ispirarci un timore salutare e un ardente desiderio di riparazione e di penitenza; intanto ci mostrano il triste stato dell'anima nostra eccitando in noi cocenti rimorsi.

720.   c) Perdiamo pure i meriti passati, accumulati con tanti sforzi, nè li potremo più ricuperare che per mezzo di una laboriosa penitenza; e finchè rimaniamo in peccato mortale, non possiamo meritar nulla pel cielo. Qual dissipazione di beni soprannaturali!

d) Bisogna aggiungervi la tirannica schiavitù che il peccatore deve or mai subire: in cambio della santa libertà di cui godeva, eccolo diventato schiavo del peccato, delle passioni cattive che si trovano come scatenate per la perdita della grazia e delle male abitudini che non tardano a formarsi con le ricadute così difficili a schivare, perchè "colui che pecca diventa schiavo del peccato, omnis qui facit peccatum, servus est peccati720-1. Infiacchiscono gradatamente le forze morali, le grazie attuali diminuiscono e sopraggiunge lo scoraggiamento e talvolta la disperazione; la è finita per questa povera anima se Dio, per un eccesso di misericordia, non viene a trarla con la sua grazia dal fondo dell'abisso.

721.   2° Che se sventuratamente il peccatore si ostina sino alla fine nella resistenza alla grazia, ecco l'inferno con tutti i suoi orrori. A) Prima la pena del danno, pena giustamente meritata. La grazia non aveva cessato di inseguire il colpevole; ma ei volle volontariamente morire nel suo peccato, volle rimanere volontariamente separato da Dio. Finchè era sulla terra, tutto assorto negli affari e nei piaceri, non aveva tempo di fermarsi sull'orrore del suo stato morale. Ma ora, che non vi sono più per lui nè affari nè piaceri, si trova costantemente in faccia alla terribile realtà. Dal fondo stesso della natura, dalle aspirazioni dell'anima e del cuore, dall'intiero suo essere si sente irresistibilmente tratto verso Colui che è il primo suo principio e il suo ultimo fine, l'unica fonte della sua perfezione e della sua felicità, verso quel Padre così amabile e così amante che l'aveva adottato per figlio, verso quel Redentore che l'aveva amato fino a morir sulla croce per lui; ma intanto si sente inesorabilmente respinto da una forza invincibile, forza che non è altro che il suo peccato. La morte l'ha ormai fissato, l'ha reso immobile nelle sue disposizioni, e avendo rigettato Dio nel momento stesso della morte, rimarrà da Dio eternamente separato. Non beatitudine, non perfezione: rimane affisso al suo peccato e in lui a tutto ciò che vi è di più ignobile e di più avvilito: "discedite a me maledicti".

722.   B) Alla pena del danno, che è di molto la più terribile, viene ad aggiungersi la pena del senso. Complice dell'anima, il corpo ne parteciperà pure il supplizio; la disperazione eterna che tortura l'anima del dannato produce già nel corpo una febbre intensa, una sete inestinguibile che nulla può calmare. Ma vi sarà pure un fuoco reale, benchè diverso dal fuoco materiale che vediamo sulla terra, che diverrà strumento della divina giustizia per castigare il nostro corpo e i nostri sensi; è giusto infatti che si sia puniti con ciò con cui si è peccato "per quæ peccat quis per hæc et torquetur722-1; onde, avendo il dannato voluto disordinatamente godere delle creature, in esse troverà strumenti di supplizio. Questo fuoco, acceso e diretto da mano intelligente, tormenterà tanto più le sue vittime quanto più intensamente avranno voluto godere i peccaminosi diletti.

723.   C) L'una e l'altra pena non finiranno mai ed è ciò che mette il colmo al castigo dei dannati. Perchè, se i minimi patimenti, quando siano continui, diventano quasi intollerabili, che dire di queste pene, già così intense in se stesse, che dopo milioni di secoli non faranno che ricominciare?

Eppure Dio è giusto, Dio è buono perfino nei castighi che è obbligato ad infliggere ai dannati. Bisogna dunque che il peccato sia male abbominevole se viene punito in tal maniera, sia il solo vero ed unico male. Dunque piuttosto morire che macchiarsi di un solo peccato mortale "potius mori quam fædari"; e, per meglio schivarlo, abbiamo orrore anche del peccato veniale.

§ II. Del peccato veniale deliberato.

Rispetto alla perfezione vi è grandissima differenza tra i peccati veniali di sorpresa e quelli che si commettono di proposito deliberato, con piena avvertenza e con pieno consenso.

724.   Delle colpe di sorpresa. I Santi stessi commettono qualche volta colpe di sorpresa, lasciandosi andare un istante, per irriflessione e per debolezza di volontà, a negligenze negli esercizi spirituali, ad imprudenze, a giudizi o a parole contrarie alla carità, a piccole bugie per scusarsi. Sono colpe certamente biasimevoli e le anime fervorose amaramente le deplorano, ma non sono ostacolo alla perfezione; il Signore che conosce la nostra debolezza le scusa facilmente: "ipse cognovit figmentum nostrum"; del resto le ripariamo quasi subito con atti di contrizione, di umiltà, di amore, che sono più durevoli e più volontari che non i peccati di fragilità.

