ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica
PARTE SECONDA
Le Tre Vie
LIBRO II
La via illuminativa
o lo stato delle anime proficienti
Delle virtù morali 998-1.
Prima di partitamente descriverle, conviene richiamar brevemente le nozioni teologiche sulle virtù infuse.
NOZIONI PRELIMINARI SULLE VIRTÙ INFUSE.
Diremo prima delle virtù infuse in generale e poi delle virtù morali in particolare.
I. Delle virtù infuse in generale 998-2.
998. Vi sono virtù naturali, vale a dire buone abitudini, acquistate con atti frequentemente ripetuti, che agevolano la pratica del bene onesto. Onde anche gli increduli e i pagani possono, col naturale concorso di Dio, acquistar le virtù morali della prudenza, della giustizia, della fortezza, della temperanza e perfezionarvisi. Non parliamo qui di queste virtù; ma intendiamo di trattare delle virtù soprannaturali o infuse quali si hanno nel cristiano.
999. Elevati allo stato soprannaturale e non avendo altro fine che la visione beatifica, dobbiamo tendervi con atti fatti sotto l'influsso di principii e di motivi soprannaturali, essendo necessario che vi sia proporzione tra il fine e gli atti che vi conducono. Quindi per noi le virtù che nel mondo si dicono naturali, devono essere praticate in modo soprannaturale. Come giustamente nota il P. Garrigou-Lagrange, 999-1 secondo S. Tommaso "le virtù morali cristiane sono infuse ed essenzialmente distinte per l'oggetto formale dalle più alte virtù morali acquisite descritte dai più grandi filosofi... C'è infinita differenza tra la temperanza aristotelica, regolata soltanto dalla retta ragione, e la temperanza cristiana regolata dalla fede divina e dalla prudenza soprannaturale.".
Avendo già mostrato come queste virtù ci sono comunicate dallo Spirito Santo che vive in noi, n. 121-122, non ci resta più che a descriverne:
1000. A) Le virtù infuse sono principii di azione che Dio inserisce in noi perchè servano all'anima di facoltà soprannaturali e ci rendano quindi capaci di fare atti meritori.
Vi è dunque differenza essenziale tra le virtù infuse e le virtù acquisite sotto il triplice aspetto dell'origine, dell'esercizio, del fine.
a) Riguardo all'origine, le virtù naturali si acquistano con la ripetizione degli stessi atti; le virtù soprannaturali vengono da Dio che ce le infonde nell'anima insieme con la grazia abituale.
b) Quanto all'esercizio, le virtù naturali, acquistandosi con la ripetizione degli stessi atti, ci danno la facilità di fare prontamente e lietamente atti simili; le virtù soprannaturali, infuse da Dio nell'anima nostra, non ci danno che il potere di fare atti meritori, con una certa tendenza a farli; la facilità non verrà che più tardi con la ripetizione degli atti.
c) Riguardo al fine, le virtù naturali tendono al bene onesto e ci volgono a Dio creatore; mentre le virtù infuse tendono al bene soprannaturale e ci portano al Dio della Trinità, quale ci è fatto conoscere dalla fede. Quindi i motivi che ispirano queste virtù devono essere soprannaturali, e si riducono all'amicizia di Dio; io pratico la prudenza, la giustizia, la temperanza, la fortezza, per essere in armonia con Dio.
1001. Ne viene che gli atti di queste virtù soprannaturali sono molto più perfetti di quelli delle virtù acquisite; 1001-1 la nostra temperanza, per esempio, non ci porta solo alla sobrietà necessaria per serbare la umana dignità, ma anche a vere mortificazioni con cui maggiormente ci conformiamo al Salvatore Gesù; la nostra umiltà non ci fa solo evitare gli eccessi di superbia e di collera opposti all'onestà, ma ci fa abbracciare le umiliazioni che ci rendono più simili al nostro divino Modello.
Vi è dunque differenze essenziale tra le virtù acquisite e le infuse; il principio e il motivo formale non ne sono identici.
1002. B) Abbiamo detto che la facilità di esercitare le virtù infuse si acquista con la ripetizione degli stessi atti, onde si opera con più prontezza, con più facilità e con più diletto (promptius, facilius, delectabilius). Sono tre le cause principali che concorrono a questo buon risultato:
a) L'abitudine diminuisce gli ostacoli o le resistenza della guasta natura, onde col medesimo sforzo si ottengono migliori effetti; b) indolcilisce le facoltà, ne perfeziona l'esercizio, le rende più pronte a cogliere i motivi che ci portano al bene e più atte a praticare il bene conosciuto; proviamo anzi un certo diletto ad esercitare facoltà così docili, come l'artista a far correre le dita su una mobilissima tastiera. c) Infine la grazia attuale, che ci viene concessa con tanto maggior liberalità quanto più fedele è la nostra corrispondenza, contribuisce anch'essa in modo singolare ad agevolarci il nostro dovere e a farcelo amare.
1003. A) Le virtù infuse possono crescere nell'anima e crescono infatti a misura che cresce la grazia abituale da cui derivano. Questo aumento viene direttamente da Dio, egli solo potendo aumentare in noi la vita divina e i vari elementi che la costituiscono. E Dio produce questo aumento quando riceviamo i sacramenti e quando facciamo opere buone o preghiere.
a) I sacramenti, in virtù della stessa loro istituzione, causano in noi un aumento di grazia abituale e quindi delle virtù infuse che vi sono connesse, a proporzione delle nostre disposizioni, n. 259-261.
b) Anche le opere buone meritano non solo la gloria ma un aumento di grazia abituale e quindi delle virtù infuse; aumento che dipende in gran parte dal fervore delle nostre disposizioni, n. 237.
c) La preghiera, oltre il valore meritorio, ha pure un valore impetratorio, che sollecita ed ottiene un aumento di grazia e di virtù, a proporzione del fervore con cui si prega. Conviene quindi unirsi alle preghiere della Chiesa chiedendo con lei aumento di fede, di speranza e di carità: "Da nobis fidei, spei et caritatis augmentum".
B) Tale aumento si fa, secondo S. Tommaso, non col crescimento di grado o di quantità ma col possesso più perfetto e più attivo della virtù; onde avviene che le virtù gettano più profonde radici nell'anima e vi diventano più sode ed operose.
Un'attività che non si eserciti o che si eserciti fiaccamente, presto si affievolisce o si perde anche intieramente.
1004. A) Della diminuzione delle virtù. Le virtù infuse non sono, a dir vero, capaci di diminuzione come non ne è capace la grazia santificante da cui dipendono. Il peccato veniale non può diminuirle, come non può diminuire la grazia abituale; ma, soprattutto quando è commesso spesso e deliberatamente, ostacola notevolmente l'esercizio delle virtù, diminuendo la facilità acquistata con gli atti precedenti. Questa facilità viene infatti da un certo ardore e da una certa costanza nello sforzo; ora le colpe veniali deliberate smorzano lo slancio e svigoriscono in parte l'attività, n. 730. Così i peccati veniali d'intemperanza, senza diminuire in sè la virtù infusa della sobrietà, fanno perdere a poco a poco la acquistata facilità di mortificar la sensualità. E poi l'abuso delle grazie cagiona una diminuzione delle grazie attuali che ci agevolavano l'esercizio delle virtù, onde le pratichiamo per questo verso con meno ardore. Infine, come abbiamo detto, n. 731, i peccati veniali deliberati spianano la via ai peccati gravi e quindi alla perdita delle virtù.
1005. B) Della perdita delle virtù. Si può fissar come principio che le virtù si perdono con ogni atto che ne distrugga l'oggetto formale o il motivo; con ciò infatti si scalza la virtù dalle fondamenta.
a) Così la carità si perde con ogni peccato mortale di qualsiasi natura, perchè questo peccato distrugge in noi l'oggetto formale o il fondamento di tal virtù, essendo direttamente opposto all'infinita bontà di Dio.
b) Le virtù morali infuse si perdono col peccato mortale, poichè sono talmente legate alla carità che, scomparendo questa, esse scompaiono con lei. Nondimeno la acquistata facilità di fare atti di prudenza, di giustizia, ecc., continua ancora per qualche tempo dopo la perdita delle virtù infuse, in virtù della persistenza delle abitudini acquisite.
c) La fede e la speranza continuano a sussistere nell'anima anche quando si è perduta la grazia col peccato mortale, purchè non si tratti di peccato direttamente contrario a queste due virtù. La ragione è che gli altri peccati mortali non distruggono in noi il fondamento della fede e della speranza; e d'altra parte Dio, nella infinita sua misericordia, vuole che queste due virtù rimangano come ultima tavola di salvezza: fin che uno crede e spera, la conversione resta relativamente facile.
1006. Si dice spesso che tutte le virtù sono connesse: cosa che richiede alcune spiegazioni.
A) Prima di tutto la carità, bene intesa e ben praticata, comprende tutte le virtù, non solo la fede e la speranza (il che è evidente), ma anche le virtù morali, come abbiamo spiegato, n. 318, con la dottrina di S. Paolo: Caritas patiens est, caritas benigna est... Il che è vero nel senso che chi ama Dio e il prossimo per Dio, è pronto a praticare ogni virtù, appena la coscienza gliene faccia conoscere l'obbligo. Non si può infatti amar Dio profondamente, sopra ogni cosa, senza volerne osservare i comandamenti e anche alcuni consigli. Spetta inoltre alla carità di ordinare tutti i nostri atti a Dio, ultimo nostro fine, e quindi regolarli secondo le varie virtù cristiane, E si può dire che quanto più aumenta la carità, tanto più crescono pure in radice le altre virtù.
Nondimeno l'amor di Dio, pur inclinando la volontà agli atti delle virtù morali e agevolandone la pratica, non dà immediatamente e necessariamente la perfezione di tutte queste virtù, per esempio, della prudenza, dell'umiltà, dell'obbedienza, della castità. Poniamo infatti un peccatore che sinceramente si converta dopo contratte cattive abitudini; sebbene pratichi con ogni sincerità la carità, non diventa così tutto a un tratto perfettamente prudente, perfettamente casto o temperante, ma occorrerà tempo e sforzo per liberarsi dalle antiche abitudini e formarsene delle nuove.
1007. B) Essendo la carità forma e ultimo compimento di tutte le virtù, queste non sono mai perfette senza di lei; quindi la fede e la speranza che restano nell'anima del peccatore, pur essendo vere virtù, sono virtù informi, cioè prive di quella perfezione che le volgeva a Dio come ultimo nostro fine; onde gli atti di fede e di speranza fatti in questo stato non possono meritare il paradiso, benchè siano soprannaturali e servano di preparazione alla conversione.
1008. C) Le virtù morali, chi le possegga nella loro perfezione, vale a dire informate dalla carità e in grado alquanto elevato, sono veramente connesse nel senso che non se ne può posseder una senza aver pure le altre. Così tutte le virtù, ad essere perfette, suppongono la prudenza; la prudenza poi non può praticarsi perfettamente senza il concorso della fortezza, della giustizia e della temperanza: chi è di carattere fiacco, inclinato all'ingiustizia e all'intemperanza, mancherà di prudenza in parecchie circostanze; la giustizia non può praticarsi perfettamente senza fortezza d'animo e temperanza; la fortezza dev'essere temperata dalla prudenza e dalla giustizia; nè sussisterebbe a lungo senza la temperanza; e via dicendo. 1008-1
Ma se le virtù morali non sono nell'anima se non in grado inferiore, la presenza dell'una non inchiude necessariamente la pratica dell'altra. Così vi sono pudici senza essere umili, umili senza essere misericordiosi, misericordiosi senza praticare la giustizia. 1008-2
Spieghiamone brevemente la natura, il numero, il comune carattere.
1009. 1° La natura. Si dicono virtù morali per doppia ragione: a) per distinguerle dalle virtù puramente intellettuali, che perfezionano l'intelligenza senza relazione alcuna con la vita morale, come la scienza, l'arte, ecc.; b) per distinguerle dalle virtù teologali, che certamente regolano esse pure i costumi, ma che, come abbiamo già detto, hanno direttamente Dio per oggetto, mentre le virtù morali mirano direttamente a un bene soprannaturale creato, per esempio, il dominio delle passioni. Non è però da dimenticare che anche le virtù morali soprannaturali sono veramente una partecipazione della vita di Dio e ci preparano alla visione beatifica. Del resto, a mano a mano che si perfezionano, e soprattutto quando vengono integrate dai doni dello Spirito Santo, queste virtù finiscono con accostarsi talmente alle virtù teologali che ne restano come imbevute, e non sono più che varie manifestazioni della carità che le informa.
1010. 2° Il numero. Le virtù morali, chi le consideri nelle varie loro ramificazioni, sono numerosissine, ma si riducono poi tutte alle quattro virtù cardinali, dette così (dalla parola cardines, cardini) perchè sono quasi quattro cardini su cui si reggono tutte le altre.
Queste quattro virtù infatti corrispondono a tutti i bisogno dell'anima e ne perfezionano tutte le facoltà morali.
1011. A) Corrispondono a tutti i bisogni dell'anima.
a) Abbiamo prima di tutto bisogno di scegliere i mezzi necessari od utili al conseguimento del fine soprannaturale: è l'ufficio della prudenza.
b) Dobbiamo pure rispettare i diritti altrui; ed è ciò che fa la giustizia.
c) A difendere la persona e i beni dai pericoli che ci minacciano, e farlo senza paura e senza violenza, ci occorre la fortezza.
d) Per servirsi dei beni di questo mondo e dei diletti senza oltrepassar la debita misura, ci è necessaria la temperanza.
La giustizia quindi regola le relazioni col prossimo, la fortezza e la temperanza le relazioni con noi stessi, e la prudenza dirige le altre tre virtù.
1012. B) Perfezionano tutte le nostre facoltà morali: l'intelligenza è regolata dalla prudenza, la volontà dalla giustizia, l'appetito irascibile dalla fortezza e l'appetito concupiscibile dalla temperanza. Notiamo però che, non essendo l'appetito irascibile e concupiscibile capaci di moralità se non per la volontà, la fortezza e la temperanza risiedono in questa superiore facoltà e nelle facoltà inferiori che ricevono direzione dalla volontà.
1013. C) Aggiungiamo infine che ognuna di queste virtù può essere considerata come un genere che contiene sotto di sè parti integranti, subiettive e potenziali.
a) Le parti integranti sono virtù che servono di compimento utile o necessario alla pratica della virtù cardinale, talmente che non sarebbe perfetta senza questi elementi; così la pazienza e la costanza sono parti integranti della fortezza.
b) Le parti subiettive sono come le varie specie di virtù subordinate alla virtù principale; così la sobrietà e la castità sono parti subiettive della temperanza.
c) Le parti potenziali (o annesse) hanno con la virtù cardinale una certa rassomiglianza, perchè attuano una parte dell'intiera sua potenza, senza avverarne pienamente tutte le condizioni. Così la virtù della religione è virtù annessa alla giustizia, perchè mira a rendere a Dio il culto che gli è dovuto, senza però poterlo fare con la perfezione voluta nè con stretta eguaglianza; l'obbedienza rende ai superiori la sottomissione loro dovuta, ma anche qui non vi è propriamente stretto diritto nè relazione da pari a pari.
1014. 3° Il comune carattere. a) Tutte le virtù morali mirano a serbare il giusto mezzo tra gli opposti eccessi: in medio stat virtus. Devono infatti seguir la regola segnata dalla retta ragione illuminata dalla fede. Ora si può mancare a questa regola oltrepassando la misura o rimanendone al di qua: la virtù quindi consisterà nello schivare questi due eccessi.
b) Le virtù teologali non stanno in sè nel giusto mezzo, perchè, come dice S. Bernardo, la misura d'amar Dio è di amarlo senza misura; ma considerate rispetto a noi queste virtù devono tener conto anche del giusto mezzo, ossia devono essere rette dalla prudenza, che ci indica in quali circostanze possiamo e dobbiamo praticar le virtù teologali; è lei infatti che ci mostra, per esempio, ciò che bisogna credere e ciò che non bisogna credere, come si deve schivare nello stesso tempo la presunzione e la disperazione, ecc.
DIVISIONE DEL SECONDO CAPITOLO.
1015. Nel secondo capitolo tratteremo per ordine delle quattro virtù cardinali e delle principali virtù che vi si connettono.
ART. I. DELLA VIRTÙ DELLA PRUDENZA 1016-1.
Ne esporremo:
Per meglio intenderla diamone la definizione, gli elementi costitutivi, le specie.
1016. 1° Definizione: è una virtù morale e soprannaturale, che inclina l'intelletto a scegliere, in ogni circostanza, i mezzi migliori a ottenere i varii fini subordinandoli al fine ultimo.
Non è quindi nè la prudenza della carne, nè la prudenza puremente umana: è la prudenza cristiana.
Non è neppure la prudenza puramente umana, che studia i mezzi migliori per ottenere un fine naturale senza subordinarlo al fine ultimo; come la prudenza dell'industriale, del commerciante, dell'artista, dell'operaio, che cercano di guadagnar denaro e gloria senza darsi pensiero di Dio e della felicità eterna. A costoro bisogna ricordare che a nulla serve il conquistare anche il mondo intiero se poi se perde l'anima 1016-3.
1017. B) È la prudenza cristiana, che, appoggiandosi sui principii della fede, tutto riferisce al fine soprannaturale, vale a dire a Dio conosciuto e amato sulla terra e posseduto nel cielo. È vero che la prudenza non si occupa direttamente di questo fine, che le è proposto dalla fede; ma l'ha continuamente dinanzi, per studiare, alla sua luce, i mezzi migliori a dirigere tutte le azioni verso cotesto fine. Si occupa quindi della vita in tutti i suoi particolari: regola i pensieri per impedirli di andar lontani da Dio; regola le intenzioni per rimuoverne ciò che potrebbe corrompere la purezza; regola gli affetti, i sentimenti, i voleri, per riferirli a Dio; regola perfino gli atti esteriori e l'esecuzione delle nostre risoluzioni per ordinarli all'ultimo fine 1017-1.
1019. D) La regola della prudenza cristiana non è la sola ragione, ma la ragione illuminata dalla fede. Se ne trova la più nobile espressione nel Sermone del monte, in cui Nostro Signore compie e perfeziona la legge antica, sgombrandola dalle false interpretazioni dei dottori giudei. La prudenza soprannaturale attinge dunque luce e ispirazioni nelle massime evangeliche che sono diametralmente opposte a quelle del mondo. Per farne l'applicazione alle azioni quotidiane ricorre agli esempi dei Santi, che vissero secondo il Vangelo, e agli insegnamenti della Chiesa infallibile che viene a guidarci nei casi dubbi. Così siamo moralmente certi di non traviare.
D'altra parte i mezzi da lei adoperati sono non solo mezzi onesti ma mezzi soprannaturali, la preghiera e i sacramenti, che, moltiplicandoci le forze per il bene, ci fanno giungere a risultati assai migliori.
Il che si vedrà anche meglio studiando gli elementi costitutivi di questa virtù.