Quello che dobbiamo fare rispetto a queste colpe è di diminuirne il numero e schivare lo scoraggiamento. a) Si possono diminuire con la vigilanza: si cerca di rifarsi alla causa e di sopprimerla, ma senza fretta od affanno, confidando più sulla grazia divina che sui nostri sforzi; bisogna soprattutto sforzarsi di sopprimere ogni affetto al peccato veniale; perchè come osserva S. Francesco di Sales 724-1, "se il cuore vi si attacca, si perde tosto la soavità della devozione e tutta la devozione stessa".

725.   b) Ma bisogna pure attentamente evitare lo scoraggiamento e il dispetto di coloro "che si irritano di essersi irritati, si rattristano di essersi rattristati" 725-1; questi movimenti provengono in sostanza dall'amor proprio che si turba e s'inquieta al vederci tanto imperfetti, Per schivar questo difetto bisogna guardar le colpe nostre con quella benignità con cui guardiamo quelle degli altri, odiare, sì, i nostri difetti e le nostre debolezze ma con odio tranquillo, con viva coscienza della nostra debolezza e della nostra miseria, e con ferma e calma volontà di far servire queste colpe alla gloria di Dio, adempiendo con maggior fedeltà ed amore il dovere presente.

Ma i peccati veniali deliberati sono grandissimo ostacolo al progesso spirituale e devono essere vigorosamente combattuti. A convincercene, vediamo la malizia e gli effetti.

I. Malizia del peccato veniale deliberato.

726.   Questo peccato è un male morale, il più gran male in sostanza dopo il peccato mortale; è vero che non ci fa deviar dal nostro fine ma ci ritarda il cammino, ci fa perdere un tempo prezioso e soprattutto è offesa di Dio; in ciò consiste principalmente la sua malizia.

727.   È infatti una disubbidienza a Dio, in materia leggiera, è vero, ma voluta dopo averci riflettuto, e che, agli occhi della fede, è veramente qualche cosa di odioso perchè assale l'infinita maestà di Dio.

A) È un'ingiuria, un insulto a Dio: mettiamo sulla bilancia da un lato la volontà di Dio e la sua gloria, e dall'altro il nostro capriccio, il nostro diletto, la nostra gloriuzza, e osiamo preferirci a Dio! Quale oltraggio! Una volontà, infinitamente sapiente e retta, sacrificata alla nostra che è così soggetta all'errore e al capriccio! "È, dice S. Teresa 727-1, come se si dicesse: Signore, benchè quest'azione vi dispiaccia, pure io la farò. So bene che voi la vedete, so molto bene che non la volete; ma preferisco seguire la mia fantasia e la mia inclinazione anzichè la vostra volontà. E vi par poca cosa trattar così? Per me, per quanto leggiera sia la colpa in se stessa, la giudico invece grave e gravissima".

728.   B) Ne consegue, per colpa nostra, una diminuzione della gloria esterna di Dio: fummo creati per procurarne la gloria obbedendo perfettamente e amorosamente ai suoi ordini; ora, ricusando di ubbidirgli, sia pure in materia leggiera, gli sottraiamo parte di questa gloria; in cambio di proclamare, come Maria, che vogliamo glorificarlo in tutte le nostre azioni "Magnificat anima mea Dominum", ricusiamo positivamente di glorificarlo in questa o in quella cosa.

C) Ed è quindi un'ingratitudine; colmati di più numerosi benefici perchè suoi amici, e sapendo che chiede in ricambio la nostra riconoscenza e il nostro amore, noi ricusiamo di fargli quel piccolo sacrificio; invece di studiarci di piacergli, non ci curiamo di dispiacergli. Onde un raffreddamento dell'amicizia di Dio verso di noi: egli ci ama senza riserva e chiede in ricambio che l'amiamo anche noi con tutta l'anima; "Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et in tota anima tua et in tota mente tua728-1. Ma noi non gli diamo che una parte di noi stessi, facciam delle riserve, e, pur volendo conservarne l'amicizia, gli mercanteggiamo la nostra e non gli diamo che un cuore diviso. C'è qui, com'è chiaro, indelicatezza, mancanza di slancio e di generosità, che non può che diminuire l'intimità con Dio.

II. Effetti del peccato veniale deliberato.

729.   1° In questa vita, il peccato veniale commesso frequentemente e di proposito deliberato, priva l'anima di molte grazie, diminuisce gradatamente il fervore e predispone al peccato mortale.

A) Il peccato veniale priva l'anima non della grazia santificante nè dell'amor di Dio, ma la priva d'una nuova grazia che avrebbe ricevuto se avesse resistito alla tentazione e quindi pure d'un grado di gloria che con la sua fedeltà avrebbe potuto acquistare; la priva d'un grado d'amore che Dio voleva darle. Non è questa una perdita immensa, la perdita d'un tesoro più prezioso del mondo intiero?

730.   B) È una diminuzione di fervore, vale a dire di quella generosità con cui l'anima si dà intieramente a Dio. Questa disposizione infatti suppone un alto ideale e lo sforzo costante per accostarvisi. Ora l'abitudine del peccato veniale è incompatibile con queste due cose.