1020. 2° Elementi costitutivi. Per operare prudentemente sono specialmente necessarie tre condizioni: esaminare con maturità, risolvere con senno, eseguir bene.
A) Ci vuole prima di tutto maturo esame per studiare i mezzi più atti al conseguimento del fine che uno si propone, esame che dev'essere proporzionato all'importanza della risoluzione da prendere. A farlo con più maturità, uno rifletterà da sè e consulterà i savi.
1021. a) Rifletterà da sè sul passato, sul presente e sull'avvenire.
1) La memoria del passato gli sarà di grandissima utilità: poichè il fondo della natura umana rimane sempre lo stesso nel corso dei secoli, conviene consultare la storia per vedere come i nostri padri risolvettero i problemi che ci stanno dinanzi: le esperienze che essi tentarono per risolverli illumineranno la esperienza nostra e ci risparmieranno molti errori; vedendo ciò che riuscì bene e ciò che andò a vuoto, capiremo meglio quali siano gli scogli da schivare e i mezzi da prendere. Ma bisogna consultar pure la propria esperienza: a cominciar dall'infanzia ci siamo trovati o in un modo o in un altro alle prese con simili difficoltà; dobbiamo pensare a ciò che ci è riuscito e a ciò che ci fu causa di cattivo esito, e dire risolutamente a noi stessi: non voglio più espormi agli stessi pericoli nè soccombere alle stesse tentazioni.
2) Ma si deve pure tener conto del presente, delle condizioni diverse in cui viviamo; ogni secolo, ogni uomo ha la particolare sua indole, e noi stessi non abbiamo più nell'età matura gli stessi gusti che avevamo in gioventù. Onde qui interverrà l'intelletto per aiutarci a interpretar bene le esperienze passate adattandole alle circostanze presenti.
3) Da ultimo anche l'avvenire può bene essere interrogato: prima di risolvere, è utile prevedere, per quanto è possibile, le conseguenze dei nostri atti su noi e sugli altri. Con la memoria del passato e con la previsione dell'avvenire si riesce a ben ordinare il presente.
Applichiamo tutto questo a una determinata virtù, alla castità: la storia mi ricorderà quanto fecero i Santi per restar puri in mezzo ai pericoli del mondo; la mia esperienza mi dirà quali furono le mie tentazioni, i mezzi usati per resistervi, le vittorie e le sconfitte; e da ciò io potrò conchiudere con grande probabilità quale risultato avrà nell'avvenire questo o quel passo, questa o quella lettura, questa o quella conversazione.
1022. b) Ma non basta riflettere, bisogna pure saper consultare gli uomini savi ed esperimentati: una parola, un'osservazione di un amico, di un parente, talora perfino di un servo, ci apre gli occhi e ci mostra un lato delle cose da noi dimenticato o negletto: quattro occhi vedono meglio di due, e dalla discussione scaturisce la luce. Quanto più non deve ciò dirsi della parola di un direttore che ci conosce, e che, essendo disinteressato nell'affare, vede meglio di noi ciò che ci è utile al bene dell'anima? Si consulterà dunque con diligenza e docilità un uomo savio ed esperimentato; il che del resto non toglie che esercitiamo la nostra sagacia, onde vedere con rapidità ed esattezza quanto vi è di fondato nei consigli altrui e nelle osservazioni nostre.
Ma non si deve dimenticare di ricorrere al migliore dei consiglieri, al Padre dei lumi, e un Veni Sancte Spiritus divotamente recitato ci tornerà spesso più utile di molti esami.
1023. B) Dopo aver bene esaminato, bisogna giudicar bene, vale a dire risolvere quali, tra i mezzi suggeriti, sono veramente i più efficaci. Per riuscirvi: a) si rimoveranno accuratamente i pregiudizi, le passioni e le impressioni, che sono elementi perturbatori del giudizio, e uno si metterà risolutamente di fronte all'eternità per valutar tutto al lume della fede; b) non si dovrà fermarsi alla superficie delle ragioni che fanno inclinare a questa o quella parte, ma esaminarle a fondo, con perspicacia, pesandone bene il pro ed il contro; c) infine si giudicherà con risolutezza, senza abbandonarsi a soverchie esitazioni; quando si è riflettuto proporzionatamente all'importanza dell'affare e preso il partito che sembra migliore, Dio non ci rimprovererà la nostra condotta, avendo noi fatto quanto dovevamo per conoscerne la volontà; onde possiamo far assegnamento sulla sua grazia per l'esecuzione delle nostre risoluzioni.
1024. Non bisogna infatti tardare ad eseguire il fissato disegno: al che tre cose si richiedono: previdenza, circospezione, e precauzioni.
a) Previdenza: il prevedere importa calcolar prima gli sforzi necessarii ad eseguire i nostri disegni, gli ostacoli che incontreremo e i mezzi di vincerli, onde poi proporzionare lo sforzo al risultato che si vuol ottenere.
b) Circospezione: bisogna aprire gli occhi, considerar bene cose e persone che ci stanno attorno per trarne il miglior partito possibile; osservare tutte le circostanze per adattarvisi; tener d'occhio gli eventi per approfittarne se favorevoli, per prevenire le cattive conseguenze se contrarii.
c) Precauzioni: " videte quomodo caute ambuletis" 1024-1 Anche quando si è cercato di preveder tutto, le cose non succedono poi sempre come le avevamo previste, perchè limitata e fallibile è la nostra saggezza. Conviene quindi, nella vita morale come negli affari, aver delle riserve, circondarsi di precauzioni: il nemico spirituale ha spesso dei contrattacchi, come abbiamo spiegato più sopra, n. 900; è quello il momento di ricorrere alle proprie riserve d'energia, alla preghiera, ai sacramenti, ai consigli d'un direttore. Così non si cade vittime di circostanze impreviste; non si rimane sconcertati; e con la grazia di Dio si riesce a condurre a buon fine i disegni prudentemente fissati.
1025. 3° Le diverse specie di prudenza. La prudenza si distingue secondo le cose su cui si esercita: è individuale quando regola la condotta personale ed è quella di cui abbiamo parlato: è sociale quando riguarda il bene della società; ed essendovi tre specie di comunità, la famiglia, lo Stato e l'esercito, si distinguono pure tre specie di prudenza: la prudenza domestica, che regola le relazioni degli sposi tra loro, dei genitori verso i figli e viceversa; la prudenza civile, che mira al bene pubblico e al buon governo dello Stato; la prudenza militare, che si occupa della condotta degli eserciti.
Non entreremo qui nei particolari; i principii generali che abbiamo esposti bastano al fine propostoci. Spetta agli sposi cristiani, ai governanti e ai capi militari studiare a fondo l'applicazione di questi principi alla loro particolare condizione.
La prudenza è necessaria tanto per dirigere noi stessi quanto per dirigere gli altri.
1026. 1° Per dirigere noi stessi, ossia per santificarci. È lei infatti che ci fa schivare il peccato, e praticare le virtù. A) Per schivare il peccato, bisogna, come abbiamo già detto, conoscerne le cause e le occasioni, studiare e preparare i rimedi. Ed è quello che fa la prudenza, come possiamo conchiudere dallo studio dei suoi elementi costitutivi: consultando l'esperienza del passato e lo stato attuale dell'anima, vede ciò che per noi è o nell'avvenire potrebbe essere causa od occasione di peccato; quindi suggerisce i mezzi migliori onde sopprimere o attenuare queste cause e la strategia più atta a vincere le tentazioni e trarne anzi profitto. Senza questa prudenza, quanti peccati si commetterebbero! quanti se ne commettono per difetto di prudenza!
1027. B) La prudenza è pure necessaria per praticare le virtù e agevolare così l'unione con Dio. A ragione si paragonano le virtù a un cocchio che ci conduce a Dio e la prudenza al cocchiere che lo guida, auriga virtutum; è come l'occhio dell'anima che vede la via da seguire e gli ostacoli da evitare.
1) È necessaria alla pratica di tutte le virtù: delle virtù morali, che devono tenersi nel giusto mezzo e schivare gli opposti eccessi; e anche delle virtù teologali, che devono praticarsi a tempo opportuno e con mezzi appropriati alle varie circostanze della vita: così spetta alla prudenza esaminare quali sono i pericoli che minacciano la fede e i mezzi per allontanarli; in che modo può essere coltivata la fede e diventar più pratica; in che modo s'ha da conciliare la confidenza in Dio e il timore dei divini giudizi, schivando nello stesso tempo la presunzione e la disperazione; in che modo la carità può informare tutte le nostra azioni senza turbar l'esercizio dei doveri del nostro stato. E quanta prudenza non occorre nella pratica della carità fraterna!
2) Anche più necessaria è per la pratica d'un certo numero di virtù che paiono contradittorie: la giustizia e la bontà, la dolcezza e la fortezza, le sante austerità e la cura della salute, la sollecitudine per il prossimo e la castità, la vita interiore e gli affari.
1028. 2° Non meno necessaria è la prudenza nella pratica dell'apostolato.
a) Sul pulpito, la prudenza suggerisce al sacerdote ciò che si deve dire e ciò che si deve tacere, come si deve parlare per non offendere gli uditori, per adattare la divina parola al loro grado d'intelligenza, per persuadere, commuovere e convertire. Forse anche più necessaria è nel fare il catechismo, dove si tratta di formare i giovanetti e stampar nella loro anima un'impronta che durerà poi tutta la vita.
b) Al confessionale, la prudenza è quella che fa del confessore un giudice perspicace ed integro, capace di discernere la varia colpevolezza, interrogare i penitenti con precisione e chiarezza, secondo l'età e la condizione di ciascuno, tenendo conto di tutte le circostanze; un dottore capace di istruire senza scandalizzare, di lasciar certe anime nella buona fede o avvertirle secondo i vari risultati che si possono prevedere; un medico capace di esplorar con delicatezza le cause della malattia, scoprirne e savviamente [sic] prescriverne i rimedi; un padre così affettuoso da ispirare confidenza e così riserbato da non ispirare troppo umana simpatia.
c) In tutto ciò che riguarda battesimi, prime comunioni, matrimonii, Estrama Unzione, funerali, quanta finezza è necessaria per conciliare i desiderii delle famiglie e le leggi divine e liturgiche! Nelle visite agli infermi o nelle visite di apostolato quanta avvedutezza ci vuole!
d) Lo stesso si dica nell'amministrazione temporale delle parrocchie, in fatto di tariffe per le diverse ceremonie, nell'obolo per il culto; per sapere ottener tutti i mezzi necessari alla Chiesa senza urtare i parrocchiani, senza scandalizzarli, senza compromettere la riputazione di perfetto disinteresse di cui ogni sacerdote deve godere.
III. I mezzi di perfezionarsi in questa virtù.
1029. C'è un mezzo generale che s'applica a tutte le virtù, morali e teologali, è la preghiera, con cui attiriamo in noi Gesù e le sue virtù. Lo accenniamo qui una volta per sempre per non doverci poi tornar sopra; e non parleremo più che dei mezzi proprii a ciascuna virtù.
1030. 1° Il principio generale che presiede a tutti gli altri e si applica a tutte le anime è di riferire tutti i giudizi e tutte le risoluzioni al fine ultimo soprannaturale. È ciò che S. Ignazio consiglia a principio degli Esercizi Spirituali, nella meditazione fondamentale.
a) Osserviamo per altro che questo principio non sarà inteso da tutte le anime allo stesso modo: gl'incipienti, considerando il fine dell'uomo, si fisseranno piuttosto sulla salvezza dell'anima, i perfetti sulla gloria di Dio; questo secondo modo è in sè migliore, ma non tutte le anime potrebbero intenderlo e gustarlo.
b) A concretar meglio questo principio, si può affiggerlo a qualche massima che ce lo porrà vivamente sotto gli occhi, per esempio: Quid hoc ad æternitatem! -- Quod æternum non est, nihil est. -- Quid prodest homini?...
In pratica poi il convincersi bene di alcuna di queste massime, il ritornarci sopra fin che ci sia divenuta familiare, l'abituarsi a viverne, è il mezzo efficace per fissarci nell'anima i fondamenti della cristiana prudenza.
1031. 2° Armati di questo principio, gl'incipienti si applicano a liberarsi dai difetti contrari alla prudenza cristiana 1031-1.
a) Combattono quindi vigorosamente la prudenza della carne, che cerca avidamente i mezzi di soddisfare la triplice concupiscenza, mortificando l'amore del piacere e ripensando che le false gioie di questo mondo, molto spesso seguite da amari dispiaceri, sono un nulla in paragone delle gioie eterne.
b) Rigettano premurosamente l'astuzia, l'inganno, la frode anche nel perseguimento di un fine onesto, persuasi che la miglior politica è ancora l'onestà, -- che il fine non giustifica i mezzi -- e che, secondo il Vangelo, si deve associar la semplicità della colomba alla prudenza del serpente. Cosa tanto più necessaria perchè talora si rimproverano questi difetti, per lo più ingiustamente, ai devoti, ai sacerdoti, ai religiosi. Si coltiverà dunque con ogni premura la lealtà perfetta e la evangelica semplicità.
1032. c) Lavorano a mortificare i pregiudizi e le passioni che sono elementi perturbatori del giudizio: i pregiudizi, che inducono a prendere una risoluzione per motivi preconcetti che possono essere falsi o irragionevoli; le passioni, superbia, sensualità, voluttà, eccessiva sollecitudine dei beni del mondo, che agitano l'anima e le fanno scegliere non ciò che è meglio, ma ciò che è più dilettevole e più utile rispetto ai temporali interessi. Ad affrancarsi da queste perturbatrici influenze, richiamano le massime evangeliche: "Quærite primum regnum Dei et justitiam ejus". Evitano quindi di prendere risoluzioni sotto l'impulso di una viva passione e aspettano che sia tornata la calma nell'anima. Se poi occorresse risolversi presto, si raccolgono almeno un momento per mettersi alla presenza di Dio, implorarne i lumi e fedelmente seguirli.
d) A combattere la leggerezza dell'animo, la corrività [sic] nei giudizi o la sconsideratezza, badano a non operar mai senza riflettere, senza chiedersi per quali motivi operano, quali saranno le conseguenze buone o cattive dei loro atti, il tutto in relazione con l'eternità. Questa riflessione sarà proporzionata all'importanza della risoluzione da prendere, e in cose gravi consulteranno persona savia e sperimentata. Così a poco prenderanno l'abitudine di non risolvere nulla e di nulla fare senza riferirlo a Dio e all'ultimo fine.
e) Infine, ad evitare l'irrisolutezza e l'eccessiva esitazione a risolversi, si baderà a rinuovere la cause di questa malattia spirituale, (animo troppo complesso o troppo perplesso, timidezza nell'intraprendere, ecc.) facendosi fissare regole sicure da un savio direttore, onde si risolverà con franchezza nei casi ordinari e si chiederà consiglio nei casi più difficili.
1033. 3° Le anime proficienti si perfezionano nella prudenza in tre modi:
a) Studiando le azioni e la parole di Nostro Signore nel Vangelo, per trovarvi il modo di condursi e attirare in sè, colla preghiera e coll'imitazione, le disposizioni di questo divino Modello. 1) Così se ne ammirerà la prudenza nella vita nascosta: passa trent'anni nella pratica di quelle virtù che ci costano tanto, l'umiltà, l'obbedienza, la povertà, prevedendo che, senza questa lezione di cose, noi non avremmo mai saputo praticare queste così necessarie virtù. E non se ne ammirerà meno la prudenza nella vita pubblica: lotta col demonio così da sconcertarne i disegni e confonderlo con risposte che non ammettono replica; porge il suo insegnamento secondo le circostanze; non palesa se non gradatamente la sua qualità di Messia e di Figlio di Dio; usa paragoni familiari per far meglio capire il suo pensiero, e parabole per coprirlo o svelarlo secondo che volevano le circostanze; smaschera abilmente gli avversari e risponde alle capziose loro interrogazioni con altre domande che li sconcertano; forma progressivamente gli apostoli, sopportandone i difetti e adattando l'insegnamento alla loro capacità "non potestis portare modo" 1033-1; sa peraltro dir loro dure verità, come l'annunzio della sua passione, a fine di prepararli allo scandalo della croce; anche nel corso della dolorosa sua passione risponde con calma così ai giudici come ai loro servi, sapendo tacere a tempo opportuno;... sa insomma conciliare in ogni cosa la più perfetta prudenza con la fermezza e la fedeltà al dovere.
2) Il suo insegnamento poi si compendia in queste parole: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia... Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe... Vigilate e pregate: Quærite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus... Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbæ...1033-2 Vigilate et orate" 1013-3.
Meditare questi insegnamenti e questi esempi e ardentemente supplicar Nostro Signore di farci parte della sua prudenza: tal è il mezzo principale di perfezionarsi in questa virtù.
1034. b) Coltiveranno poi gli elementi costitutivi della prudenza di cui abbiamo parlato, vale a dire il buon senso, l'abito della riflessione, la docilità a consultare gli altri, lo spirito di risolutezza, lo spirito di previsione e di circospezione.
1035. c) Infine daranno alla loro prudenza le qualità additate da S. Giacomo 1035-1, il quale, dopo avere distinta la vera dalla falsa sapienza, aggiunge: "Quæ autem desursum est sapientia, primum quidem pudica est, deinde pacifica, modesta, suadibilis, plena misericordia et fructibus bonis, non judicans, sine simulatione".
Pudica, vigile nel serbare quella purità di corpo e di cuore che ci unisce a Dio, e quindi all'eterna sapienza.
Pacifica, serbando la pace dell'anima, la calma, la moderazione, la ponderazione che giovano a prendere savie risoluzioni.
Modesta, piena di condiscendenza verso gli altri, e quindi anche suadibilis, facile a lasciarsi persuadere e a cedere alle buone ragioni; scansando così gli sdegni provocati dalle contese.
Plena misericordia et fructibus bonis, piena di misericordia verso gli sventurati, lieta di beneficarli, perchè è segno di cristiana saggezza l'accumulare tesori per il cielo.
Non judicans, sine simulatione, senza parzialità nè doppiezza e senza ipocrisia, difetti che turbano l'anima e il giudizio.
1036. I perfetti praticano la prudenza in modo eminente, sotto l'efficacia del dono del consiglio, come spiegheremo trattando della via unitiva.
ART. II. DELLA VIRTÙ DELLA GIUSTIZIA 1037-1.
Richiamato brevemente l'insegnamento teologico sulla giustizia, tratteremo per ordine delle virtù della religione e dell'obbedienza che vi si connettono.
§ I. La giustizia propriamente detta.
Ne esporremo:
1037. 1° Definizione. La parola giustizia, nella S. Scrittura, significa spesso tutto il complesso delle virtù cristiane; in questo senso Nostro Signore proclama beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, cioè di santità: "Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam" 1037-2. Ma nel significato ristretto in cui qui l'usiamo, indica quella virtù morale soprannaturale, che inclina la volontà a rendere costantemente agli altri tutto ciò che è loro strettamente dovuto.
È virtù che risiede nella volontà e che regola gli stretti doveri verso il prossimo; onde si distingue dalla carità, virtù teologale, che ci fa considerare gli altri come fratelli in Gesù Cristo, inclinandoci a rendere loro servigi non richiesti dalla stretta giustizia.
1038. 2° Eccellenza. La giustizia fa regnar l'ordine e la pace così nella vita individuale come nella sociale. Appunto perchè rispetta i diritti di ognuno, fa regnar l'onestà negli affari, reprime la frode, protegge i diritti dei piccoli e degli umili, raffrena le rapine e le ingiustizie dei forti e mette quindi l'ordine nella società 1038-1. Senza di lei vi sarebbe anarchia, lotta fra i contrari interessi, oppressione dei deboli da parte dei forti, trionfo del male.
Se così eccellente è la giustizia naturale, quanto più lo sarà la giustizia cristiana che è partecipazione della stessa giustizia di Dio? Lo Spirito Santo, comunicandocela, ce la fa penetrare sin nelle profondità dell'anima, la rende incrollabile, incorruttibile, aggiungendovi tal premura dei diritti altrui, che si ha orrore non solo dell'ingiustizia propriamente detta ma anche delle minime indelicatezze.
1039. 3° Le principali specie. Se ne distinguono due specie principali: la giustizia generale, che ci prescrive di rendere alle società ciò che loro dobbiamo, e la giustizia particolare, che ci fa rendere agli individui quanto è loro dovuto.
a) La prima, che si dice pure giustizia legale perchè è fondata sull'esatta osservanza delle leggi, ci obbliga a riconoscere i grandi benefici che riceviamo dalla società col sopportare i pesi legittimi che ella c'impone e col prestarle i servigi che da noi si aspetta. Essendo il bene comune superiore al bene particolare, vi sono casi in cui i cittadini devono sacrificare una parte dei loro beni, della loro libertà, e rischiare anche la vita per la difesa della città. -- Ma anche la società ha doveri verso i propri sudditi: deve distribuire i beni sociali e le cariche non a capriccio e per favoritismo, ma secondo le capacità di ciascun cittadino, e tenendo conto delle regole dell'equità. A tutti ella deve quel tanto di protezione e di assistenza che è indispensabile perchè siano tutelati gli essenziali diritti ed interessi di ogni cittadino; il favoritismo verso gli uni e la persecuzione verso gli altri sono abusi contrari alla giustizia distributiva che le società devono ai loro sudditi.
1040. b) La seconda, la giustizia particolare, regola i diritti e i doveri dei cittadini tra loro. Deve rispettare tutti i diritti: non solo il diritto di proprietà, ma anche i diritti che hanno sui beni del corpo e dell'anima, la vita, la libertà, l'onore, la riputazione.
Non possiamo entrare in tutte quelle particolarità che abbiano esposto nella nostra Teologia morale, 1040-1 e basterà richiamare le principali regole che devono guidarci nella pratica di questa virtù.
II. Principali regole per praticar la giustizia.
1041. 1° Principio. È chiaro che le persone pie, i religiosi e i sacerdoti sono obbligati a praticar la giustizia con perfezione e delicatezza maggiore delle persone del mondo, dovendo dar buon esempio in materia di onestà come in tutte le altre virtù. Chi facesse altrimenti scandalizzerebbe il prossimo e darebbe pretesto ai nostri avversari di condannar la religione. Sarebbe pure porre ostacolo al progresso spirituale, perchè il Dio di ogni giustizia non può ammettere alla sua intimità coloro che apertamente ne violano i formali precetti sulla giustizia.
1042. 2° Applicazioni. A) Si deve prima di tutto rispettare il diritto di proprietà per quel che riguarda i beni temporali.
a) Si eviteranno quindi con ogni diligenza i piccoli furti, che per sdrucciolevole pendio conducono spesso ad ingiustizie più gravi; e s'inculcherà questo principio fin dall'infanzia, per ispirare una specie d'orrore istintivo alle più piccole ingiustizie. A più forte ragione si eviteranno quei furti commessi dai mercanti o dagli industriali che praticano abitualmente la frode sulla qualità o sulla quantità delle merci col pretesto che i concorrenti fanno lo stesso; oppure che vendono a prezzi esagerati o comprano a prezzi irrisori, abusando della semplicità dei clienti; si starà alla larga dalle speculazioni temerarie e da quei loschi affari in cui si rischia la fortuna propria e l'altrui sotto pretesto di lauti guadagni.
b) Si avrà orrore dei debiti quando non si è sicuri di poterli pagare; e chi ne avesse contratto qualcuno, si farà un punto d'onore di rimborsarlo al più presto.
c) Quando si prende ad imprestito un oggetto, bisogna trattarlo con riguardo anche maggiore che se fosse nostro, e badare a restituirlo il più presto possibile. Quanti furti incoscienti si commettono quando si trascurano queste precauzioni!
d) Chi ha volontariamente causato qualche danno è tenuto per giustizia a ripararlo; se involontariamente, non è strettamente obbligato, ma chi mira alla perfezione lo farà per quanto gli averi glie lo permettono.
e) Quando si riceve in deposito danaro o valori per opere buone, bisogna prendere tutte le precauzioni legali perchè, in caso di morte improvvisa, coteste somme siano bene impiegate secondo le intenzioni dei donatori. Sia detto specialmente per i sacerdoti che ricevono onorari di messe od elemosine; essi devono non solo tenere i conti in ordine, ma avere per legatario o per esecutore testamentario un sacerdote che possa assicurare l'adempimento delle messe o il buon uso delle elemosine.
1043. B) Non è meno necessario rispettare la riputazione e l'onore del prossimo.
a) Si schiveranno quindi i giudizi temerari sul prossimo. Condannare i nostri fratelli per semplici apparenze o per ragioni più o meno futili, senza conoscerne a fondo le intenzioni, è un usurpare i diritti di Dio, che solo è giudice supremo dei vivi e dei morti; è commettere un'ingiustizia rispetto al prossimo, perchè si condanna senza ascoltarlo, senza conoscere i motivi segreti delle sua azioni, e per lo più sotto l'impero di pregiudizi o di qualche passione. La giustizia e la carità vogliono invece o che ci asteniamo dal giudicare, o che interpretiamo più favorevolmente possibile le azioni del prossimo.
b) A più forte ragione bisogna astenersi dalla maldicenza, che palesa ad altri le colpe o i difetti segreti del prossimo. Anche che questi difetti, come noi supponiamo, siano veri, fin che non sono di dominio pubblico, non abbiamo il diritto di propalarli. Facendolo: 1) contristiamo il prossimo che, vedendosi colpito nella riputazione, ne soffre tanto più quanto più caro gli è l'onore; 2) l'abbassiamo nella stima dei suoi pari; 3) diminuiamo l'autorità e il credito di cui ha bisogno per fare i suoi affari od esercitare una legittima influenza, onde gli possiamo cagionar talora danni quasi irreparabili.
Nè si dica che colui del quale si raccontano le colpe non ha più diritto alla riputazione: la conserva fino a tanto che le sue colpe non sono pubbliche; ma poi non bisogna perdere di vista la parola del Salvatore: "Chi di voi è senza peccato lanci la prima pietra" 1043-1. Si noti che i Santi sono tutti sommamente misericordiosi e cercano in tutti i modi di difendere la riputazione dei fratelli. È meglio che anche noi li imitiamo.
c) Con ciò saremo più sicuri di schivar la calunnia, che, confalse imputazioni, accusa il prossimo di colpe non commesse. Ingiustizia tanto più grave in quanto che è spesso ispirata dalla malignità o dalla gelosia. Quanti mali cagiona! Troppo bene accolta, ahimè! dall'umana malizia, corre rapidamente di bocca in bocca, distrugge la riputazione e l'autorità di coloro che ne sono vittime e ne pregiudica talora gravemente anche gli affari temporali.
1044. Vi è quindi stretto dovere di riparare le maldicenze e le calunnie. È cosa certamente difficile; perchè il ritrattarsi costa, e poi la ritrattazione, per quanto sincera sia, non fa che palliare l'ingiustizia commessa; la menzogna, anche quando è ritrattata, lascia spesso tracce indelebili. Non è però questa una buona ragione per non riparare la commessa ingiustizia; bisogna anzi applicarcisi con tanto maggiore energia e costanza quanto più grande è il male. La difficoltà della riparazione deve indurci ad astenerci da tutto ciò che potrebbe da vicino o da lontano farci cadere in questo grave difetto.
Ecco perchè tutti coloro che tendono alla perfezione coltivano non solo la giustizia ma anche la carità, la quale, facendoci veder Dio nel prossimo, ci fa diligentemente schivare tutto ciò che potrebbe contristarlo. Ci ritorneremo più avanti.
§ II. La virtù della religione 1045-1.
1045. Questa virtù si connette con la giustizia, perchè ci fa rendere a Dio il culto che gli è dovuto; ma che non potendo noi offrirgli l'ossequio infinito a cui ha diritto, la nostra religione non avvera tutte le condizioni della giustizia; onde non è in senso proprio un atto di giustizia, ma vi si avvicina quanto più è possibile. -- Ne esporremo:
I. Natura della virtù della religione.
1046. La religione è una virtù morale soprannaturale che inclina la volontà a rendere a Dio il culto che gli è dovuto per la infinita sua eccellenza e pel supremo suo dominio sopra di noi.
a) È una virtù speciale, distinta dalle tre virtù teologali che hanno Dio per oggetto diretto; mentre l'oggetto proprio della religione è il culto di Dio, sia interno che esterno. Ma presuppone la virtù della fede, che ci illumina sui diritti di Dio; e quando sia perfetta, è informata dalla carità e finisce col non essere più che l'espressione e la manifestazione delle tre virtù teologali.
b) Il suo oggetto formale o motivo è di riconoscere l'infinita eccellenza di Dio, primo principio ed ultimo fine, Essere perfetto, Creatore da cui tutto dipende e a cui tutto deve tendere.
c) Gli atti a cui la religione ci induce sono interni ed esterni.
1047. Con gli atti interni assoggettiamo a Dio l'anima con le sue facoltà, e specialmente l'intelletto e la volontà. 1) Il primo e più importante di questi atti è l'adorazione per cui tutto il nostro essere si prostra davanti a Colui che è la pienezza dell'essere e la fonte di tutto ciò che vi è di bene nella creatura. È accompagnata o seguita dalla ammirazione riverente che proviamo alla vista delle infinite sue perfezioni. 2) Ed essendo egli l'autore di tutti i beni che possediamo, gliene professiamo la debita riconoscenza. 3) Ma ricordandoci di essere peccatori, concepiamo sentimenti di penitenza per riparar l'offesa commessa contro l'infinita sua maestà. 4) E perchè abbiamo continuamente bisogno del suo aiuto per fare il bene e conseguire il nostro fine, gli rivolgiamo le nostre preghiere o domande, riconoscendo così che è fonte d'ogni bene.
1048. Questi sentimenti interni si manifestano con atti esterni, che hanno tanto maggior valore quanto più perfetti sono gli atti interni di cui sono espressione. 1) Il principale di questi atti è certamente il sacrifizio, atto esterno e sociale, con cui il sacerdote offre a Dio, in nome della Chiesa, una vittima immolata, per riconoscere il supremo dominio, riparare l'offesa fatta alla sua Maestà ed entrare in comunione con lui. Nella nuova Legge non c'è che un solo sacrificio, quello della messa, che, rinnovando il sacrificio del Calvario, porge a Dio ossequi infiniti e ottiene agli uomini tutte le grazie di cui hanno bisogno. Ne abbiamo indicato più sopra gli effetti e le disposizioni necessarie per trarne profitto, n. 271-276. 2) A quest'atto principale s'aggiungono: le preghiere pubbliche offerte, in nome della Chiesa, dai suoi rappresentanti, in particolare l'ufficio divino; le benedizioni del SS. Sacramento; le preghiere vocali private; i giuramenti e i voti fatti con prudenza, in onore di Dio, dotati di tutte le condizioni descritte nei trattati di Teologia morale; gli atti soprannaturali esterni fatti per la gloria di Dio e che, secondo l'espressione di san Pietro, sono sacrifizi spirituali graditi a Dio, "offerre spirituales hostias, acceptabiles Deo" 1048-1.
Da ciò si può conchiudere che la virtù della religione è la più eccellente delle virtù morali, perchè, facendoci praticare il culto divino, ci avvicina a Dio più che le altre virtù.
II. Necessità della virtù della religione.
Per procedere con ordine, dimostreremo:
1049. 1° Tutte le creature devono rendere gloria a Dio. Se ogni opera deve proclamar la gloria dell'artista che l'ha fatta, quanto più deve la creatura proclamar la gloria del suo Creatore? L'artista non fa poi altro che modellar l'opera sua e, terminata che l'abbia, non ci ha più da far nulla. L'artista divino invece non solo modellò le sue creature ma le trasse intieramente dal nulla, imprimendovi non solo l'orma del suo genio ma anche un raggio delle sue perfezioni; e continua ad occuparsene conservandole, aiutandole col suo concorso e con la sua grazia, cosicchè sono in una intiera dipendenza da lui. Devono quindi assai più dell'opere d'un artista proclamar la gloria del loro autore. È quello che fanno, a modo loro, gli esseri inanimati, i quali, svelandoci la loro bellezza e la loro armonia, c'invitano a glorificar Dio: "Cæli enarrant gloriam Dei 1049-1... ipse fecit nos et non ipsi nos" 1049-2; ma è ossequio che non onora Dio se non molto imperfettamente perchè non è libero.
1050. 2° Spetta dunque all'uomo il glorificar Dio in modo cosciente, prestare il cuore e la voce a queste creature inanimate onde rendergli ossequio intelligente e libero. Spetta a lui, che è il re della creazione, contemplar tutte queste maraviglie per riferirle a Dio ed essere quindi il pontefice della creazione. Deve specialmente lodarlo in nome proprio: più perfetto degli esseri irragionevoli, creato ad immagine e somiglianza di Dio, partecipe della sua vita, deve vivere in assidua ammirazione, lode, adorazione, riconoscenza ed amore al suo Creatore e Santificatore. È quello che dichiara S. Paolo 1050-1: "Da lui, per lui, e a lui sono tutte le cose: a lui la gloria per tutti i secoli!... Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo pel Signore...". E, ricordando ai discepoli che il nostro corpo come l'anima nostra è tempio dello Spirito Santo, aggiunge: "glorificate Dio nel vostro corpo: "glorificate et portate Deum in corpore vestro" 1050-2.
1051. 3° Questo dovere spetta soprattutto ai sacerdoti. Infatti la maggior parte degli uomini, ingolfati negli affari e nei piaceri, sventuratamente non consacrano che pochissimo tempo all'adorazione. Si dovevano quindi scegliere tra loro delegati speciali, accetti a Dio, che potessero, non solo in nome proprio ma in nome pure di tutta la società, rendere a Dio i doveri di religione a cui ha diritto. È appunto questo l'ufficio del sacerdote cattolico: eletto da Dio stesso, tra gli uomini, è come il mediatore di religione tra il cielo e la terra, incaricato di glorificar Dio e porgergli l'ossequio di tutte le creature, facendone poi scendere sulla terra una pioggia di grazie e di benedizioni. Tal è quindi il dovere del suo stato, la sua professione, vero dovere di giustizia, come spiega S. Paolo: 1051-1 "Omnis namque Pontifex ex hominibus assumptus pro hominibus constituitur in his quæ sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis". Ecco perchè la Chiesa gli affida due grandi mezzi per praticar la virtù della religione: l'ufficio divino e la santa messa. Doppio dovere che deve compiere con tanto maggior fervore in quanto che, glorificando Dio, lo dispone nello stesso tempo favorevolmente ad esaudire le nostre richieste; lavora così e alla santificazione propria e a quella delle anime che gli sono affidate, n. 393-401. Le sue preghiere hanno tanto maggiore efficacia, in quanto che è la Chiesa, è Gesù che prega con lui e in lui; ora le preghiere di Cristo sono sempre esaudite: exauditus est pro sua reverentiâ" 1051-2.
III. Pratica della virtù della religione.
1052. Per ben praticar questa virtù, bisogna coltivare la vera devozione, cioè quella disposizione abituale della volontà che ci fa prontamente e generosamente abbracciare tutto ciò che è di servizio di Dio. È dunque in sostanza una manifestazione dell'amor di Dio; onde la religione si connette con la carità.
1053. 1° Gl'incipienti praticano questa virtù: a) osservando bene le leggi di Dio e della Chiesa sulla preghiera, sulla santificazione delle domeniche e delle feste; b) schivando la abituale dissipazione esterna ed interna, che è fonte di numerose distrazioni nella preghiera, con una certa vigilanza a lottare contro l'onda invadente dei divertimenti mondani e delle inutili fantasticherie; c) raccogliendosi interiormente prima di pregare, per farlo con maggior attenzione, e praticando il santo esercizio della presenza di Dio, n. 446.
1054. 2° I proficienti si sforzano di entrare nello spirito di religione, in unione con Gesù, il grande Religioso del Padre, che nella vita come nella morte glorificò Dio in modo infinito, n. 151.
a) Questo spirito di religione comprende due principali disposizioni, riverenza e amore. La riverenza è un profondo sentimento di rispetto misto a timore, con cui riconosciamo Dio come nostro Creatore e Sovrano Padrone, e siamo lieti di proclamare la assoluta nostra dipendenza da lui. L'amore si volge al Padre amabilissimo e amantissimo che si degnò di adottarci per figli e che continuamente ci è largo della paterna sua tenerezza. Doppio sentimento, onde scaturiscono tutti gli altri: ammirazione, riconoscenza, lode.
1055. b) Nel Cuore sacratissimo di Gesù andiamo ad attingere questi sentimenti di religione. Il divino Mediatore non visse che per glorificare il Padre: "Ego te clarificavi super terram"; morì per farne la volontà, per intieramente appagarlo, protestando così di non veder nulla che meriti di vivere e di sussistere al cospetto di Dio. Dopo la morte egli continua l'opera sua non solo nell'Eucaristia, ove continuamente adora la SS. Trinità, ma anche nei nostri cuori, ove, per mezzo del divino suo Spirito, produce religiose disposizioni simili alle sue. Vive in tutti i cristiani, ma soprattutto nei sacerdoti, procurando per loro mezzo la gloria di Colui che solo merita di essere adorato e rispettato. Dobbiamo quindi con ardenti desideri attirarlo in noi e darci a lui perchè in noi, con noi e per noi pratichi la virtù della religione.
"Allora, scrive l'Olier 1055-1, Gesù viene in noi e si lascia sulla terra tra le mani dei sacerdoti come ostia di lode, per farci partecipare al suo spirito di vittima, applicarci alle sue lode e comunicarci interiormente i sentimenti della sua religione. Si diffonde in noi, s'insinua in noi, ci profuma l'anima e la riempie delle disposizioni interiori del suo spirito religioso; di guisa che dell'anima nostra e della sua non ne fa che una sola, animandola dello stesso spirito di rispetto, di amore e di lode, di interno ed esterno sacrificio di ogni cosa a gloria di Dio suo Padre".