a) Nulla tanto diminuisce il nostro ideale quanto l'affetto al peccato: in cambio d'essere pronti a far tutto per Dio e mirare alla vetta, ci fermiamo deliberatamente lungo il cammino, a mezza costa, per godere di qualche piccolo piacere proibito; perdiamo così un tempo prezioso; cessiamo di guardare in alto per trastullarci a cogliere alcuni fiori che presto appassiranno; cominciamo allora a sentir la fatica, e la vetta della perfezione, anche quella a cui eravamo personalmente chiamati, ci sembra troppo lontana e troppo ripida: diciamo a noi stessi che non è poi necessario mirare sì alto, e che uno può salvarsi a più buon mercato; e l'ideale che avevamo intravisto non ha più attrattive per noi. Uno dice a sè stesso: questi moti di compiacenza, queste piccole sensualità, queste amicizie sensibili, queste maldicenze sono poi cose inevitabili; bisogna rassegnarsi. b) Allora lo slancio verso le altezze è troncato; si camminava prima di passo allegro, sorretti dalla speranza di toccar la meta; ora invece si comincia a sentire il peso del giorno e della fatica, e, quando vogliamo riprendere le ascese, l'affetto al peccato veniale c'impedisce d'avanzare. L'uccello attaccato al suolo tenta invano di prendere lo slancio in alto: al suolo ricade spossato; così le anime nostre, trattenute da affetti a cui non vogliamo rinunziare, ricadono presto più o meno spossate dal vano sforzo che hanno tentato. Qualche volta, è vero, ci pare di poter riprendere l'antico slancio; ahimè! altri legami ci trattengono, e non abbiamo più la costanza necessaria per troncarli tutti uno dopo l'altro. Vi è dunque un raffreddamento di carità che dà da pensare.

731.   C) Il gran pericolo che allora ci minaccia è di scivolare a poco a poco giù fin nel peccato mortale. Crescono infatti le nostre inclinazioni al piacere proibito e d'altra parte le grazie di Dio diminuiscono, tanto che viene il momento in cui possiamo temere tutti i peggiori tracolli.

a) Crescono le nostre inclinazioni al piacere cattivo: quanto più si concede a questo perfido nemico tanto più chiede, perchè è insaziabile.

Oggi la pigrizia ci fa abbreviar la meditazione di cinque minuti, domani ne chiede dieci; oggi la sensualità si contenta di qualche piccola imprudenza, domani si fa più ardita ed esige qualche cosa di più. Dove fermarsi su questo pericoloso pendìo? Uno tenta di tranquillarsi pensando che son colpe solo veniali: ma ahimè! a poco a poco s'accostano alle colpe gravi, le imprudenze si rinnovano e turbano più profondamente l'immaginazione e i sensi. È il fuoco che cova sotto la cenere e che può diventar focolare d'incendio; è il serpente che uno si riscalda in seno e che si prepara a mordere e avvelenare la vittima. -- Il pericolo è tanto più prossimo per questo che, a furia di esporvisi, è meno temuto: vi si prende dimestichezza, si lasciano cadere, l'un dopo l'altro, i baluardi che difendevano la cittadella del cuore, e viene il momento in cui con un assalto più furioso, il nemico penetra nella piazzaforte.

732.   b) Il che è tanto più da temere in quanto che le grazie di Dio generalmente diminuiscono a proporzione delle nostre infedeltà. 1) È infatti legge di Provvidenza che le grazie ci sono date secondo la nostra cooperazione "secundum cujusque dispositionem et cooperationem". È questo in sostanza il senso della parola evangelica: "A chi ha, si dà di più e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha, qui enim habet dabitur ei et abundabit; qui autem non habet et quod habet auferetur ab eo732-1. Ora, con l'affetto al peccato veniale, noi resistiamo alla grazia e ne ostacoliamo l'azione nell'anima, onde ne riceviamo assai meno. Ora, se con più copiose grazie non abbiamo saputo resistere alle cattive inclinazioni della natura, vi resisteremo con grazie o con forze diminuite? 2) D'altra parte, quando un'anima manca di raccoglimento e di generosità, non riesce a cogliere quegli interni movimenti della grazia che la sollecitano al bene, perchè vengono presto soffocati dallo strepito delle rideste passioni. 3) Del resto la grazia non può santificarci se non chiedendoci sacrifici, ma le abitudini del piacere acquistate con l'affetto alle colpe veniali rendono questi sacrifici assai più difficili.

733.   Si può dunque conchiudere col P. L. Lallemand 733-1: "La rovina delle anime viene dal moltiplicarsi dei peccati veniali che cagionano la diminuzione dei lumi e delle ispirazioni divine, delle grazie e delle consolazioni interiori, del fervore e del coraggio per resistere agli assalti del nemico. Ne segue l'acciecamento, la debolezza, le cadute frequenti, l'abitudine, l'insensibilità, perchè, guadagnato che sia l'affetto, si pecca quasi senza aver sentimento del peccato".

734.   2° Gli effetti del peccato veniale nell'altra vita 734-1, ci mostrano quanto dobbiamo temerlo: infatti molte anime passano i lunghi anni nel Purgatorio per espiarlo. E che cosa soffrono in quel luogo d'espiazione?

A) Vi soffrono il più intollerabile dei mali, la privazione di Dio. Non è certamente una pena eterna ed è appunto questo che la distingue dalle pene dell'inferno. Ma, per un tempo più o meno lungo, proporzionato al numero e alla gravità delle colpe, queste anime che amano Dio, che, separate da tutte le gioie e distrazioni della terra, pensano costantemente a lui e bramano ardentemente di vederne la faccia, vengono private della sua vista e del suo possesso e patiscono ineffabili strazi. Capiscono ora che fuori di Lui non possono essere felici; ma ecco rizzarsi innanzi a loro, come insormontabile ostacolo, quella moltitudine di peccati veniali che non hanno sufficientemente espiati. Del resto sono tanto comprese della necessità della mondezza richiesta a contemplare la faccia di Dio che si vergognerebbero di comparire davanti a lui senza questa mondezza e non consentirebbero mai ad entrare in cielo finchè resta in loro qualche traccia del peccato veniale 734-2. Sono quindi in uno stato violento, che ben riconoscono d'aver meritato ma che non lascia per questo di torturarle.

735.   B) Inoltre, secondo la dottrina di S. Tommaso, un sottil fuoco le penetra, ne molesta l'attività, e fa loro provare fisici patimenti per espiare i colpevoli diletti a cui acconsentirono, Accettano certo di gran cuore questa prova, perchè intendono bene che è necessaria per unirsi a Dio.

"Vedendo, dice S. Caterina da Genova 735-1, il purgatorio ordinato a levar via le sue macchie, l'anima vi si getta dentro e le par trovare una grande misericordia per potersi levare quell'impedimento". Ma tale accettazione non toglie che queste anime soffrano molto: "L'amore di Dio, il quale ridonda nell'anima, le dà una contentezza sì grande che non si può esprimere, ma questa contentezza alle anime che sono in purgatorio non toglie scintilla di pena, anzi quell'amore, il quale si trova ritardato, è quello che fa la loro pena, e tanto fa pena maggiore quant'è la perfezione dell'amore del quale Dio le ha fatte capaci" 735-2.

Eppure Dio non è soltanto giusto ma anche misericordioso! Ama queste anime con amore sincero, tenero, paterno; desidera ardentemente di darsi ad esse per tutta l'eternità; e se non lo fa, è perchè vi è incompatibilità assoluta tra la infinita sua santità e la minima macchia, il minimo peccato veniale. Non potremo dunque mai troppo abbominarlo, mai troppo schivarlo e mai troppo ripararlo con la penitenza.

ART. II. MOTIVI E MEZZI DI RIPARARE IL PECCATO.

I. Motivi di penitenza.

Tre motivi principali ci obbligano a far penitenza dei nostri peccati:

UN DOVERE DI GIUSTIZIA RISPETTO A DIO.

736.   Il peccato infatti è una vera ingiustizia, perchè toglie a Dio una parte di quella gloria esterna a cui ha diritto; richiede quindi per giustizia una riparazione, che consisterà nel restituire a Dio, per quanto possiamo, l'onore e la gloria di cui l'abbiamo colpevolmente privato. Or quest'offesa, essendo, almeno oggettivamente infinita, non sarà mai intieramente riparata. Dobbiamo quindi espiare per tutta la vita; obbligo tanto più esteso quanto maggiori furono i benefici di cui siamo stati colmati, e più gravi e più numerose le colpe.

È quanto osserva Bossuet 736-1: "Non dobbiamo giustamente temere che la bontà di Dio, così indegnamente disprezzata, si cambi in implacabile furore? Che se la giusta sua vendetta è così grande contro i gentili..., non sarà la sua collera tanto più terribile per noi quanto più doloroso è per un padre l'aver perfidi figli e servi cattivi?" Dobbiamo quindi, egli dice, prendere le parti di Dio contro di noi. "Prendendo così contro di noi le parti della divina giustizia, obblighiamo la sua misericordia a prendere le parti nostre contro la sua giustizia. Quanto più deploreremo la miseria in cui siamo caduti, tanto più ci avvicineremo al bene che abbiamo perduto: Dio riceverà pietosamente il sacrificio del cuore contrito che noi gli offriremo in soddisfazione dei nostri delitti; e senza considerare che le pene che c'imponiamo non sono proporzionata vendetta, questo buon padre terrà conto soltanto che è volontaria". Renderemo del resto più efficace la nostra penitenza unendola a quella di Gesù Cristo.

UN DOVERE RISULTANTE DALLA NOSTRA INCORPORAZIONE A CRISTO.

737.   Fummo col battesimo incorporati a Cristo (n. 143), onde dobbiamo, partecipandone la vita, parteciparne pure le disposizioni. Ora Gesù, benchè impeccabile, prese sopra di sè, come capo d'un corpo mistico, il peso e, per così dire, la responsabilità dei nostri peccati, "posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum737-1. Ecco perchè condusse vita penitente dal primo istante della sua concezione sino al Calvario. Ben sapendo che il Padre non poteva essere placato dagli olocausti dell'Antica Legge, offre sè stesso come ostia per sostituir tutte le vittime; tutte le sue azioni saranno immolate con la spada dell'ubbidienza, e dopo una lunga vita, che altro non è se non continuo martirio, muore sulla croce, vittima dell'ubbidienza e dell'amore "factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis". Ma vuole che i suoi membri, per essere mondati dai loro peccati, s'uniscano al suo sacrifizio e siano vittime espiatrici insieme con lui: "Per essere il Salvatore del genere umano, ne volle essere la vittima. Ma l'unità del suo corpo mistico richiede che, essendosi immolato il capo, tutte le membra debbano pur essere ostie viventi." 737-2. È infatti evidente che se Gesù, benchè innocente, espiò i nostri peccati con così rigorosa penitenza, noi, che siamo colpevoli, dobbiamo associarci al suo sacrifizio con tanto maggior generosità quanto maggiori furono i nostri peccati.

738.   Ad agevolarci questo dovere, Gesù penitente viene a vivere in noi per mezzo del divino suo Spirito con le sue disposizioni di vittima.