1056. c) Ma non bisogna dimenticare che Gesù chiede la nostra collaborazione. Venendo a farci partecipare al suo stato e al suo spirito di vittima, è necessario che viviamo con lui ed in lui in ispirito di sacrificio, crocifiggendo le tendenze della guasta natura e prontamente obbedendo alle ispirazioni della grazia; allora tutte le nostre azioni piaceranno a Dio e saranno tante ostie, tanti atti di religione, a lode e gloria di Dio, nostro Creatore e nostro Padre. Proclamiamo così in modo pratico che Dio è tutto e nulla la creatura immolando partitamente tutto il nostro essere e tutte le nostre azioni a gloria del Sovrano nostro Padrone.
d) Il che specialmente facciamo in quegli atti che sono propriamente atti di religione, nell'assistenza alla santa messa, nella recita delle preghiere liturgiche e in altri, come abbiamo spiegato nei n. 274, 284, 523.
I perfetti praticano questa virtù sotto l'efficacia del dono della pietà, di cui tratteremo più avanti.
§ III. Della virtù dell'obbedienza 1057-1.
Questa virtù si connette colla giustizia perchè l'obbedienza è un ossequio, un atto di sottomissione dovuto ai Superiori; ma se ne distingue perchè importa ineguaglianza tra superiori ed inferiori. Esponiamone:
I. Natura e fondamento dell'obbedienza.
1057. 1° Definizione. L'obbedienza è una virtù morale soprannaturale che ci inclina a sottomettere la volontà nostra a quella dei legittimi superiori in quanto sono rappresentanti di Dio. Spiegheremo prima di tutto le ultime parole, essendo esse il fondamento della obbedienza cristiana.
1058. 2° Fondamento di questa virtù. L'obbedienza è fondata sul supremo dominio e sulla sottomissione assoluta che la creatura gli deve.
A) È prima di tutto cosa evidente che dobbiamo obbedire a Dio, n. 481.
1) Creati da Dio, dobbiamo stare in intiera dipendenza dalla santa sua volontà. Tutte le creature obbediscono alla sua voce: "Omnia serviunt tibi" 1058-1; ma le creature ragionevoli vi sono più obbligate delle altre, avendo da lui ricevuto di più, specialmente il dono della libertà, del quale non possiamo mostrarci meglio riconoscenti che col sottomettere liberamente la volontà nostra a quella del Creatore. 2) Figlio di Dio, dobbiamo obbedire al Padre celeste, come fece Gesù che, entrato nel mondo per obbedienza, non ne uscì che per obbedienza: "factus obediens usque ad mortem" 1058-2. 3) Riscattati dalla schiavitù del peccato, non siamo più nostri, ma apparteniamo a Gesù Cristo, che diede il sangue per farci suoi: "Jam non estis vestri, empti enim estis pretio magno" 1058-3; dobbiamo quindi obbedire alle sue leggi.
1059. B) Onde dobbiamo pure obbedire ai legittimi rappresentanti di Dio: ecco il punto che bisogna capir bene. a) Vedendo che l'uomo non può bastare a sè per l'educazione fisica, intellettuale e morale, Dio vuole che viva in società. Ora la società non può sussistere senza un'autorità che coordini gli sforzi dei membri al bene comune; Dio vuole dunque che vi sia una società gerarchica, con superiori incaricati di comandare e inferiori che devono obbedire. A rendere questa obbedienza più facile egli delega la sua autorità ai legittimi superiori: "Non est enim potestas nisi a Deo" 1059-1, per guisa che obbedire ad essi è obbedire a Dio, e il disobbedirli è andare incontro alla propria dannazione: "Itaque qui resistit potestati Dei ordinationi resistit, qui autem resistunt ipsi sibi damnationem acquirunt" 1059-2. Il dovere dei superiori è di non esercitare l'autorità che come delegati di Dio, per procurarne la gloria e promuovere il bene generale della comunità; se vi mancano, sono responsabili di quest'abuso d'autorità davanti a Dio e davanti ai suoi rappresentanti. Ma il dovere degli inferiori è d'obbedire ai rappresentanti di Dio come a Dio stesso: "Qui vos audit, me audit... qui vos spernit, me spernit" 1059-3. La ragione è chiara: senza questa sottomissione non vi sarebbe nelle varie comunità che disordine ed anarchia e tutto ne soffrirebbe.
1060. b) Ma quali sono i superiori legittimi? Sono coloro che furono posti da Dio a capo delle varie società.
1) Nell'ordine naturale si possono distinguere tre specie di società: la società domestica o familiare, a cui presiedono i genitori e principalmente il padre di famiglia; la società civile, governata da chi è legittimamente investito dell'autorità secondo i vari sistemi riconosciuti nelle varie nazioni; la società professionale ove sono determinati dal contratto di lavoro 1060-1.
2) Nell'ordine soprannaturale i superiori gerarchici sono: il S. Pontefice, la cui autorità è suprema e immediata in tutta la Chiesa: i Vescovi, che hanno giurisdizione nelle rispettive diocesi, e, sotto la loro autorità, i parroci e i vicari, ognuno nei limiti fissati dal Codice di Diritto canonico. Vi sono pure nella Chiesa comunità particolari con costituzioni e regole approvate da Sommo Pontefice o dai Vescovi, con Superiori nominati secondo le Costituzioni o regole; anche qui abbiamo legittime autorità. Onde chiunque entra in una comunità si obbliga per ciò stesso a osservarne le regole e ad obbedire ai superiori che comandino nei limiti definiti dalla regola.
1061. C) Vi sono dunque dei limiti fissati all'esercizio dell'autorità.
1) È chiaro prima di tutto che non è nè obbligatorio nè lecito ubbidire a un superiore che comandi qualche cosa di manifestamente contrario alle leggi divine od ecclesiastiche; si dovrebbe allora ripetere la parola di S. Pietro: 1061-1 "È meglio ubbidire a Dio che agli uomini, obedire oportet Dei magis quam hominibus": parola liberatrice, che affranca la cristiana libertà da ogni tirannia 1061-2. Lo stesso è a dirsi se ciò che viene comandato è cosa chiaramente impossibile: ad impossibilia nemo tenetur. Ma, essendo noi facili ad illuderci, nei casi dubbi bisogna presumere che il superiore ha ragione: in dubio præsumptio stat pro superiore.
2) Se un superiore comanda fuori delle sue attribuzioni, per esempio, se un padre s'oppone alla vocazione maturamente studiata del figlio, allora oltrepassa i suoi diritti e non si è tenuti ad ubbidirgli. Lo stesso dicasi di un superiore di comunità che desse ordini fuori di ciò che gli permettono le costituzioni e le regole, avendone queste saviamente determinati i limiti dell'autorità.
1062. 1° Gl'incipienti procurano prima di tutto di osservar fedelmente i comandamenti di Dio e della Chiesa; e di sottomettersi almeno esternamente agli ordini dei legittimi superiori con diligenza, puntualità e spirito soprannaturale.
1063. 2° Le anime più progredite: a) meditano diligentemente gli esempi che Gesù ci dà dal primo istante di vita, in cui s'offre per fare in tutto la volontà del Padre, fino all'ultimo, in cui muore vittima della sua ubbidienza. Lo supplicano di venire a vivere in loro con questo spirito d'obbedienza; e si sforzano di unirsi a lui per sottomettersi ai superiori come era sottomesso lui a Maria e a Giuseppe: "et erat subditus illis" 1063-1.
b) Non si contentano d'ubbidire solo esternamente, ma assoggettano internamente la volontà anche nelle cose penose e contrarie al loro genio; lo fanno di gran cuore senza lagnarsi, liete anzi di potere così più perfettamente accostarsi al divino modello. Schivano soprattutto i raggiri per indurre i superiori a volere ciò che vogliono loro. Perchè, come osserva S. Bernardo
1063-2 "se, desiderando una cosa, voi o apertamente o secretamente brigate per farvela comandare dal padre spirituale, non vi crediate di ubbidire in questo: non fate che illudervi. Non siete voi che ubbidite al superiore ma è lui che ubbidisce a voi".
1064. 3° Le anime perfette fanno anche di più: sottomettono il giudizio proprio a quello del superiore, senza neppure esaminare le ragioni per cui egli comanda.
È quello che spiega molto bene S. Ignazio: 1064-1 "Se qualcuno vuole fare di sè un sacrificio perfetto, è necessario che, dopo aver sottomesso a Dio la volontà, gli consacri pure l'intelletto... in modo che non solo voglia ciò che il Superiore vuole, ma che sia pure dello stesso parere e che il giudizio suo sia intieramente sottomesso al giudizio del superiore, per quanto una volontà già sottomessa può sottomettere l'intelletto... Il giudizio può, come la volontà, traviare in ciò che riguarda noi, e quindi, come ad impedire che la nostra volontà si disordini, l'uniamo a quella del superiore, così pel timore che il nostro giudizio s'inganni, dobbiamo parimenti conformarlo al giudizio del Superiore." Aggiunge però che: "se si presenta alla vostra mente qualche sentimento diverso da quello del superiore, e vi pare, dopo aver consultato Nostro Signore nella preghiera, di doverlo esporre, potete farlo. Ma, per tema che in ciò l'amor proprio e il vostro modo di vedere v'ingannino, è bene usare questa precauzione che, prima di proporre il vostro sentimento e dopo averlo esposto, vi teniate in perfetta tranquillità d'animo, dispostissimo non solo a fare o a lasciare ciò di cui si tratta, ma anche a tenere per partito migliore quanto il superiore avrà fissato". -- È quella che si chiama ubbidienza cieca, per cui uno è nelle mani del Superiore "perinde ac baculus... perinde ac cadaver" 1064-2; ma, colle riserve fatte da S. Ignazio e quelle da noi poste più sopra, tale ubbidienza non ha nulla di irragionevole, perchè in tal caso sottomettiamo a Dio la volontà e l'intelletto, come chiariremo anche meglio esponendo le qualità dell'ubbidienza.
III. Le qualità dell'obbedienza.
L'obbedienza, a riuscir perfetta, dev'essere: soprannaturale nell'intenzione, universale nell'estensione, integrale nell'esecuzione.
1065. 1° Soprannaturale nell'intenzione: vale a dire che dobbiamo vedere Dio stesso o Gesù Cristo nei superiori, procedendo da lui la loro autorità. Nulla rende più facile l'ubbidienza; perchè chi vorrebbe rifiutare di ubbidire a Dio? È ciò che S. Paolo raccomanda ai servi: "Siate ubbidienti ai vostri padroni con riverente timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, non facendo il vostro dovere solo sotto gli occhi del padrone come chi vuol piacere agli uomini, ma come servi di Cristo che fanno di buon grado la volontà di Dio: non ad oculum servientes, quasi hominibus placentes; sed ut servi Christi, facientes voluntatem Dei ex animo" 1065-1.
Questo pure scriveva S. Ignazio ai suoi Religiosi del Portogallo: "Desidero che vi diate con tutta la diligenza e con tutta l'applicazione possibile a riconoscere Gesù Cristo Nostro Signore in qualsiasi superiore, e a rendere alla divina Maestà, con un profondo rispetto verso la sua persona, l'onore che le dovete... Non considerino quindi mai la persona cui obbediscono, ma vedano in lei Gesù Cristo N. S. per rispetto al quale essi ubbidiscono. Infatti, se si deve obbedire al Superiore, non è già per riguardo alla sua prudenza, alla sua bontà, o ad altre qualità che Dio potesse avergli date, ma unicamente perchè è luogotenente di Dio... Che se invece paresse di minor prudenza e assennatezza, non è questa una ragione di obbedirgli con minore esattezza, perchè, nella sua qualità di superiore, rappresenta la persona di Colui la cui sapienza è infallibile, e che supplirà egli stesso tutto ciò che potesse mancare al suo ministro, sia in virtù sia in altre buone qualità" 1065-2.
Nulla di più saggio di questo principio. Infatti, se oggi obbediamo al superiore perchè ci piacciono le sue belle qualità, che faremo domani se avessimo un superiore che ci sembrasse sfornito di queste qualità? E non perdiamo il merito sottomettendoci a un uomo perchè lo stimiamo, in cambio di sottometterci a Dio stesso? Non consideriamo dunque i difetti dei nostri superiori, il che rende l'obbedienza più difficile, e neppur le loro doti, il che la rende meno meritoria, ma Dio che vive e comanda nella loro persona.
1066. 2° Universale nell'estensione, nel senso che dobbiamo obbedire a tutti gli ordini del legittimo superiore, quando comanda legittimamente. Quindi, come dice San Francesco di Sales 1066-1, l'obbedienza "amorosamente si assoggetta a far tutto ciò che le è comandato, alla buona, senza mai considerare se il comando è bene o mal dato, purchè colui che comanda abbia il potere di comandare, e il comando serva all'unione della nostra mente con Dio". Aggiunge però che se un superiore comandasse cosa manifestamente contraria alla legge di Dio, si ha il dovere di non sottomettervisi; tale ubbidienza, come insegna S. Tommaso, sarebbe indiscreta: "obedientia... indiscreta, quæ etiam in illicitis obedit" 1066-2.
Fuori di questo caso, il vero ubbidiente non erra mai, anche quando erri il superiore e comandi cose meno buone di quelle che si vorrebbero fare: allora infatti Dio, a cui si obbedisce e che vede il fondo dei cuori, ricompensa l'obbedienza assicurando il buon esito di ciò a cui ella pone mano. "Il vero ubbidiente, dice S. Francesco di Sales 1066-3, commentando la sentenza: "vir obediens loquetur victorias", rimarrà vittorioso in tutte le difficoltà in cui verrà a trovarsi per obbedienza, e uscirà con onore dalle vie che per ubbidienza batterà, per quanto possano essere pericolose". Insomma il superiore comandando può errare, noi non erriamo mai obbedendo.
1067. 3° Integrale nell'esecuzione, e quindi puntuale, senza restrizione, costante e anche allegra.
a) Puntuale; perchè l'amore, che presiede all'obbedienza perfetta, ci fa obbedire prontamente: "l'obbediente ama il comando, e appena lo intravede, qual che si sia, gli vada a genio o no, l'abbraccia, l'accarezza e l'ama teneramente" 1067-1.
Tanto dice pure S. Bernardo 1067-2: "Il vero obbediente non conosce dilazioni, ha in orrore il domani; ignora i ritardi; previene il comando; tiene gli occhi attenti, le orecchie tese, la lingua pronta a parlare, le mani disposte a operare, i piedi svelti a slanciarsi; è tutto raccolto per cogliere subito la volontà di colui che comanda".
Ci vuole pure costanza; è uno dei grandi meriti di questa virtù: "perchè fare lietamente ciò che viene comandato, per una volta sola, finchè piacerà, è cosa che costa poco; ma quando vi si dice: Farete questo sempre e per tutto il tempo della vita; qui sta la virtù ed è qui il difficile" 1067-4.
IV. L'eccellenza dell'obbedienza.
1068. Discende da quanto abbiamo detto l'eccellenza dell'ubbidienza. S. Tommaso non esita a dire che dopo la virtù della religione, è la più perfetta delle virtù morali, perchè ci unisce più di tutte le altre a Dio, nel senso che ci distacca dalla nostra volontà che è il più grande ostacolo all'unione divina 1068-1. Ed è pure la madre e la custode delle virtù e transforma gli atti ordinari in atti virtuosi.
1069. 1° L'obbedienza ci unisce a Dio e ci mette in abituale comunione con la sua vita.
a) Infatti sottomette direttamente alla volontà divina la volontà nostra e quindi pure tutte le altre nostre facoltà, in quanto queste sono soggette alla volontà. Sottomissione tanto più meritoria perchè libera: le creature inanimate obbediscono a Dio per necessità di natura, ma l'uomo obbedisce per libera scelta della sua volontà. Offre così al Supremo Padrone ciò che ha di più caro e gl'immola la più eccellente delle vittime: "per obedientiam mactatur propria voluntas" 1069-1. Entra pure in comunione con Dio, non avendo più altra volontà che la sua e ripetendo gli eroici accenti di Gesù nell'ora dell'agonia: "non mea volontas, sed tua fiat" 1069-2. Comunione grandemente meritoria e grandemente santificatrice, perchè unisce la nostra volontà, che è il più prezioso nostro bene, alla sempre buona e santa volontà di Dio.
b) Ed essendo la volontà regina di tutte le facoltà, unendola noi a Dio, uniamo a lui tutte le potenze dell'anima. Sacrificio maggiore di quello dei beni esterni che facciamo con la povertà e di quello dei beni del corpo che facciamo con la castità e la mortificazione; l'ottimo dei sacrifici: melior est obedientia quam victimæ 1069-3.
c) Ed è pure il più costante e il più durevole; con la comunione sacramentale non restiamo uniti a Dio che pochi istanti, ma l'obbedienza abituale forma tra l'anima nostra e Dio una specie di comunione spirituale permanente, che ci fa restare in lui come egli resta in noi, volendo noi tutto ciò che vuol lui e null'altro fuori di ciò che vuol lui: "unum velle, unum nolle"; or questa è veramente la più vera, la più intima, la più pratica di tutte le unioni.
1070. 2° L'obbedienza quindi è madre e custode di tutte le virtù, secondo la bella espressione di S. Agostino: "Obedientia in creatura rationali mater quodammodo est custosque virtutum" 1070-1.
a) L'obbedienza si confonde praticamente con la carità, perchè, come insegna S. Tommaso, l'amore produce prima di tutto l'unione delle volontà: "In hoc caritas Dei perfecta est quia amicitia facit idem velle ac nolle" 1070-2. E non è questo l'insegnamento di S. Giovanni? Dopo aver dichiarato che chi pretende d'amar Dio senza osservarne i comandamenti, è un mentitore, aggiunge: "Ma chi osserva la sua parola, in lui l'amor di Dio è veramente perfetto e da ciò sappiamo che siamo in lui, qui autem servat verba ejus, vere in hoc caritas Dei perfecta est, et in hoc scimus quoniam in ipso sumus" 1070-3. E non è pur questo l'insegnamento del divino Maestro, quando dice che nell'osservanza dei suoi comandamenti sta l'amore per lui? Si diligitis me, mandata mea servate" 1070-4. La vera ubbidienza è dunque in fondo un ottimo atto di carità.
1071. b) L'obbedienza ci fa pur praticare le altre virtù in quanto che sono tutte comandate o almeno consigliate: "ad obedientiam pertinent omnes actus virtutum, prout sunt in præcepto" 1071-1.
Ci fa praticar la mortificazione e la penitenza, così spesso prescritte nel Vangelo, la giustizia, la religione, la carità e tutte le virtù contenute nel Decalogo. Ci fa perfino somigliare ai martiri che sacrificano la vita per Dio; come infatti spiega S. Ignazio, 1071-2 "per lei la propria volontà e il proprio giudizio sono continuamente immolati e stesi come vittime sull'altare, cosicchè nell'uomo, al posto del libero arbitrio, non vi è più che la volontà di Gesù Cristo N. S. intimataci da colui che comanda; e non è solo il desiderio di vivere, come avviene nel martire, che è immolato con l'obbedienza, ma tutti insieme i desideri. Tanto pure diceva S. Pacomio a un giovane religioso che desiderava il martirio: "Muore abbastanza martire chi ben si mortifica; è maggior martirio perseverare tutta la vita nell'ubbidienza che morire tutt'a un tratto di spada" 1071-3.