"Così, dice l'Olier 738-1, leggendo i salmi bisogna onorare in David lo spirito di penitenza e ammirare con grande religione e posatezza le disposizioni dello Spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di penitenza, diffuso in questo Santo. Bisogna chiedere di parteciparvi con umiltà di cuore, con insistenza, fervore e perseveranza, ma soprattutto con l'umile fiducia che questo Spirito ci sarà comunicato. Certo non sentiremo sempre l'azione di questo Spirito divino, perchè opera spesso insensibilmente; ma se umilmente lo chiediamo, lo riceviamo, e opera in noi per renderci conformi a Gesù penitente, farci detestare ed espiare con lui i nostri peccati. La nostra penitenza è allora assai più efficace, perchè partecipa della virtù stessa del Salvatore: non siamo più noi soli a riparare, è Gesù che espia in noi e con noi. "Ogni penitenza esterna che non esce dallo Spirito di Gesù Cristo, dice l'Olier 738-2, non è vera e reale penitenza. Si possono esercitare su di sè rigori anche molto violenti; ma se non emanano da Nostro Signore penitente in noi, non possono essere penitenze cristiane. Solo per mezzo di lui si fa penitenza; ei la cominciò quaggiù sulla terra nella sua persona e la continua in noi... animando l'anima nostra delle interne disposizioni d'annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro noi stessi e di fortezza per compir su di noi la pena e la misura della soddisfazione che Dio Padre vuol ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne". Questa unione con Gesù penitente non ci dispensa dunque dai sentimenti e dalle opere di penitenza ma vi dà un maggior valore.

UN DOVERE DI CARITÀ.

La penitenza è un dovere di carità verso di noi e verso il prossimo.

739.   A) Verso di noi: il peccato infatti lascia nell'anima funeste conseguenze, contro cui è necessario reagire. a) Anche quando la colpa o il fallo è perdonato, ci resta generalmente da subire una pena più o meno lunga secondo la gravità e il numero dei peccati e secondo il fervore della contrizione nel momento del nostro ritorno a Dio. Questa pena dev'essere subìta in questo mondo o nell'altro. Ora è assai più utile espiarla in questa vita, perchè, quanto più prontamente e perfettamente paghiamo questo debito, tanto più l'anima diviene atta all'unione divina; d'altra parte più facile è questa espiazione sulla terra, perchè la vita presente è tempo di misericordia; è anche più feconda, perchè gli atti sodisfattorii sono nello stesso tempo meritorii (n. 209). Ama quindi l'anima propria chi fa pronta e generosa penitenza.

b) Ma il peccato lascia pure in noi una deplorevole facilità a commettere nuove colpe, appunto perchè accresce in noi l'amore disordinato del piacere. Ora nulla corregge meglio questo disordine quanto la virtù della penitenza; facendoci valorosamente tollerare le pene che la Provvidenza ci manda, stimolando il nostro ardore per le privazioni e le austerità compatibili con la salute, essa smorza gradatamente l'amor del piacere e ci fa paventare il peccato che esige tali riparazioni; facendoci praticar atti di virtù contrari alle cattive nostre abitudini, ci aiuta a correggercene e ci dà maggior sicurezza per l'avvernire 739-1. È dunque atto di carità verso sè stesso il far penitenza.

740.   B) È pure atto di carità verso il prossimo. a) In virtù della nostra incorporazione a Cristo, siamo tutti fratelli, tutti solidari gli uni degli altri (n. 148). Potendo dunque le nostre opere sodisfattorie essere utili agli altri, perchè la carità non ci indurrà a far penitenza non solo per noi ma anche per i fratelli? Non è questo il mezzo migliore d'ottenerne la conversione, o, se sono già convertiti, la perseveranza? Non è questo il miglior servizio che possiamo loro prestare, servizio mille volte più utile di tutti i beni temporali che potremmo lor dare? Non è un corrispondere alla divina volontà che, avendoci adottati tutti per figli, ci chiede di amare il prossimo come noi stessi e di espiarne le colpe come espiamo le nostre?

741.   b) Questo dovere di riparazione spetta più specialmente ai sacerdoti: è dovere del loro stato l'offrir vittime non solo per se stessi ma anche per le anime di cui sono incaricati: "prius pro suis delictis, deinde pro popoli741-1. Ma ci sono, fuori del sacerdozio, anime generose che, così nel chiostro come nel mondo, si sentono attirate a offrirsi vittime per espiare i peccati altrui. Vocazione nobilissima che le associa all'opera redentrice di Cristo, e a cui è bene animosamente corrispondere procurando di consultare un savio direttore per fissar con lui le opere di riparazione a cui dedicarsi 741-2.

742.   Diremo terminando che lo spirito di penitenza non è dovere imposto soltanto agl'incipienti e per brevissimo tempo. Quando si è ben capito che cos'è il peccato e quale offesa infinita infligge alla maestà divina, uno si crede obbligato a far penitenza per tutta la vita, perchè la vita stessa è troppo breve per riparare un'offesa infinita. Non bisogna quindi stancarsi mai di far penitenza.

Questo punto è così importante che il P. Faber, dopo aver lungamente riflettuto sulla causa per cui tante anime fanno così poco progresso, venne alla conclusione che questa causa sta "nella mancanza di costante dolore eccitato dal ricordo del peccato" 742-1. Se ne ha del resto la conferma negli esempi dei Santi, che non cessarono mai di espiar le colpe, talora assai leggiere, commesse in passato. Anche la condotta di Dio verso le anime che vuole innalzare alla contemplazione lo dimostra assai bene. Faticato che hanno per lungo tempo a purificarsi con gli esercizi attivi della penitenza, Dio, a dar l'ultima mano alla loro purificazione, invia quelle prove passive che descriviamo nella via unitiva. Infatti solo i cuori intieramente puri o purificati possono giungere alle dolcezze dell'unione divina: "Beati mundo corde quoniam ipsi Deum videbunt"!

II. La pratica della penitenza.

A praticar la penitenza in modo più perfetto, conviene unirsi a Gesù penitente chiedendogli di vivere in noi col suo spirito di vittima (n. 738); e poi associarsi ai suoi sentimenti e alle sue opere di penitenza.

743.   Questi sentimenti sono assai bene espressi nei salmi specialmente nel Miserere.

a) Prima di tutto la memoria abituale e dolorosa dei propri peccati: "peccatum meum contra me est semper743-1. Non conviene certi riandarli distintamente nella mente potendosi con ciò turbar l'immaginazione e cagionar nuove tentazioni. Bisogna ricordarsene in generale e soprattutto nutrirne sentimenti di contrizione e d'umiliazione.

Abbiamo offeso Dio alla sua presenza "et malum coram te feci743-2, quel Dio che è la santità stessa e che odia l'iniquità, quel Dio che è tutto amore e che noi abbiamo oltraggiato profanandone i doni. Non ci resta che ricorrere alla sua misericordia e implorarne il perdono, e bisogna farlo spesso: "Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam743-3. Abbiamo, è vero, speranza d'essere stati perdonati; ma, bramosi di sempre più perfetta mondezza, chiediamo umilmente a Dio di purificarci ognor più nel sangue di suo Figlio: "amplius lava me ab iniquitate mea et a peccato meo munda me743-4. Per unirci più intimamente a lui, vogliamo che i nostri peccati siano distrutti, che non ne resti più traccia: "omnes iniquitates meas dele"; desideriamo che la mente e il cuore siamo rinnovati: "cor mundum crea in me, Deus, et spiritum rectum innova in visceribus meis", che ci sia resa la gioia della buona coscienza: "Redde mihi lætitiam salutaris tui743-5.

744.   b) Questa dolorosa memoria è accompagnata da un senso di perpetua confusione: "operuit confusio faciem meam744-1. Confusione che portiamo davanti a Dio, come Gesù Cristo portò davanti al Padre l'ontà delle nostre offese, massimamente nell'orto dell'agonia e sul Calvario. La portiamo davanti agli uomini, vergognosi di vederci carichi di delitti nell'assemblea dei Santi. La portiamo davanti a noi stessi, non potendoci soffrire nè sopportare nella nostra vergogna, ripetendo sinceramente col prodigo: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di voi" 744-2; e col pubblicano: "O Dio, abbi pietà di me, peccatore" 744-3.

745.   c) Ne nasce un salutare timor del peccato, un orrore profondo per tutte le occasioni che vi ci possono condurre. Perchè, non ostante la buona volontà, restiamo esposti alla tentazione e alle ricadute.

Rimaniamo quindi sommamente diffidenti di noi stessi e dal fondo del cuore ripetiamo la preghiera di S. Filippo Neri: O Signore, non vi fidate di Filippo, chè altrimenti vi tradirà; aggiundendovi: "non ci lasciate cadere nella tentazione: et ne nos inducas in tentationem". Questa diffidenza ci fa prevedere le occasioni pericolose in cui potremmo soccombere, i mezzi positivi per assicurar la nostra perseveranza e ci rende vigilanti a schivar le minime imprudenze. Evita però con ogni premura lo scoraggiamento: quanto maggior coscienza abbiamo della nostra impotenza, tanto maggior fiducia dobbiamo riporre in Dio, sicuri che per l'efficacia della sua grazia riusciremo vittoriosi, soprattutto se a questi sentimenti uniamo le opere di penitenza.

III. Le opere di penitenza.

746.   Queste opere, per quanto penose possano essere, ci parranno facili, se abbiamo continuamente davanti agli occhi questo pensiero: io sono uno scampato dall'inferno, uno scampato dal purgatorio, e, senza la divina misericordia, sarei già là a subirvi il castigo che ho pur troppo meritato; nulla quindi di troppo umiliante, nulla di troppo penoso per me.

Le principali opere di penitenza che dobbiano fare, sono:

747.   1° L'accettazione, prima rassegnata poi cordiale e gioconda, di tutte le croci che la Provvidenza vorrà mandarci. Il Concilio di Trento ci insegna che è gran segno di amore per noi il degnarsi Dio di gradire come soddisfazione dei nostri peccati la pazienza con cui accettiamo tutti i mali temporali, che egli ci infligge 747-1. Se abbiamo dunque da soffrir prove fisiche o morali, per esempio le intemperie delle stagioni, le strette della malattia, i rovesci di fortuna, la mala riuscita, le umiliazioni; in cambio di amaramente lamentarcene, come la natura vorrebbe, accettiamo tutti questi patimenti con dolce rassegnazione, persuasi che pei nostri peccati li meritiamo e che la pazienza in mezzo alle prove è uno dei migliori mezzi d'espiazione. Non sarà da principio che semplice rassegnazione, ma poi, accorgendoci che i nostri dolori ne restano addolciti e fecondi, riusciremo a poco a poco a sopportarli valorosamente e anche giocondamente, lieti di poterci così abbreviare il purgatorio, di rassomigliar meglio al divin crocifisso, di glorificar Dio che abbiamo oltraggiato. La pazienza produrrà allora tutti i suoi frutti e ci purificherà intieramente l'anima appunto perchè opera di amore: "remittuntur ei peccata multa, quoniam dilexit multum747-2.