1072. c) L'ubbidienza ci dà così sicurezza perfetta: lasciati a noi stessi, ci chiederemmo che cosa sia più perfetta; l'ubbidienza, segnandoci il dovere di ogni istante, ci mostra la via più sicura per santificarci; facendo ciò che prescrive, adempiamo più pienamente possibile la condizione essenziale richiesta dalla perfezione, cioè l'adempimento della santa volontà di Dio: "quæ placita sunt ei facio semper".
Quindi un sentimento di pace profonda ed inalterabile: "pax multa diligentibus legem tuam, Domine"; chi non vuol altro che la volontà di Dio espressa dai superiori, non si dà pensiero nè di ciò che occorra fare nè dei mezzi da adoperare: non ha che da ricevere gli ordini di colui che tiene il posto di Dio ed eseguirli meglio che può: al resto pensa la Provvidenza. Non ci si chiede la buona riuscita ma semplicemente lo sforzo per compiere gli ordini dati. Si può per altro star sicuri sul risultato finale: è chiaro che se noi facciamo la volontà di Dio, egli penserà a fare la nostra, cioè ad esaudire le nostre richieste e assecondare i nostri disegni. Pace quindi in questa vita; e, giunti al termine, l'obbedienza ci apre pure la porta del paradiso: perduto per la disubbidienza dei nostri progenitori, riconquistato con l'ubbidienza di Gesù Cristo, il paradiso è riserbato a coloro che si lasciano guidare dai rappresentanti di questo Salvatore divino. Niente inferno pei veri obbedienti: "Quid enim odit aut punit Deus præter propriam voluntatem? Cesset voluntas propria, et infernus non erit" 1072-1.
1073. 3° In fine l'ubbidienza trasforma in virtù ed in meriti le più comuni occupazioni della vita, i pasti, le ricreazioni, il lavoro; tutto ciò che è fatto in spirito d'ubbidienza partecipa al merito di questa virtù, piace a Dio e sarà da lui ricompensato. Invece tutto ciò che è fatto in opposizione alla volontà dei Superiori, fosse pure in sè ottima cosa, non è in fondo che un'atto di disubbidienza. Ecco perchè si paragona spesso l'ubbidiente a un viaggiatore salito su una nave guidata da abile nocchiero; ogni giorno, anche quando riposa, egli avanza verso il porto, giungendo così, senza fatica e senza pensieri, alla bramata meta, al porto della beata eternità.
ART. III. LA VIRTÙ DELLA FORTEZZA 1075-1.
1075. La giustizia, integrata dalla religione e dall'ubbidienza, regola le nostre relazioni col prossimo; la fortezza e la temperanza regolano le relazioni con noi stessi. Tratteremo qui della fortezza, descrivendone:
§ I. Natura della virtù della fortezza.
Ne esporremo:
1076. Questa virtù, che vien detta fortezza d'animo, forza di carattere, o cristiana virilità, è una virtù morale soprannaturale che rinsalda l'anima nel perseguire un bene difficile, senza lasciarsi scuotere dalla paura, neppure dal timor della morte.
A) Il suo oggetto sta nel reprimere le impressioni del timore che tende a intorpidire gli sforzi per il bene, e nel moderare l'audacia che, senza di lei, diverrebbe facilmente temerità: "Et ideo fortitudo est circa timores et audacias, quasi cohibitiva timorum et audaciarum moderativa" 1076-1.
1077. B) I suoi atti si riducono a due principali: intraprendere e sopportar cose difficili: ardua aggredi et sustinere.
a) La fortezza consiste prima di tutto nell'intraprendere e nell'eseguire cose difficili: vi sono in fatti sul cammino della virtù e della perfezione molti ostacoli, difficili a vincersi, sempre rinascenti. Non bisogna averne paura, anzi affrontarli e fare animosamente lo sforzo necessario per superarli: è il primo atto della virtù della fortezza.
Quest'atto suppone: 1) risolutezza, per accingersi prontamente a fare il proprio dovere ad ogni costo; 2) coraggio, per fare sforzi proporzionati alle difficoltà, generosità via via crescente con queste, viriliter agendo; 3) costanza, per continuare lo sforzo sino alla fine, nonostante la persistenza e i contrattacchi del nemico.
È spesso cosa anche più difficile dell'operare: "sustinere difficilius est quam aggredi," dice S. Tommaso 1077-1; e ne dà tre ragioni.
1) Il tener duro suppone che uno sia assalito da nemico superiore, invece chi assale si sente superiore all'avversario; 2) chi sostiene l'urto è già alle prese con le difficoltà e ne soffre, chi assale invece non fa che prevederle; ora un male presente è più temibile di quello che solo si prevede; 3) la resistenza suppone che uno rimanga fermo e duro sotto l'urto, per un tempo notevole, per esempio quando si è inchiodati a letto da lunga malattia, o quando si provano violente o lunghe tentazioni; chi invece intraprende una cosa difficile fa uno sforzo momentaneo, che generalmente non dura poi così a lungo.
II. Gradi della virtù della fortezza.
1078. 1° Gl'incipienti lottano animosamente contro le varie paure che si oppongono all'adempimento del dovere:
1) La paura delle fatiche e dei pericoli, pensando che l'uomo ha beni più preziosi della fortuna, della salute, della riputazione e della stessa vita: i beni della grazia, preludio della felicità eterna; onde conchiudono che bisogna generosamente sacrificare i primi per conquistare i beni imperituri. Si persuadono che il solo vero male è il peccato; male quindi che dev'essere schivato ad ogni costo, anche a rischio di tollerar tutti i mali temporali che potessero rovesciarcisi addosso.
1079. 2) La paura delle critiche o degli scherni, ossia il rispetto umano, che ci porta a trascurare il nostro dovere per timore dei giudizi sfavorevoli che si faranno contro di noi, delle canzonature che si dovranno subire, delle minaccie che ci scaglieranno addosso, delle ingiurie ed ingiustizie di cui saremo vittime. Quanti uomini, intrepidi sul campo di battaglia, indietreggiano dinanzi a queste critiche o a queste minaccie! E quanto importa educar la gioventù al disprezzo del rispetto umano, a quel maschio coraggio che sa infischiarsi della pubblica opinione e seguir le proprie convinzioni senza macchia e senza paura!
3) La paura di dispiacere agli amici, che è talora più terribile di quella d'incorrere la vendetta dei nemici. Eppure bisogna ricordarsi che è meglio piacere a Dio che agli uomini, che chi ci impedisce di fare intieramente il nostro dovere è un falso amico e, a voler piacere a lui, si perderebbe la stima e l'amicizia di Nostro Signore Gesù Cristo: "Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem". 1079-1 A più forte ragione non bisogna sacrificare il dovere al desiderio di vana popolarità: gli applausi degli uomini passano; sola durevole, sola veramente degna di noi è l'approvazione di Dio, giudice infallibile. Concludiamo quindi con S. Paolo che l'unica gloria da cercare è quella che viene dalla fedeltà a Dio e al dovere: "Qui autem gloriatur, in Domino glorietur. Non enim qui seipsum commendat, ille probatus est, sed quem Deus commendat" 1079-2.
1080. 2° Le anime progredite nella virtù praticano il lato positivo della fortezza, sforzandosi d'imitar la forza d'animo onde Gesù ci diede esempio nel corso di sua vita.
1) Questa virtù appare nella vita nascosta: fin dal primo istante Nostro Signore si offre al Padre per sostituire tutte le vittime dell'Antica Legge immolando se stesso per gli uomini. Ben sa che la sua vita sarà così un martirio; ma questo martirio egli liberamente vuole. Abbraccia quindi con ardore fin dalla nascita la povertà, la mortificazione e l'obbedienza, si assoggetta alla persecuzione e all'esilio, si chiude per trent'anni in un'intiera oscurità, onde meritarci la grazia di santificare le azioni più ordinarie e ispirarci l'amore dell'umiltà; insegnandoci così a praticar la fortezza e il coraggio nelle mille piccole circostanze della vita comune.
2) Questa virtù appare nella vita pubblica: nel lungo digiuno che Gesù s'impone prima di iniziare il suo ministero, nella vittoriosa lotta che sostiene contro il demonio; nella predicazione, ove, affrontando i pregiudizi ebraici, annunzia un regno tutto spirituale, fondato sull'umiltà, sul sacrificio, sull'abnegazione e insieme sull'amor di Dio; nel vigore con cui sferza gli scandali e condanna le casuistiche interpretazioni dei Dottori della legge; nella premura onde fugge una popolarità di cattiva lega e rigetta la dignità regale che gli si vuole offrire; nel modo dolce insieme e forte con cui forma gli apostoli, ne raddrizza i pregiudizi, ne corregge i difetti e dà lezione a colui che scelse come capo del collegio apostolico; in quello spirito di risolutezza onde sale l'ultima volta a Gerusalemme, ben sapendo di andare incontro ai patimenti, all'umiliazione e alla morte. Così ci dà esempio di quel coraggio calmo e costante che dobbiamo praticare in tutte le relazioni col prossimo.
3) Questa virtù appare nella vita paziente: in quella dolorosa agonia in cui, non ostante l'aridità e la noia, non cessa di pregare a lungo "factus in agonia prolixius orabat"; nella perfetta serenità che mostra al momento dell'ingiusta sua cattura, nel silenzio che serba in mezzo alle calunnie e di fronte alla curiosità di Erode; nel dignitoso contegno davanti ai giudici; nella eroica pazienza di cui dà prova fra i non meritati tormenti che gli infliggono, fra gli scherni onde lo abbeverano; e soprattutto in quella calma rassegnazione con cui, prima di spirare, s'abbandona nelle mani del Padre. Ci insegna così la pazienza fra le più dure prove.
1081. 3° Le anime perfette coltivano non solo la virtù ma anche il dono della fortezza, come spiegheremo parlando della via unitiva. Alimentano in sè quella generosa disposizione d'immolarsi per Dio e di subire quel martirio a fuoco lento che consiste nello sforzo continuamente rinnovato di far tutto per Dio e di tutto soffrire per la sua gloria.
§ II. Le virtù alleate della fortezza.
1082. Alla virtù della fortezza si connettono quattro virtù: due che ci aiutano a far le cose difficili, cioè la magnanimità e la magnificenza; e due che ci aiutano a ben soffrire, la pazienza e la costanza. Come S. Tommaso insegna, sono insieme parti integranti e parti annesse della virtù della fortezza.
1083. 1° Natura. La magnanimità, che si dice pure grandezza d'animo o nobiltà di carattere, è una nobile e generosa disposizione a intraprendere grandi cose per Dio e per il prossimo. Differisce dall'ambizione, che è essenzialmente egoista e cerca d'inalzarsi sopra gli altri con l'autorità e con gli onori; carattere distintivo della magnanimità è invece il disinteresse: è virtù che vuole prestar servizio ad altrui.
a) Suppone quindi un'anima nobile, nutrita di alto ideale e di generose idee; un'anima coraggiosa che sa mettere la vita in armonia con le convinzioni.
b) Si manifesta non solo coi nobili sentimenti ma soprattutto con le nobili azioni in tutti gli ordini: nell'ordine militare, con azioni illustri; nell'ordine civile, con grandi riforme o grandi imprese industriali, commerciali e simili; nell'ordine soprannaturale, con un alto ideale di perfezione tenuto costantemente di mira, con sforzi generosi per vincersi e superarsi, per acquistar sode virtù e praticar l'apostolato sotto tutte le forme, fondare e dirigere opere di beneficenza, lavorare nel campo dell'azione cattolica; sempre senza badare al danaro, alla salute, alla fama e neppure alla vita.
1084. 2° Il difetto opposto è la pusillanimità, che, per eccessivo timore di cattiva riuscita, nicchia e rimane inoperosa. Per scansar passi falsi, si commette veramente la più grande delle minchionerie, cioè non si fa nulla o quasi nulla e così si spreca la vita. O non è meglio esporsi a qualche sbaglio anzichè restare in perpetua inerzia?
II. La munificenza o magnificenza.
1085. 1° Natura. Quando si ha anima nobile e gran cuore, si pratica la magnificenza o munificenza, che ci porta a fare opere grandi e quindi pure grandi spese richieste da tali opere.
a) L'orgoglio e l'ambizione ispirano talora coteste opere e allora non è virtù. Ma quando si ha di mira la gloria di Dio o il bene del prossimo, si rende soprannaturale il natural desiderio delle grandezze, e in cambio di capitalizzar sempre i propri redditi, si spende nobilmente il denaro in grandi e nobili imprese: opere d'arte, monumenti pubblici, costruzioni di chiese, di ospedali, di scuole, di Università, di tutto ciò insomma che giova al pubblico bene; ed è allora virtù, che ci fa trionfare dell'attacco naturale al denaro e del desiderio d'aumentare le rendite.
1086. b) Ottima virtù, che bisogna raccomandare ai ricchi, mostrando che il miglior uso delle ricchezze loro affidate dalla Provvidenza sta nell'imitare la liberalità e la magnificenza di Dio nelle sue opere. Quante istituzioni cattoliche oggi languiscono per mancanza di danaro! Non sarebbe questo un nobile impiego degli accumulati tesori e il mezzo migliore di fabbricarsi una ricca dimora nel cielo? E quante altre istituzioni non occorrerebbero! Ogni generazione porta sempre la sua parte di bisogni nuovi: qui chiese e scuole da costruire, là ministri del culto da mantenere; talora miserie pubbliche da alleviare; altre volte opere nuove da fondare, patronati, sindacati, casse di previdenza e di pensioni, ecc. È un vasto campo aperto a tutte le attività e a tutte le borse.
c) Non occorre neppure essere ricchi per praticar questa virtù. S. Vincenzo de' Paoli non era ricco, eppure vi è uomo che abbia praticato più largamente e più saviamente di lui una magnificenza veramente regale verso tutte le miserie del suo secolo? che abbia fondato opere che sortirono così durevole fortuna? Quando si ha un'anima nobile, i denari si trovano nella pubblica carità; e si direbbe che la Provvidenza si metta al servizio di questi grandi slanci di carità, quando uno sa confidare in lei osservando le leggi della prudenza o assecondando le ispirazioni dello Spirito Santo.
1087. 2° I difetti opposti sono la spilorceria e lo scialacquo.
a) La spilorceria o grettezza comprime gli slanci del cuore, non sa proporzionare le spese all'importanza dell'opera da intraprendere e non fa che cose piccole e meschine. b) Lo scialacquo invece spinge a fare spese eccessive, a prodigare il denaro senza misura, senza proporzione con l'opera intrapresa, oltrepassando talora anche le proprie facoltà. Questo vizio è pur detto prodigalità.
Spetta alla prudenza tener la via di mezzo tra questi due eccessi.
III. La pazienza. 1088-1
1088. 1° Natura. La pazienza è una virtù cristiana che ci fa sopportare con animo tranquillo, per amor di Dio e in unione con Gesù Cristo, i patimenti fisici o morali. Soffriamo tutti abbastanza da farci santi se sapessimo soffrire da forti e per motivi soprannaturali; molti invece soffrono lagnandosi, bestemmiando, e talora anche maledicendo la Provvidenza; altri soffrono per orgoglio o cupidigia, onde perdono il frutto della loro pazienza. Il vero motivo che ci deve ispirare è la sottomissione alla volontà di Dio, n. 487, e per indurvici, la speranza della ricompensa eterna che coronerà la nostra pazienza, n. 491. Ma lo stimolo più efficace è la meditazione di Gesù che patisce e muore per noi. Se Gesù, che era la stessa innocenza, sopportò così eroicamente tante torture fisiche e morali, per amor nostro, per riscattarci e santificarci, non è forse giusto che noi, che siamo colpevoli e che fummo coi peccati nostri causa dei patimenti suoi, consentiamo a patire con lui e cogli stessi suoi intendimenti, con lui collaborando all'opera della nostra purificazione e della nostra santificazione, onde parteciparne poi la gloria dopo averne partecipato i patimenti? Le anima nobili e generose vi aggiungono un motivo di apostolato: patiscono per dar compimento alla passione del Salvatore Gesù, lavorando così alla redenzione delle anime (n. 149). Qui sta il secreto [sic] della pazienza eroica dei santi e dell'amor loro per la croce.
1089. 2° I gradi della pazienza corrispondono ai tre stati della vita spirituale.
a) A principio, si accetta il dolore come proveniente da Dio, senza mormorazioni o rivolte, sorretti dalla speranza dei beni celesti; si accetta per riparare le colpe e purificare il cuore, per padroneggiar le cattive tendenze, specialmente la tristezza e lo scoraggiamento; si accetta nonostante le ripugnanze della sensibilità, e se si chiede che il calice si allontani, si aggiunge però che si vuole, a qualunque costo, sottomettersi alla divina volontà.
1090. b) Nel secondo grado, si abbracciano i patimenti con ardore e risolutezza, in unione con Gesù Cristo, onde meglio conformarsi a questo Capo divino. Si gode quindi di poter battere con lui la via dolorosa da lui battuta dal presepio al Calvario; si ammira, si loda, si ama in tutti i dolorosi stati per cui passò: nella miseria a cui si condannò entrando nel mondo; nella rassegnazione dell'umile mangiatoia che gli serve di culla, ove soffre ancor più della ingratitudine degli uomini che del freddo della stagione; nei patimenti dell'esiglio; [sic] negli oscuri lavori della vita nascosta; nei travagli, nelle fatiche, nelle umiliazioni della vita pubblica; ma soprattutto nei patimenti fisici e morali della lunga e dolorosa sua passione. Armato di questo pensiero, "Christo igitur passo in carne, et vos eâdem cogitatione armamini" 1090-1, uno si sente più coraggioso di fronte al dolore o alla tristezza; si stende amorosamente sulla croce accanto a Gesù e per suo amore: "Christo confixus sum cruci"; 1090-2 quando i dolori si fanno più vivi, posa compassionevole e amoroso lo sguardo su lui e ode dal suo labbro: "Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam"; la speranza di parteciparne la gloria in paradiso rende più sopportabile la crocifissione con lui: "Si tamen compatimur ut et conglorificemur" 1090-3. Si giunge persino, come S. Paolo, a rallegrarsi delle miserie e delle tribolazioni, persuasi che il soffrire con Cristo è consolarlo e compierne la passione, è amarlo più perfettamente sulla terra e prepararsi a goderne maggiormente l'amore nell'eternità: "Libenter gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi 1090-4... superabundo gaudio in omni tribulatione nostrâ" 1090-5.
1091. c) Il che conduce al terzo grado, il desiderio e l'amor del soffrire, per Dio che si vuole così glorificare, e per le anime alla cui santificazione si vuol lavorare. Cosa che conviene ai perfetti, e specialmente alle anime apostiloche, ai religiosi, ai sacerdoti e alle anime elette. Tale disposizione aveva Nostro Signore nell'offrirsi al Padre come vittima fin dal primo ingresso nel mondo, e la esprimeva proclamando il desiderio d'essere battezzato col doloroso battesimo della sua passione: "Baptismo habeo baptizari et quomodo coarctor usquedum perficiatur? 1091-1"
Per amor suo e per meglio somigliarlo, le anime perfette abbracciano gli stessi sentimenti: "perchè, dice S. Ignazio 1091-2, come i mondani, che sono attaccati alle cose della terra, amano e cercano con grande premura gli onori, la riputazione e la pompa tra gli uomini... così quelli che si avanzano nella via dello spirito e che seriamente seguono Gesù Cristo, amano e desiderano con ardore tutto ciò che è contrario allo spirito del mondo... cossichè, [sic] se la cosa potesse farsi senza offesa di Dio e senza scandalo del prossimo, vorrebbero soffrire affronti, calunnie, ingiurie, essere considerati e trattati da stupidi, senza però averci dato motivo, tanto vivo è il desiderio di rendersi in qualche modo simili a Nostro Signor Gesù Cristo... onde, con l'aiuto della grazia, ci studiamo d'imitarlo quanto ci sarà possibile e di seguirlo in ogni cosa, essendo egli la vera via che conduce gli uomini alla vita". È chiaro che il solo amor di Dio e del divin Crocifisso può fare amare in questa guisa le croci e le umiliazioni.
1092. Si deve andar anche più oltre e offrirsi a Dio come vittima, positivamente chiedendogli patimenti eccezionali, sia per ripararne la gloria, sia per ottenere qualche insigne favore? Vi furono santi che lo fecero, e oggi ancora vi sono anime generose che vi si sentono ispirate. In generale però non si possono prudentemente consigliare tali domande, prestandosi facilmente all'illusione ed essendo spesso ispirate da generosità irriflessiva che nasce da presunzione. "Si fanno, dice il P. De Smedt 1092-1, in momenti di fervore sensibile, e passato che sia quel fervore... uno si sente troppo debole per eseguire gli eroici atti di sottomissione e di accettazione fatti con tanta energia nell'immaginazione. Onde fierissime tentazioni di scoraggiamento o anche mormorazioni contro la divina Provvidenza... e fonte poi di molte noie e fastidi per i direttori di coteste anime". Non bisogna quindi domandare da sè patimenti o prove speciali; chi vi si senta ispirato, consulterà un savio direttore e nulla farà senza la sua approvazione.
1093. La costanza nello sforzo consiste in lottare e soffrire sino alla fine, senza cedere alla stanchezza, allo scoraggiamento o alla sensualità.
1° L'esperienza infatti insegna che, dopo sforzi reiterati, uno si stanca di fare il bene, e si annoia di star sempre con la volontà tesa; l'osservazione è di S. Tommaso: Diu insistere alicui difficili specialem difficultatem habet" 1093-1. Eppure la virtù non è soda finchè non ha la sanzione del tempo, finchè non è rinsaldata da abitudini profondamente radicate.
Questo sentimento di stanchezza produce spesso lo scoraggiamento e la sensualità: la noia che si prova in rinnovare gli sforzi, allenta le energie della volontà e produce un certo abbattimento morale o scoraggiamento; allora l'amor del godere e il dispiacere d'esserne privi ripigliano il sopravvento, e uno s'abbandona alla corrente delle cattive inclinazioni.
1094. 2° Per reagire contro questa fiacchezza: 1) bisogna anzitutto ricordarsi che la perseveranza è dono di Dio, n. 127, che si ottiene con la preghiera; dobbiamo quindi chiederla con insistenza, unendoci a Colui che fu costante sino alla morte, e per intercessione di colei che giustamente appelliamo la Vergine fedele.
2) Bisogna poi rinnovare il pensiero della brevità della vita e della durata infinita della ricompensa che coronerà i nostri sforzi: avendo tutta l'eternità per riposarci, si può ben fare qualche sforzo e tollerare qualche noia sulla terra. Se, cio non ostante, ci sentiamo fiacchi e vacillanti, è il caso di istantemente [sic] chiedere la grazi della costanza, di cui sentiamo sì vivo bisogno, ripetendo la preghiera di Agostino: "Da, Domine, quod jubes, et jube quod vis".
3) Infine bisogna rifarsi coraggiosamente all'opera con novello ardore, appoggiati all'onnipotente grazia di Dio, anche contro l'apparente poco buon esito dei nostri tentativi, ricordandoci che Dio non chiede la riuscita ma lo sforzo. Non dimentichiamo peraltro che abbiamo talora bisogno di un certo sollievo, di riposo e di svago: homo non potest diu vivere sine aliqua consolatione. Onde la costanza non esclude il legittimo riposo: otiare quo melius labores; tutto sta a prenderlo conforme alla volontà di Dio, secondo le prescrizioni della regola o d'un savio direttore.
§ III. Mezzi di acquistare o di perfezionare la virtù della fortezza.
Rimandiamo prima di tutto il lettore a quanto dicemmo sull'educazione della volontà, n. 811, aggiungendo alcune osservazioni che si riferiscono più specialmente al nostro argomento.
1095. 1° Il segreto della nostra fortezza sta nella diffidenza di noi e nella assoluta confidenza in Dio. Incapaci di fare nulla di bene nell'ordine soprannaturale senza l'aiuto della grazia, diventiamo partecipi della forza stessa di Dio e riusciamo invincibili se procuriamo di appoggiarci su Gesù: "qui manet in me et ego in eo, hic fert fructum multum 1095-1... Omnia possum in eo qui me confortat" 1095-2. Ecco perchè riescono forti gli umili, quando alla coscienza della propria debolezza associano la confidenza in Dio. Questi due sentimenti bisogna quindi coltivar nelle anime. Se si tratta di anime orgogliose e presuntuose, si insisterà sulla diffidenza di sè; se si ha da fare con persone timide e pessimiste, si insisterà sulla confidenza in Dio, spiegando quelle consolanti parole di S. Paolo: "Infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia,... et ea qua non sunt, ut ea quæ sunt destrueret: i deboli agli occhi del mondo Dio sceglie per confondere i forti... ciò che non è per annientare ciò che è" 1095-3.
1096. 2° A questa doppia disposizione bisogna aggiungere profonde convinzioni e abitudine di operare secondo queste convinzioni.
A) Convinzioni fondate sulle grandi verità, in particolare sul fine dell'uomo e del cristiano, sulla necessità di sacrificar tutto per conseguir questo fine; sull'orrore che deve ispirarci il peccato, solo ostacolo al nostro fine; sulla necessità di sottomettere la volontà nostra a quella di Dio onde schivare il peccato e conseguire il fine, ecc. Sono coteste convinzioni che formano i principii direttivi della nostra condotta, e i motori che ci danno lo slancio necessario a trionfar degli ostacoli.
B) Ecco perchè importa molto abituarsi ad operare secondo queste convinzioni; si baderà quindi a non lasciarsi trascinare dall'ispirazione del momento, da subitaneo impulso della passione, dall'abitudine o dal proprio interesse; ma prima di operare uno si chiederà: quid hoc ad æternitatem? L'azione che io sto per fare m'avvicina a Dio e all'eternità beata? Se sì, la farò; se no, me ne asterrò. Così, riconducendo tutto al fine ultimo, si vive secondo le proprie convinzioni e si è forti.
1097. 3° A meglio superar le difficoltà, è bene prevederle, guardarle in faccia e armarsi di coraggio contro di loro; ma senza esagerarle e facendo assegnamento sull'aiuto che Dio non mancherà di darci a tempo opportuno. La difficoltà prevista è mezzo vinta.
1098. 4° Infine non si dimenticherà che nulla ci rende intrepidi quanto l'amor di Dio: "fortis est ut mors dilectio" 1098-1. Se l'amore rende animosa e forte una madre quando si tratta di difendere i figli, che cosa non farà l'amor di Dio quando è profondamente radicato nell'anima? Non è l'amore che fece i martiri, le vergini, i missionari, i santi? Quando Paolo narra per quali prove passò, quali persecuzioni, quali patimenti sostenne, uno pensa che cosa mai ne reggesse il coraggio in mezzo a tante avversità. Ce lo dice egli stesso: l'amor di Cristo: Caritas enim Christi urget nos. 1098-2 Ecco perchè è senza inquietudine per l'avvenire; chi potrà infatti separarlo dall'amore di Cristo? "quis nos separabit a caritate Christi?" Enumera le varie tribolazioni che può prevedere, aggiungendo che: "nè la morte, nè la vita, nè gli angeli... nè le cose presenti, nè le cose future, nè le potenze... nè creatura alcuna potrà separarci dall'amore di Dio in Gesù Cristo Nostro Signore" 1098-3. Ciò che diceva S. Paolo può essere ripetuto da ogni cristiano a patto che ami sinceramente Dio; parteciperà allora alla forza stessa di Dio": quia tu es, Deus, fortitudo mea" 1098-4.
ART. IV. LA VIRTÙ DELLA TEMPERANZA 1099-1.
Se la fortezza è necessaria a reprimere il timore, non meno necessaria è la temperanza a moderare quell'inclinazione al piacere che così facilmente ci allontana da Dio.
1099. La temperanza è una virtù morale soprannaturale che modera l'inclinazione al piacere sensibile, massime ai diletti del gusto e del tatto, contenendolo nei limiti dell'onestà.
Il suo oggetto è di moderare ogni diletto sensibile, ma specialmente quello che accompagna le due grandi funzioni della vita organica: il mangiare e il bere che conservano la vita dell'indiviuo; e gli atti che hanno per fine la conservazione della specie. La temperanza ci fa usar del piacere per un fine onesto e soprannaturale, moderandone quindi l'uso secondo le prescrizioni della ragione e della fede. E poichè il piacere è seducente e ci trascina facilmente oltre i giusti limiti, la temperanza c'induce a mortificarci anche in certe cose lecite, onde assicurar l'impero della ragione sulla passione.
Tali sono i principii con cui risolveremo le questioni particolari.
Avendo già sufficientemente parlato delle regole da seguire per moderare il piacere annesso alla nutrione (n. 864), tratteremo qui solo della castità che regola il diletto unito alla propagazione della specie. Parleremo appresso di due virtù alleate della temperanza, l'umiltà e la dolcezza.
§ I. Della Castità. 1100-1
1100. 1° Nozione. La castità ha per fine di reprimere tutto ciò che vi è di disordinato nei diletti della voluttà. Ora questi diletti non hanno che un solo fine, di propagar la specie umana trasmettendo la vita con l'uso legittimo del matrimonio. Fuori di questo, ogni voluttà è strettamente proibita.
La castità è meritamente detta virtù angelica perchè ci avvicina agli angeli che sono puri per natura. È virtù austera, perchè non si giunge a praticarla se non disciplinando e domando il corpo e i sensi con la mortificazione. È virtù delicata, perchè ogni minima debolezza volontaria l'appanna; e quindi pure difficile, perchè non si può conservare se non lottando generosamente e costantemente contro la più tirannica delle passioni.
1101. 2° Gradi. 1) Ha molti gradi: il primo consiste nel badare attentamente di non acconsentire a pensiero, immaginazione, sensazione od azione contrari a questa virtù.
2) Il secondo mira ad allontanare immediatamente ed energicamente ogni pensiero, immagine, o impressione, che potesse offuscare lo splendore di questa virtù.
3) Il terzo, che generalmente non si acquista se non dopo lunghi sforzi nella pratica dell'amor di Dio, consiste nell'essere talmente padroni dei sensi e dei pensieri che, quando si è obbligati a trattar questioni riguardanti la castità, si fa con tanta calma e tranquillità come se si trattasse di qualsiasi altro argomento.
4) Vi sono infine di quelli che, per un privilegio speciale, giungono a non aver più alcun moto disordinato, come si narra di S. Tommaso dopo la vittoria da lui riportata in una pericolosa circostanza.
1102. 3° Specie. Vi sono due specie di castità: la castità coniugale che conviene alle persone legittimamente coniugate, e la continenza che conviene a quelle che non lo sono. Dopo aver brevemente trattato della prima, ci fermeremo sulla seconda, specialmente in quanto conviene alle persone vincolate dal celibato religioso od ecclesiastico.
1103. 1° Principio. Gli sposi cristiani non devono mai dimenticare che, secondo la dottrina di S. Paolo, il matrimonio cristiano è simbolo dell'unione santa che corre tra Cristo e la Chiesa: "Voi, o uomini, amate le spose, come anche Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, a fine di santificarla" 1103-1. Devono quindi amarsi, rispettarsi, santificarsi a vicenda. Il primo effetto di quest'amore è l'indissolubile unione dei cuori e quindi l'inviolabile fedeltà dell'uno verso l'altro.
1104. 2° Mutua fedeltà. a) Toglieremo qui ad imprestito le parole di S. Francesco di Sales o ne compendieremo il pensiero 1104-1.
"Serbate dunque, o mariti, un tenero, costante e cordiale amore verso le vostre donne... Se volete che le vostre donne vi siano fedeli, insegnateglielo voi col vostro esempio. Con qual fronte, dice S. Gregorio Nazianzeno 1104-2, potete esigere pudicizia dalle vostre spose, se voi vivete nell'impudicizia?" -- "Ma voi, o donne, il cui onore è inseparabilmente unito con la pudicizia e l'onestà, serbate gelosamente la vostra gloria e non permettete che alcuna specie di dissolutezza offuschi il candore della vostra riputazione. Paventate ogni specie di assalti per piccoli che siano, non tollerate corteggiatori attorno a voi. Chiunque venga a lodare la vostra bellezza o la vostra grazia, vi dev'essere sospetto... che se alla vostra lode qualcuno aggiunge il disprezzo di vostro marito, grandemente vi offende, essendo chiaro che non solo vi vuol rovinare, ma che vi stima già mezzo perduta, perchè si è già a mezza via col secondo mercante quando si è disgustati del primo".
"Quindi le donne devono disederare che i mariti siano confettati collo zucchero della devozione, perchè l'uomo senza devozione è un animale severo, aspro e rozzo; e i mariti devono desiderare che le donne siano devote, perchè senza la devozione la donna è grandemente fragile e soggetta a rovinare o ad offuscarsi nella virtù.
c) "Del resto, la mutua sopportazione dell'uno per l'altro dev'essere così grande che tutt'e due non si corruccino mai insieme e all'improvviso, affinchè non si veda in loro dissensione e contesa". Se quindi uno dei due è in collera, l'altro resti calmo, affinchè torni al più presto la pace.
1105. 3° Dovere coniugale. Gli sposi rispetteranno la santità del letto coniugale con la purità dell'intenzione e l'onestà delle relazioni.
A) L'intenzione sarà quella del giovane Tobia quando sposò Sara: "Voi sapete, o Signore, che non già per soddisfare la passione io prendo in isposa questa mia cugina, ma per il solo desiderio di lasciar figli che benedicano il vostro nome in tutti i secoli" 1105-1. Tal è infatti il fine primordiale del matrimonio cristiano: aver figli che vengano educati nel timore e nell'amore del Signore, che siano formati alla pietà e alla vita cristiana, onde riescano un giorno cittadini del cielo. Il fine secondario è di aiutarsi scambievolmente a sopportare le pene della vita e trionfar delle passioni subordinando il piacere al dovere.
1106. B) Si compirà quindi fedelmente e francamente il dovere coniugale 1106-1; tutto ciò che giova alla trasmissione della vita non solo è lecito ma onorevole; ma ogni azione che ponesse volontario ostacolo a questo fine primordiale, sarebbe colpa grave, perchè andrebbe contro il fine primario del matrimonio. -- Si terrà conto di questa raccomandazione di S. Paolo: "Non vi rifiutate l'un con l'altro, se non forse di comune accordo per un po' di tempo, affine di attendere all'orazione; e di nuovo tornate a stare insieme; chè non abbia a tentarvi Satana per la vostra incontinenza" 1106-2.
C) Nell'adempimento di questo dovere ci vuole moderazione come nell'uso del nutrimento; vi sono anche casi in cui l'igiene e la decenza richiedono che si pratichi per un dato tempo la continenza. Non ci si riesce se non quando si è presa l'abitudine di subordinare il piacere al dovere e di cercare nel frequente uso dei sacramenti rimedio ai violenti desiderii della consupiscenza. Si ricordi che nulla è impossibile e che con la preghiera si ottiene sempre la grazia di praticare le virtù anche più austere.
II. Della continenza o del celibato.
1107. La continenza assoluta è un dovere per tutte le persone che non sono unite dai vincoli di legittimo matrimonio. Onde dev'essere praticata da tutti prima del matrimonio come pure da coloro che si trovano nel santo stato di vedovanza 1107-1. Ma vi sono inoltre anime elette chiamate a praticar la continenza per tutta al vita, o nello stato religioso o nel sacerdozio o anche nel mondo. È bene fissare a queste persone regole speciali per la conservazione della perfetta purità.
La castità è virtù fragile e delicata che non può conservarsi se non è protetta da altre virtù; è una cittadella che per la sua difesa ha bisogno di forti avanzati. Questi forti sono quattro:
1108. Questa virtù genera tre principali disposizioni che ci francano da molti pericoli: la diffidenza di sè e la confidenza in Dio; la fuga delle occasioni pericolose; la sincerità in confessione.
A) La diffidenza di sè accompagnata dalla confidenza in Dio. Molte anime infatti cadono nell'impurità per la loro superbia e presunzione. Lo nota S. Paolo parlando dei filosofi pagani, i quali, gloriandosi della loro sapienza, scivolarono in ogni sorta di turpitudini: "Propterea tradidit illos Deus in passiones ignominiae" 1108-1.
La qual cosa viene così spiegata dall'Olier: "Dio che non può soffrire la superbia in un'anima, la umilia fino in fondo; e sollecito di farle conoscere la sua debolezza e mostrarle che non ha potere alcuno da sè per resistere al male e mantenersi nel bene... permette che sia travagliata da quelle orribili tentazioni e che talora vi soccomba sino in fondo, essendo esse le più vergognose di tutte, e lasciando maggior confusione. Quando invece si è persuasi di non poter essere casti da sè, si ripete a Dio quell'umile preghiera di S. Filippo Neri: "O mio Dio, non vi fidate di Filippo, che altrimenti vi tradirà".
1109. a) Cotesta diffidenza dev'essere universale. 1) È necessaria a coloro che già commisero colpe gravi, perchè la tentazione tornerà e, senza la grazia, sarebbero esposti a ricadere; e non meno necessaria è a coloro che serbarono l'innocenza, perchè un giorno o l'altro la crisi verrà, tanto più formidabile in quanto che essi non hanno ancora esperienza della lotta. 2) Deve perseverare sino alla fine della vita: Salomone non era più giovane quando si lasciò vincere dall'amore delle donne; vecchioni erano i due che tentarono la casta Susanna; il demonio che ci assale nell'età matura è tanto più terribile perchè si credeva di averlo vinto; e l'esperienza insegna che, fino a tanto che ci resta un pochino di calore vitale, il fuoco della concupiscenza, che cova sotto la cenere, si riaccende talora con novello ardore. 3) È necessaria anche alle anime più sante: il demonio ha più brama di far cader loro che non le anime volgari, e tende quindi più perfide insidie. Lo notò S. Girolamo 1109-1, concludendone che non bisogna fidarsi nè dei lunghi anni passati nella castità nè della propria santità o del proprio senno 1109-2.