748.   2° A questa pazienza aggiungeremo il fedele adempimento dei doveri del nostro stato in spirito di penitenza e di riparazione. Il sacrificio più gradito a Dio è quello dell'ubbidienza "melior est obedientia quam victimæ748-1. Ora i doveri del nostro stato sono per noi la chiara espressione della volontà di Dio. L'adempierli il più perfettamente possibile è dunque un offrire a Dio il sacrificio più perfetto, l'olocausto perpetuo, perchè questi doveri ci stringono dalla mattina alla sera. Il che è certamente vero per le persone che vivono in comunità: obbedendo fedelmente alla regola, generale o particolare, adempiendo generosamente quanto viene prescritto o consigliato dai superiori, moltiplicando gli atti di obbedienza, di sacrificio e d'amore, e possono ripetere con San Giovanni Berchmans che la vita comune è per essi la migliore di tutte le penitenze: mea maxima pænitentia vita communis. Ma è anche vero per le persone del mondo che vivono cristianamente; quante occasioni si presentano ai padri e alle madri di famiglia che osservano tutti i doveri di sposi e di educatori, di offrire a Dio numerosi ed austeri sacrifici che servono grandemente a purificar le loro anime! Tutto sta nell'adempiere questi doveri cristianamente, valorosamente, per Dio, in ispirito di riparazione e di penitenza.

749.   3° Vi sono pure altre opere specialmente raccomandate dalla Sacra Scrittura, come il digiuno e l'elemosina.

A) Il digiuno era nell'antica Legge uno dei grandi mezzi di espiazione; veniva indicato con l'espressione "affliggere la propria anima"; 749-1 ma per ottenerne l'effetto doveva essere accompagnato da sentimenti di compunzione e di misericordia 749-2. Nella nuova Legge il digiuno è pratica di duolo e di penitenza; quindi gli Apostoli non digiunano finchè è con loro lo Sposo, digiuneranno, quando non vi sarà più 749-3. Nostro Signore, per espiare i nostri peccati, digiuna quaranta giorni e quaranta notti, ed insegna agli apostoli che certi demoni non possono essere cacciati che col digiuno e colla preghiera 749-4. Fedele a questi insegnamenti, la Chiesa istituì il digiuno della Quaresima, delle Vigilie e delle Quattro Tempora per dare ai fedeli occasione di espiare i peccati. Molti peccati infatti provengono, direttamente o indirettamente, dalla sensualità, dagli eccessi del bere e del mangiare, onde nulla è più efficace a ripararli della privazione del nutrimento che va alla radice del male mortificando l'amore dei sensuali diletti. Ecco perchè i Santi lo praticarono con tanta frequenza anche fuori dei tempi stabiliti dalla Chiesa; i cristiani generosi li imitano o almeno s'accostano al digiuno propriamente detto, privandosi di qualche cosa in ogni pasto, per domare così la sensualità.

750.   B) L'elemosina poi è opera di carità e privazione: a questo doppio titolo ha grande efficacia per espiare i peccati: "peccata eleemosynis redime750-1. Quando uno si priva d'un bene per darlo a Gesù nella persona del povero, Dio non si lascia vincere in generosità, e ci rimette volentieri parte della pena dovuta ai nostri peccati. Quanto più dunque si è generosi, ognuno secondo le proprie facoltà, e quanto pure è più perfetta l'intenzione con cui si fa l'elemosina, tanto più intiera è la remissione che ci si concede dei nostri debiti spirituali. Ciò che diciamo dell'elemosina corporale s'applica a più forte ragione all'elemosina spirituale, che mira a far del bene alle anime e quindi a glorificar Dio. È quindi una delle opere di penitenza che il Salmista promette di fare quando dice al Signore che, per riparare il suo peccato, insegnerà ai peccatori le vie del pentimento: "Docebo iniquos vias tuas et impii ad te convertentur750-2.

4° Restano finalmente le privazioni e le mortificazioni volontarie che imponiamo a noi stessi in espiazione dei nostri peccati, quelle specialmente che vanno alla sorgente del male, castigando e disciplinando le facoltà che contribuirono a farceli commettere. Le esporremo trattando della mortificazione.


705-1 S. Tommaso, III, q. 85; Suarez, De penitentia, disp. I e VII; Billuart, De pœn., disp. II; Ad. Tanquerey, Synopsis theol. moralis, t. I, n. 3-14; Bossuet, Sermone sulla necessità della penitenza, edizione Lebarcq, 1897, t. IV. 596. t. V. 419; Bourdaloue, Quaresimale; per il lunedì della seconda settimana; Newman, disc. to mixed congregations, Neglect of divine calls; Faber, Progressi, c. XIX.

705-2 Matth., III, 2.

705-3 Luc., V, 32.

705-4 Luc., XIII, 5.

705-5 Act., II, 38.