1110. b) Diffidenza però che dev'essere accompagnata da assoluta confidenza in Dio. Dio infatti non permetterà che siamo tentati sopra le nostre forze; non ci chiede l'impossibile: a volte ci dà immediatamente la grazia di resistere alle tentazioni, a volte la grazia di pregare onde ottener grazia più efficace 1110-1.
Bisogna quindi, dice l'Olier 1110-2, "ritirarsi interiormente in Gesù Cristo, per trovare in lui la forza di resistere alla tentazione... Egli vuole che siamo tentati, perchè, avvertiti così della nostra debolezza e del bisogno che abbiamo del suo aiuto, ci ritiriamo in lui per attingervi la forza che ci manca". Se la tentazione si fa più violenta, bisogna gettarsi in ginocchio e levando le mani al cielo invocar l'assistenza di Dio: "Dico, aggiunge l'Olier, che bisogna alzare le mani al cielo, non solo perchè questa positura è già una preghiera presso Dio, ma anche perchè bisogna dar per espressa penitenza di non toccarsi mai durante questo tempo e di soffrire piuttosto tutti i martirii interni e tutte le noie della carne e anche del demonio, anzichè toccarsi".
1111. B) La fuga delle occasioni pericolose. a) La mutua simpatia che corre tra le persone di diverso sesso, causa alle persone votate al celibato occasioni pericolose; bisogna quindi sopprimere gl'incontri inutili, e allontanarne i pericoli quando quest'incontri sono necessari 1111-1. Ecco perchè la direzione spirituale delle donne non deve farsi che in confessionale, come abbiamo già detto, n. 546. -- Due cose dobbiamo tutelare: la nostra virtù e la nostra riputazione; l'una e l'altra esigono sommo riserbo.
b) I fanciulli che hanno esteriore grazioso, indole allegra e affettuosa, possono essi pure riuscire occasione pericolosa: si guardano volentieri, si accarezzano, e, se non si sta attenti, si trascorre a familiarità che turbano i sensi. È avviso che non si deve trascurare, è una specie d'ammonimento che Dio ci dà, onde farci capire che è tempo di fermarci, e che si è anzi già andati troppo oltre. -- Rammentiamoci che questi fanciulli hanno angeli custodi che contemplano la faccia di Dio; che sono tempii vivi della SS. Trinità e membra di Cristo. Sarà allora più facile trattarli con santo rispetto, pur mostrando loro molto affetto.
1112. c) In generale l'umiltà ci fa schivare il desiderio di piacere, causa, ahime! di molte cadute. Cotesto desiderio, che nasce nello stesso tempo dalla vanità e dal bisogno d'affetto, si manifesta col culto esagerato della persona, con le minuziose cure del vestire, con un contegno lezioso ed affettato, con un modo di parlare sdolcinato, con sguardi carezzevoli, con l'abitudine di complimentar le persone per le loro doti esteriori 1112-1. È un fare che dà subito nell'occhio, specialmente in un giovane chierico, in un sacerdote o in un religioso. Ne va presto di mezzo la riputazione; e Dio voglia che si corregga prima che ne vada anche la virtù!
1113. C) L'umiltà poi ci dà pure verso il direttore quell'apertura di cuore tanto necessaria per schivare i tranelli del nemico.
Nella regola tredicesima sul discernimento degli spiriti, S. Ignazio giustamente dice che "quando il nemico della natura umana si fa con le sue astuzie e coi suoi artifizi a ingannare un'anima giusta, vuole che essa l'ascolti e che serbi il segreto. Ma se quest'anima svela tutto a un illuminato confessore, o ad altra persona spirituale che conosca le fallacie e le astuzie del nemico, ne resta assai dolente, perchè sa che tutta la sua malizia resterà impotente, dacchè i suoi tentativi vennero scoperti e messi in piena luce" 1113-1. Savio consiglio che si applica soprattutto alla castità: quando si è solleciti di svelare con candore ed umiltà le tentazioni al direttore, si viene avvisati per tempo dei pericoli che si possono incorrere, si adoperano i mezzi da lui suggeriti, e una tentazione svelata è tentazione vinta. Ma se, confidando nei propri lumi, non se ne dice nulla sotto pretesto che non è peccato, si cade facilmente nei tranelli del seduttore.
Abbiamo già esposto la necessità e le principali pratiche della mortificazione, n. 755-790. Richiamiamo qui quanto più direttamente si riferisce al nostro argomento. Poichè il veleno dell'impurità s'insinua attraverso tutte le fessure, bisogna saper mortificare i sensi esterni, i sensi interni, gli affetti del cuore.
1114. A) Il corpo, come abbiamo detto, n. 771 e ss., ha bisogno d'essere disciplinato e occorrendo castigato per star sottomesso all'anima: "castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte cum aliis prædicaverim ipse reprobus efficiar".
Deriva da questo principio la necessità della sobrietà, talvolta anche del digiuno o di qualche esercizio esteriore di penitenza; come pure la necessità, in certe occasioni, massime in primavera, di un regime emolliente onde calmare l'ebollizione del sangue e gli ardori della concupiscenza. Nulla dev'essere trascurato per assicurare il dominio dell'anima sul corpo. -- Via il sonno troppo prolungato; in generale non è bene rimanere a letto il mattino, quando uno è sveglio e non può più ripigliar sonno.
1115. a) Il santo uomo Giobbe aveva fatto patto cogli occhi di non lasciarli correre su persone che gli potessero cagionar tentazioni: "Pepigi fœdus cum oculis meis, ut ne cogitarem quidem de virgine" 1115-1. L'Ecclesiastico premurosamente raccomanda di non fissar gli occhi sulle giovani e di stornare lo sguardo dalla donna elegante: "perchè molti sono sedotti dalla sua bellezza e la passione vi s'infiamma come il fuoco" 1115-2. Consigli molto ben fondati in psicologia: lo sguardo eccita la fantasia e accende il desiderio, il desiderio poi sollecita la volontà, e se questa consente, il peccato entra nell'anima.
1116. b) La lingua e l'udito si mortificano col riserbo nelle conversazioni. Riserbo che spesso manca anche tra le persone cristiane: l'abitudine di leggere romanzi e di frequentare il teatro fa che si parli troppo liberamente di molte cose che si dovrebbero tacere; si tien dietro volentieri ai piccoli scandali mondani; talora si ride e si scherza su argomenti più o meno scabrosi. Una certa morbosa curiosità fa che si prenda gusto a queste storielle o piacevolezze; la fantasia se ne pasce rappresentandosi minutamente le scene descritte; i sensi si commuovono e spesso la volontà finisce col prendervi colpevole diletto. Ha dunque ragione S. Paolo di biasimare le cattive compagnie come fonte di depravazione: "corrumpunt mores bonos colloquia prava" 1116-1. Ed aggiunge: "Via le parole disoneste, le buffonerie, gli scherzi grossolani, che son tutte cose sconvenienti" 1116-2. L'esperienza infatti dimostra che anime pure furono pervertite dalla morbosa curiosità eccitata da conversazioni imprudenti.
1117. c) Il tatto poi è pericoloso in modo particolare, n. 879.
L'aveva ben capito il Perreyve, il quale scriveva: 1117-1 "più che altro, o Signore, io vi consacro le mani; ve le consacro fino allo scrupolo. Queste mani riceveranno fra tre giorni la consacrazione sacerdotale. Fra quattro giorni, avranno toccato, tenuto, portato il vostro corpo e il vostro sangue. Voglio rispettarle, venerarle come gli strumenti sacri del vostro servizio e dei vostri altari"... Quando infatti si pensa che il mattino si è tenuto tra le mani il Dio d'ogni santità, si è più disposti ad astenersi da tutto ciò che potrebbe macchiarne la purità. Grande riserbo dunque verso se stesso; verso gli altri si usino pure le ordinarie cortesie, ma si badi a non metterci alcun sentimento appassionato che tradisca disordinato affetto. A un prete che chiedeva se convenisse toccare il polso a una moribonda, S. Vincenzo rispose: "Bisogna guardarsi bene dall'usare questa pratica, perchè lo spirito maligno se ne potrebbe servire per tentare il vivo e anche la moribonda. Il diavolo in quei momenti fa strale [sic] di ogni legno per assalire un'anima... Non v'immischiate mai di toccar nessuna donna nè nubile nè maritata, sotto qualsiasi pretesto" 1117-2.
1118. B) I sensi interni non sono meno pericolosi degli esterni, e anche quando chiudiamo gli occhi, ricordi importuni e insistenti immaginazioni continuano a perseguitarci. Se ne lamentava S. Girolamo nella solitudine, dove, non ostante l'ardore del sole e la povertà della cella, si vedeva trasportato dalla fantasia in mezzo alle delizie di Roma 1118-1. Onde raccomanda insistentemente di scacciar subito queste immaginazioni: "Nolo sinas cogitationes crescere... Dum parvus est hostis, interfice; nequitia, ne zizania crescant, elidatur in semine" 1118-2. Bisogna soffocar il nemico prima che diventi adulto e schiantar la zizzania prima che cresca; altrimenti l'anima viene invasa e assediata dalla tentazione, e il tempio dello Spirito Santo diventa covo di demoni: "ne post Trinitatis hospitium, ibi dæmones saltent et sirenæ nidificent" 1118-3.
Cosa particolarmente necessaria al sacerdote, che, in virtù della stessa sua professione, riceve confidenze su materie delicate. È vero che ha le grazie particolari del suo stato per non compiacervisi, ma a patto che, uscito dal confessionale, non ritorni volontariamente su ciò che ascoltò; altrimenti la sua virtù subirà dura prova, e Dio non si è obbligato a soccorrere gl'imprudenti che vanno a cercare i pericoli: "qui amat periculum in illo peribit" 1119-2.
1120. C) Il cuore ha pur bisogno di essere mortificato quanto la fantasia. È una delle più nobili ma anche delle più pericolose facoltà. Coi voti o col sacerdozio consacriamo il cuore a Dio e rinunziamo alle gioie della famiglia. Ma questo cuore resta aperto agli affetti, e se abbiamo grazie speciali per ben disciplinarlo, sono grazie di combattimento che richiedono da parte nostra vigilanza molta e sforzi molti.
Oltre ai pericoli comuni il sacerdote ne trova di particolari nell'esercizio del ministero. Senz'accorgersene uno si affeziona alle persone a cui si fa del bene; e queste da parte loro si sentono portate ad esprimerci la loro riconoscenza. Quindi mutui affetti, da principio soprannaturali, ma che, se non stiamo in guardia, diventano facilmente naturali, sensibili, invadenti. È cosa facile l'illudersi: "Spesso, dice S. Francesco di Sales, pensiamo di amare una persona per Dio e invece l'amiamo per noi stessi; diciamo di amarla per Dio ma in realtà l'amiamo per la consolazione che proviamo trattando con lei". Un celebre testo, attribuito a S. Agostino, ci mostra i vari gradi onde si passa dall'amore spirituali all'amore carnale: "Amor spiritalis generat affectuosum, affectuosus obsequiosum, obsequiosus familiarem, familiaris carnalem".
1121. A schivare tanta sventura, bisogna esaminarsi ogni tanto e vedere se troviamo in noi qualcuno dei segni caratteristici di amicizia troppo naturale e sensibile. Il P. di Valuy li compendia così 1121-1: "Quando il viso d'una persona comincia a cattivarsi gli occhi o l'indole sua simpatica commuove e fa palpitare il cuore. Saluti teneri, parole tenere, sguardi teneri, regalucci sempre crescenti... Certi scambievoli sorrisi più eloquenti delle parole; un certo fare libero che tende a poco a poco alla familiarità; favori e riguardi premurosi, offerte di servizio, ecc. Procurarsi conversazioni segrete dove nessun occhio e nessun orecchio dia noia; continuarle a lungo e ripeterle senza motivo. Parlar poco delle cose di Dio e molto di sè e della mutua amicizia. -- Lodarsi, adularsi, scusarsi a vicenda. -- Lagnarsi amaramente degli avvisi dei superiori, degli ostacoli che mettono a quei colloqui, dei sospetti che pare che abbiano... -- Nell'assenza della persona amica provare inquietudine e tristezze. -- Nelle preghiere venir distratti dalla sua memoria, raccomandarla talora a Dio con fervore straordinario, averne l'immagine profondamente scolpita nel cuore, pensarci il giorno, la notte, sognarla anche. -- Informarsi ansiosamente dov'è, che cosa fa, quando ritornerà, se non ha affetto per altri. -- Al suo ritorno sentir trasporti di gioia straordinaria. -- Soffrire una specie di martirio nel doversene di nuovo separare. Studiar mille astuzie per aver l'occasione di rivederla".
1122. Una delle più utili mortificazioni è la fuga dell'ozio, applicandosi con ardore agli studi ecclesiastici e al fedele adempimento dei doveri del proprio stato. Si rimuovono così i pericoli dell'ozio: multam malitiam docuit otiositas 1122-1. Se a tentare chi è occupato c'è un demonio, a tentare chi è ozioso ce ne sono cento. Che si fa infatti quando non si è utilmente occupati? Si va fantasticando, si leggono libri leggeri, si fanno lunghe visite, si tengono conversazioni più o meno pericolose, l'immaginazione si riempie di vani fantasmi, il cuore s'abbandona ad affetti sensibili, e l'anima, aperta a tutte le tentazioni, finisce col soccombere. Invece, quando uno s'applica seriamente allo studio o alle opere del ministero, la mente si riempie di buoni e salutari pensieri 1122-2, il cuore si volge a nobili e casti affetti; non si pensa che alle anime; e la stessa moltiplicità delle occupazioni ci mette nella fortunata necessità di non avere alcuna intimità con questa o con quella persona. Se in un dato momento la tentazione si presenta, la padronanza acquistata col lavoro assiduo sopra se stesso, aiuta a voltarle presto le spalle; lo studio, il ministero ci chiamano, onde si lasciano presto da parte le vane fantasie per attendere a cose reali che occupano il meglio della nostra vita.
1124. Se il lavoro ci preserva la mente dai pericolosi pensieri, l'amor di Dio ci preserva il cuore dagli affetti sensibili, e ci risparmia così molte tentazioni.
Il cuore dell'uomo è fatto per amare; il sacerdozio o lo stato religioso non ci toglie questo lato affettivo della nostra natura, ma ci aiuta a renderlo soprannaturale. Se amiamo Dio con tutta l'anima, se amiamo Gesù sopra tutte le cose, sentiremo meno il desiderio d'espanderci nelle creature. È ciò che nota S. Giovanni Climaco: "Virtuoso è colui che ha talmente impresse nell'animo le celesti bellezze da non degnarsi neppure di gettar lo sguardo sulle bellezze della terra, onde non risente l'ardore di quel fuoco che infiamma il cuore altrui" 1124-1.
1126. Vi si aggiunge grande devozione alla Vergine Immacolata; nome che spira purità, onde pare che il solo fiducioso invocarlo metta già in fuga la tentazione. Se poi intieramente ci consacriamo a questa Buona Madre (n. 170-176), allora ci vigila come cosa sua, come sua proprietà, e ci aiuta a respingere vittoriosamente anche le più tempestose tentazioni. Recitiamo dunque volentieri la preghiera O Domina tanto efficace contro le impure suggestioni, l'Ave maris stella, principalmente la strofa:
Virgo singularis,
Inter omnes mitis,
Nos culpis solutos,
Mites fac et castos.
§ II. L'Umiltà 1127-1.
L'umiltà potrebbe sotto certi aspetti connettersi colla giustizia, perchè c'inclina a trattarci come meritiamo. Nondimeno viene generalmente connessa colla virtù della temperanza, perchè modera il sentimento che abbiamo della propria eccellenza. Ne esporremo:
1127. 1° L'umiltà fu virtù ignota ai pagani; umiltà indicava per loro qualche cosa di vile, di abbietto, di servile o d'ignobile. Non era così presso i Giudei: illuminati dalla fede, i migliori tra essi, i giusti, coscienti del loro nulla e della loro miseria, accettavano con pazienza la prova come mezzo di espiazione; Dio allora si piegava verso di loro per soccorrerli; esaudiva volentieri le preghiere degli umili, e perdonava il peccatore contrito ed umiliato. Quindi, quando Nostro Signore venne a predicar l'umiltà e la dolcezza, i Giudei erano in grado di capirne il linguaggio. Noi poi lo intendiamo anche meglio dopo aver meditato sugli esempi d'umiltà che egli ci diede nella vita nascosta, nella pubblica, nella paziente, e che continua a darci nella vita eucaristica.
Si può definir l'umiltà: virtù soprannaturale, che, con la conoscenza che ci dà di noi stessi, c'inclina a stimarci secondo il giusto valore e a cercare il nascondimento e il disprezzo. Più brevemente S. Bernardo la definisce: "virtus quâ homo, verissimâ sui agnitione, sibi ipsi vilescit" 1127-2. Definizione che s'intenderà meglio quando avremo esposto il fondamento dell'umiltà.
1128. 2° Fondamento. L'umiltà ha un doppio fondamento: la verità e la giustizia: la verità, che ci porta a conoscerci quali veramente siamo; la giustizia, che c'inclina a trattarci conforme a questa conoscenza.
A) Per conoscerci bene, dice S. Tommaso, bisogna vedere ciò che in noi appartiene a Dio e ciò che appartiene a noi; ora tutto ciò che vi è di bene viene da Dio e a lui appartiene, e tutto ciò che vi è di male o di difettoso viene da noi: "In homine duo possunt considerari, scilicet id quod est Dei, et id quod est hominis. Hominis autem est quidquid pertinet ad defectum; sed Dei est quidquid pertinet ad salutem et perfectionem" 1128-1.
Onde la giustizia imperiosamente esige che si renda a Dio, e a Dio solo, ogni onore e ogni gloria: "Regi sæculorum immortali, invisibili, soli Deo honor et gloria 1128-2... Benedictio, et claritas, et sapientie, et gratiarum actio, honor et virtus et fortitudo Deo nostro" 1128-3.
Vi è certamente in noi qualche cosa di bene: il nostro essere naturale e soprattutto i nostri privilegi soprannaturali; l'umiltà non ci proibisce di vederli e ammirarli, ma, come quando si ammira un quadro, l'ossequio nostro va all'artista che l'ha dipinto e non già alla tela, così quando ammiriamo in noi i doni e le grazie di Dio, a lui e non a noi deve volgersi la nostra ammirazione.