707-1 S. Tommaso Iª IIæ, q. 71-73; q. 85-89; Suarez, De peccatis, disp. I-III; disp. VII, VIII; Philip. a S. Trinitate, Sum. theol. mysticæ, P. I, tr. II, disc. I; Anton. a Spiritu S., Directorium mysticum, disp. I, sez. III; T. Da Vallgornera, Mystica theol., q. II, disp. I, art. III-IV; Alvarez de Paz, T. II, P. I, De abjectione peccatorum; Bourdaloue, Quaresimale, mercoledì della 5ª sett., sullo stato di peccato e sullo stato di grazia; Tronson, Ex. particuliers, CLXX-CLXXX; Manning, Il peccato e le sue conseguenze; Mgr d'Hulst, Quaresimale del 1892 e Ritiro (Marietti, Torino); P. Janvier, Quaresimale 1907, Iª Confer.; Quaresimale 1908 per intiero (Marietti, Torino).

707-2 Svolgiamo questi motivi un poco a lungo perchè i lettori possano meditarli; concepito un vivo orrore del peccato, il progresso è assicurato.

710-1 S. Ignazio, Eserc. Spir., Iª Sett., Iº Esercizio; e i suoi numerosi commentatori.

714-1 Gen., II, 17; III, 11-19.

714-2 Jerem., II, 4, 8.

714-3 Isa., I, 2.

714-4 Jerem., III, 1.

714-5 Joan., III, 4.

716-1 È il pensiero che S. Ignazio svolge nella meditazione fondamentale, a principio degli Esercizi Spirituali, commentando queste parole: "Creatus est homo ad hunc finem ut Dominum Deum suum laudet et revereatur, eique serviens tandem salvus fiat".

716-2 Jer., II, 13.

718-1 I Petr., II, 21.

718-2 Apoc., I, 5.

718-3 Joan., XVIII, 40; XIX, 6.

718-4 Catéch. chrétien, P. I, lez. II.

720-1 Joan., VIII, 54; cfr. II Petr., II, 19.

722-1 Sap., XI, 17.

724-1 Vita devota, l. I, c. XXII.

725-1 S. Fr. di Sales, Vita devota; P. III, c. IX.

727-1 Cammino della perfezione, c. XLI.

728-1 Matth., XXII, 37.

732-1 Matth., XIII, 12.

733-1 La doctrine spirituelle, III° Principio, c. II, a. I, § 3.

734-1 Non parliamo dei castighi temporali con cui Dio punisce il peccato: la S. Scrittura vi ritorna spesso, specialmente nell'Antico Testamento. Quando però si tratta di determinare se questa o quella pena è castigo del peccato veniale, bisogna contentarsi spesso di congetture. Non conviene quindi insistere su questo come fanno certi autori spirituali che attribuiscono a colpe veniali castighi terribili; così la moglie di Loth viene cangiata in una statua di sale per una colpa di curiosità, ed Oza è colpito di morte per aver toccato l'arca.

734-2 "L'anima, questo vedendo, se trovasse un altro purgatorio sopra quello, per potersi levar più presto tanto impedimento, presto vi si getterebbe dentro, per l'impeto di quell'amore conforme tra Dio e l'anima". (S. Caterina da Genova, Purgatorio, c. IX).

735-1 Opera citata, c. VIII.

735-2 Op. cit., c. XII. -- Bisogna leggere tutto questo piccolo trattato sul Purgatorio; F. Trucco, Il purgatorio e la vita delle anime purganti secondo S. Caterina da Genova, Sarzana, 1915.

736-1 Primo Panegirico di S. Francesco da Paola.

737-1 Isai., LIII, 6.

737-2 Bossuet, Sermone 1° per la Purificazione, ed. Lebarq. t. IV, p. 52.

738-1 Introd., c. VII.

738-2 Op. cit., c. VII; IIª sezione.

739-1 È appunto ciò che insegna il Concilio di Trento (sess. XIV, c. 8): "Procul dubio enim magnopere a peccato revocant, et quasi freno quodam coercent hæ satisfactoriæ pœnæ, cautioresque et vigilantiores in futurum pœnitentes efficiunt: medentur quoque peccatorum reliquiis, et vitiosos habitus, male vivendo comparatos, contrariis virtutum actionibus tollunt".

741-1 Hebr., VII, 27.

741-2 P. Plus, L'idea riparatrice (Marietti, Torino), l. III; L. Capelle, Les âmes généreuses.

742-1 È ciò che lungamente dimostra nel Progressi dell'anima, c. XIX, ed aggiunge: "Come ogni culto va in rovina se non ha per base i sentimenti della creatura pel suo creatore... come le penitenze non riescono a nulla se non fatte in unione con Gesù Cristo...così la santità perde il principio del suo progresso quando è separata dal costante dolore d'aver peccato. Infatti il principio del progresso non è soltanto l'amore ma l'amore nato dal perdono".

743-1 Ps. L, 5.

743-2 Ps. L, 6.

743-3 Ps. L, 3.

743-4 Ps. L, 4.

743-5 Ps. L, 10-14.

744-1 Ps. LXVIII, 8.

744-2 Luc., XV, 18.

744-3 Luc. XVIII, 13.

747-1 "Sed etiam (quod maximum amoris argumentum est) temporalibus flagellis a Deo inflictis et a nobis patienter toleratis apud Deum Patrem per Christum Jesum satisfacere valeamus". (Sess. XIV, c. 9, Denzing., 906.)

747-2 Matth., IX, 2.

748-1 I Reg., XV, 22.

749-1 Lev., XVI, 29, 31; XXIII, 27, 32.

749-2 Isa., LVIII, 3-7.

749-3 Matth., IX, 14-15.

749-4 Matth., XVII, 20.

750-1 Dan., IV, 24.

750-2 Ps. L, 15.


Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@gmail.com>.
Ultima revisione: 14 febbraio 2006.