1129. B) D'altra parte la qualità di peccatori ci condanna all'umiliazione. In un certo senso non siamo da noi che peccato perchè, nati nel peccato, conserviamo in noi la concupiscenza che ci porta al peccato.
a) Entrando nel mondo, siamo già macchiati della colpa originale, da cui la sola misericordia divina può purificarci. b) E quante colpe attuali abbiamo commesso dal primo destarsi della ragione! Se avessimo commesso anche un solo peccato mortale, meriteremmo già per questo eterne umiliazioni. Ma quand'anche non avessimo commesso che colpe veniali, dobbiamo pensare che la minima di esse è offesa di Dio, è volontaria disubbidienza alla sua legge, è atto di ribellione con cui preferimmo la volontà nostra alla sua; cosicchè un'intiera vita passata nella penitenza e nell'umiliazione non basterebbe ad espiarla. c) Inoltre conserviamo in noi, anche quando siamo rigenerati, profonde inclinazioni al peccato, ad ogni sorta di peccati, cosicchè, come insegna S. Agostino, se non siamo caduti in tutti i peccati del mondo, lo dobbiamo alla sola grazia di Dio 1129-1.
Dobbiamo quindi per giustizia amar le umiliazioni e accettar tutti i rimproveri: se ci dicono che siamo avari, disonesti, superbi, dobbiamo convenirne, perchè portiamo in noi la tendenza a tutti questi vizi. "Onde, conchiude l'Olier 1129-2, in ogni malattia, persecuzione, disprezzo o qualsiasi altra afflizione, bisogna che ci mettiamo dalla parte di Dio e contro di noi, riconoscendo che meritiamo quello e molto di più ancora, che Dio ha diritto di servirsi di ogni creatura per punirci, e adorando la grande misericordia che ora esercita su di noi, memori che al tempo della giustizia ci dovrà trattare più rigorosamente".
Vi sono varie classificazioni dell'umiltà secondo i vari aspetti sotto cui uno la guarda. Ne indicheremo solo le principali, che possono ridursi a quattro: quella di S. Benedetto, quella di S. Ignazio, quella dell'Olier e quella di S. Vincenzo de' Paoli.
1130. 1° I dodici gradi di S. Benedetto. Cassiano aveva distinto dieci gradi nella pratica dell'umiltà: S. Benedetto ne compie la divisione aggiungendovi due altri gradi. Per coglierne bene l'ordinamento, bisogna sapere che S. Benedetto considera questa virtù come "un'abituale disposizione dell'anima che regola tutto il complesso delle relazioni del monaco con Dio nella doppia sua qualità di creatura peccatrice e di figlio adottivo" 1130-1. È fondata sulla riverenza versi Dio e comprende, oltre l'umiltà propriamente detta, l'obbedienza, la pazienza e la modestia. Di questi dodici gradi sette si riferiscono agli atti interni e cinque agli esterni.
1131. Tra gli atti interni S. Benedetto pone:
1) Il timor di Dio che è continuamente presente agli occhi della nostra mente e ci fa praticare i comandamenti: prima timor dei castighi poi timore riverenziale che si perfeziona nell'adorazione: "timor Domini sanctus, permanens in sæculum sæculi" 1131-1.
2) L'obbedienza, o la sottomissione della volontà nostra a quella di Dio: infatti se abbiamo la riverenza e il timor di Dio, ne faremo la volontà in tutto: quest'obbedienza è atto di vera umiltà, perchè è espressione della nostra dipendenza rispetto a Dio.
3) L'obbedienza ai Superiori per amor di Dio, pro amore Dei; è cosa più difficile sottomettersi ai Superiori che a Dio, occorrendo maggior spirito di fede per veder Dio nei superiori; e abnegazione più perfetta, perchè questa obbedienza s'applica a un maggior numero di cose.
4) L'obbedienza paziente anche nelle cose più difficili, sopportando le ingiurie senza lagnarsi, tacitâ conscientiâ, soprattutto quando l'umiliazione viene dai Superiori; per riuscirvi si pensa alla ricompensa celeste e ai patimenti ed umiliazioni di Gesù.
5) La confessione delle colpe segrete, compresi i pensieri, al superiore 1131-2 fuori della sacramentale confessione: atto di umiltà che diventa freno gagliardo, perchè il pensiero di dover palesare le colpe anche più segrete trattiene spesso sul pendìo dell'abisso.
6) L'accettazione cordiale di tutte le privazioni e vili occupazioni, considerandosi impari al proprio ufficio.
7) Credersi sinceramente, dal fondo del cuore, l'ultimo di tutti gli uomini: "si omnibus se inferiorem et viliorem intimo cordis credat affectu". È grado raro: i Santi ci arrivano pensando che, se gli altri avessero avuto tante grazie quante loro, sarebbero migliori.
1132. Com'è naturale, questi atti interni si manifestano con atti esterni, di cui i principali sono:
8) La fuga della singolarità: non far nulla di straordinario, contentandosi di ciò che è permesso dalla regola comune, dagli esempi degli antichi e dalle legittime consuetudini; infatti voler fare il singolare è segno di superbia o di vanità.
9) Il silenzio: saper tacere finchè non si sia interrogati o non si abbia buona ragione di parlare, porgendo altrui occasione di discorrere: vi è infatti molta vanità a voler sempre prendere la parola.
10) Il riserbo nel ridere: S. Benedetto non condanna il riso quando è espressione di gioia spirituale, ma solo il riso di cattiva lega, il riso grossolano o il riso beffardo, o la disposizione a ridere facilmente e rumorosamente, segno di poco rispetto alla presenza di Dio e di poca umiltà.
11) Il riserbo nelle parole: quando si parla, farlo dolcemente e umilmente, senza scatti o scoppi di voce, ma con la gravità e la sobrietà del savio.
12) La modestia nel contegno: camminare, sedersi, star ritto, guardare, modestamente, senza affettazione, col capo leggermente inclinato, pensando a Dio e riflettendo che si è indegni di alzar gli occhi al cielo: Domine, non sum dignus ego peccator levare oculos meos ad cælum".
1133. 2° I tre gradi di S. Ignazio. Verso la fine della seconda settimana degli Esercizi, prima delle regole sulla retta elezione delle cose, S. Ignazio propone a chi fa gli esercizi tre gradi d'umiltà, che in fondo sono tre gradi d'abnegazione.
1) Il primo "consiste nell'abbassarmi e nell'umiliarmi quanto più mi sarà possibile e quanto mi è necessario per obbedire in tutto alla legge di Dio, nostro Signore; di modo che, quand'anche mi si offrisse la signoria di tutto il mondo, o mi si minacciasse della vita, io non metta neppure in deliberazione la possibilità di trasgredire un comandamento di Dio o degli uomini che mi obblighi sotto pena di peccato mortale". Questo grado è essenziale per ogni cristiano che voglia conservare lo stato di grazia.
2) Il secondo grado di umiltà è più perfetto del primo. "Consiste nel sentirmi in un'intiera indifferenza di volontà e di affetto tra le ricchezze e la povertà, l'onore e il disprezzo, vita lunga o vita breve, quando ne provenga uguale gloria a Dio e uguale vantaggio all'anima mia. Così pure che quand'anche si trattasse di guadagnar l'intiero universo o di sottrarmi alla morte, io non ponga neppure in deliberazione il pensiero di commettere un solo peccato veniale". È disposizione già molto perfetta, a cui non pervengono che ben poche anime.
3) Il terzo grado d'umiltà è perfettissimo. "Inchiude i due primi e vuole di più che, supponendo eguali la lode e la gloria della divina Maestà, ad imitare più perfettamente Gesù Cristo, Nostro Signore, e rendermi veramente più simile a lui, io preferisca ed abbracci la povertà con Gesù Cristo povero, anzichè le ricchezze; i disprezzi con Gesù Cristo saziato di obbrobri, anzichè gli onori; il desiderio di esser tenuto per uomo inutile e stolido, per amor di Cristo che volle primo passar per tale, anzichè esser tenuto per uomo savio e prudente agli occhi del mondo". È il grado dei perfetti, è l'amor della croce e dell'umiliazione in unione con Cristo e per amor suo; giunti a questo punto, si è nella via della santità.
1134. 3° I tre gradi di umiltà secondo l'Olier. Esposta nel catechismo cristiano la necessità dell'umiltà e il modo di combattere l'orgoglio, l'Olier spiega nell'Introduzione i tre gradi di umiltà interiore che convengono alle anime già fervorose.
a) Il primo è di compiacersi nella vera conoscenza di sè, della propria viltà e bassezza, dei difetti e peccati propri. La sola conoscenza delle proprie miserie non è umiltà; vi sono di quelli che rilevano i propri difetti ma attristandosene e cercando in sè qualche perfezione che li salvi dalla confusione che provano: il che è effetto di superbia. Ma quando uno si compiace nella conoscenza delle proprie miserie, quando si ama la propria viltà ed abbiezione, si è veramente umili.
Se si ebbe la disgrazia di commettere un peccato, si deve certamente detestarlo, ma nello stesso tempo amare la viltà a cui si è ridotti per il peccato. A potersi compiacere delle proprie miserie, bisogna pensare che questo sentimento onora Dio, appunto perchè la piccolezza nostra fa risaltare la sua grandezza, e i peccati nostri la sua santità. L'anima protesta così la sua nullità e la sua incapacità di fare il bene da se stessa, e che tutto viene da Dio, tutto dipende da lui, tutto dev'essere in noi da lui operato.
È questa, ahimè! la nostra tendenza: di qui nasce il dispiacere che proviamo quando si scoprono le nostre imperfezioni; di qui lo studio di riuscire nelle nostre imprese e di acquistar la stima degli uomini. Ora desiderar questa stima è essere ladro e furfante, perchè si desidera di appropriarsi ciò che appartiene soltanto all'Essere Supremo. L'anima umile invece non bada a ciò che si pensi di lei; soffre in sentirsi lodata e preferirebbe l'affronto alla lode, essendo quello fondato sulla verità e questa sulla menzogna.
Quindi, quando Dio ci manda aridità, abbandoni interiori e ripulse, dobbiamo prendere le parti di Dio contro di noi e confessar che ha ragione di rigettare le opere nostre e le nostre persone. Parimenti, se siamo maltrattati dai superiori, dagli eguali e anche dagli inferiori, dobbiamo rallegrarcene come della cosa più giusta, più vantaggiosa per noi e più conforme al desiderio di Gesù Cristo. Non si deve neppure per superbia aspirare ad alto seggio in paradiso; si deve certamente volere amar Dio quanto egli desidera, e renderci a lui fedeli per giungere a quel grado di gloria e di felicità che ci prepara, ma quanto al posto che occuperemo in paradiso, bisogna abbandonarsi nelle mani di Dio.
1135. 4° I tre gradi di umiltà secondo S. Vincenzo de' Paoli. S. Vincenzo de' Paoli è noto nella Chiesa di Dio come il santo della carità; ma dalla sua vita risulta che forse la sua umiltà superò anche la sua carità. È bene quindi conoscere la dottrina di questo santo intorno all'umiltà, dottrina che egli attinse dallo studio assiduo ed amoroso della vita e degli insegnamenti di Gesù Cristo.
L'umiltà, secondo lui, ha tre gradi o, com'egli si esprime, esige queste tre condizioni "tres has conditiones exigit: 1135-1
a) La prima condizione o il primo grado è "stimarsi con ogni sincerità degno del disprezzo degli uomini: se hominum vituperio dignum cum omni sinceritate reputare". b) Il secondo grado è "godere che gli altri vedano le nostre imperfezioni e quindi ci disprezzino: gaudere quod alii imperfectum nostrum videant et nos deinde contemnant". c) Il terzo grado è "se il Signore operi qualche cosa o in noi o per mezzo nostro, cercare di occultarlo, se è possibile, al pensiero della propria viltà; se poi ciò non è possibile, attribuir tutto alla misericordia divina e ai meriti altrui: Si Dominus per nos aut in nobis aliquid operetur, illud, si fieri possit, occultare ad aspectum propriæ vilitatis: sin autem id fieri non possit, totum divinæ misericordiæ et aliorum meritis tribuere".
"Questa umiltà, conchiude S Vincenzo, è il fondamento di tutta la perfezione evangelica e il nodo di tutta la vita spirituale; chi possederà quest'umiltà, acquisterà pure con lei tutti i beni; chi poi ne sarà privo, perderà anche quel bene che ha e sarà agitato da continue angustie: Et hoc est universæ evangelicæ perfectionis fundamentum, nodusque totius spiritualis vitæ: ei qui humilitatem istam possidebit, omnia bona venient pariter cum illâ; qui vero eâ carebit, etiam quod habet boni auferetur ad eo, continuisque agitabitur angustiis". 1135-2
Conclusione. Ognuno dei quattro aspetti dell'umiltà da noi esposti secondo l'insegnamento di S. Benedetto, di S. Ignazio, dell'Olier e di S. Vincenzo de' Paoli, ha le sue buone ragioni: sta al direttore a consigliar quello che meglio corrisponde alle condizioni spirituali del penitente.
III. L'eccellenza dell'umiltà.
A intendere bene il linguaggio dei Santi su questo argomento, bisogna distinguere tra umiltà in sè e umiltà come fondamento delle altre virtù.
1136. 1° Considerata in sè, l'umiltà, dice S. Tommaso 1136-1, è inferiore alle virtù teologali, che hanno Dio per oggetto diretto; inferiore anche a certe virtù morali, come la prudenza, la religione, la giustizia legale che riguarda il bene comune; ma è superiore alle altre virtù morali (eccetto forse l'ubbidienza), pel suo carattere universale e perchè ci assoggetta all'ordine divino in ogni cosa.
1137. 2° Ma, considerando l'umiltà come chiave che apre i tesori della grazia e fondamento delle virtù, è, al dire dei Santi, una delle più eccellenti virtù.
A) È la chiave che apre i tesori della grazia: "humilibus autem dat gratiam" 1137-1. a) Dio infatti sa che l'anima umile non si compiace delle grazie che le dà, che non ne trae motivo di vanità, ma che ne riferisce a Dio tutta la gloria; onde può effondere in lei la copia dei suoi favori, perchè così la sua gloria ne sarà aumentata. Al contrario si vede costretto a togliere la sua grazia ai superbi "Deus superbis resistit" 1137-2, perchè essi la sfruttano per sè e se ne fanno un titolo di gloria; il che Dio non può tollerare: "Gloriam meam alteri non dabo" 1137-3.
b) E poi l'umiltà ci vuota l'anima di amor proprio e di vana gloria, preparando così ampia capacità che Dio s'affretta a riempire; perchè, come dice S. Bernardo, vi è stretta affinità tra la grazia e l'umiltà: "Semper solet esse gratiæ divinæ familiaris virtus humilitas" 1137-4.
1138. B) È anche il fondamento di tutte le virtù; se non ne è la madre, ne è almeno la nutrice; per doppia ragione: perchè senza di lei non si dà virtù soda, e con lei tutte le virtù diventano più profonde e più perfette.
1) Essendo la superbia il grande ostacolo alla fede, è certo che l'umiltà rende la fede più pronta, più facile, più ferma, e anche più illuminata: "Abscondisti hæc a sapientibus et revelasti ea parvulis". Quanto è più facile piegar l'intelletto all'autorità della fede, quando si è persuasi della dipendenza nostra da Dio! "in captivitatem redigentes omnem intellectum in obsequium Christi". A sua volta la fede, mostrandoci l'infinita perfezione di Dio e il nostro nulla, ci rassoda nell'umiltà.
2) Lo stesso è della speranza: il superbo confida in sè e presume troppo delle proprie forze; non pensa gran fatto a chiedere il divino aiuto; l'umile invece mette tutta la speranza in Dio, perchè diffida di sè. La speranza a sua volta ci rende più umili, mostrandoci che i beni celesti sono talmente sopra le nostre forze che, senza l'onnipotente aiuto della grazia, non potremmo conseguirli.
3) La carità ha per nemico l'egoismo; onde solo nell'anima vuota di sè cresce l'amor di Dio; e questo a sua volta rende più profonda l'umiltà, sentendoci lieti di scomparire dinanzi a Colui che amiamo. Quindi S. Agostino giustamente dice che non vi è nulla di più sublime della carità, ma che solo gli umili la praticano: "Nihil excelsius viâ caritatis, et non in illâ ambulant nisi humiles" 1138-1. Parimenti per praticar la carità verso il prossimo, non c'è mezzo più sicuro dell'umiltà, la quale stende un velo sui suoi difetti e ce ne fa compatir le miserie in cambio di sdegnarci contro di lui.
1139. 4) La religione è tanto meglio praticata quanto più chiaramente si vede che tutto deve annientarsi e sacrificarsi per Dio.
5) La richiede la prudenza; perchè gli umili riflettono volentieri e prendono volentieri consiglio prima di operare.
6) La giustizia non si può praticar senza l'umiltà, perchè il superbo esagera i suoi diritti a scapito di quelli del prossimo.
7) La fortezza del cristiano, venendo non da lui ma da Dio, si trova veramente solo in coloro che, coscienti della propria debolezza, s'appoggiano su Colui che solo può renderli forti.
8) La temperanza e la castità, come abbiamo visto, suppongono l'umiltà. La dolcezza e la pazienza non si praticano bene se non quando si sanno accettare le umiliazioni.
1140. Gl'incipienti, come abbiamo indicato ai n. 838-844, combattono soprattutto l'orgoglio. I proficienti si studiano d'imitar l'umiltà di Nostro Signore.
1141. 1° Si studiano di attirare in sè i sentimenti di Gesù umile. È quello che dice S. Paolo: "Hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu: qui, cum in formâ Dei esset... exinanivit semetipsum..." 1141-1. "La vita di Nostro Signore, commenta S. Vincenzo de' Paoli 1141-2, fu come un continuo atto di stima e di affetto del disprezzo; il suo cuore ne era così pieno che, se se ne fosse fatta anatomia (come si fece di certi santi che vennero aperti per vedere che cosa avevano nel cuore, ove spesso si trovarono i segni di ciò che avevano maggiormente amato in vita), si sarebbe certamente trovato nell'adorabile cuore di Gesù che la santa umiltà vi era in particolar modo scolpita, e forse non direi troppo affermando che vi era scolpita a preferenza di tutte le altre virtù. -- O mio Salvatore, quanto eravate innamorato di questa virtù! E perchè abbandonarvi a così estremi avvilimenti? Egli è che voi conoscevate bene l'eccellenza delle umiliazioni e la malizia del peccato contrario, il quale non solo aggrava gli altri peccati ma rende viziose le opere che di per sè non sarebbero cattive, anzi quelle stesse che son buone e perfino le più sante". Bisogna quindi meditar spesso, ammirare e sforzarsi di imitare gli esempi di umiltà datici da Gesù nella vita nascosta, nella vita pubblica, nella vita sofferente e che continua a darci nella vita eucaristica.
A) Nella vita nascosta Gesù pratica specialmente l'umiltà di nascondimento. a) La pratica prima di nascere, col chiudersi per nove mesi nel seno di Maria, ove nasconde i divini suoi attributi nel modo più completo: "exinanivit semetipsum"; col sottomettersi all'editto di Cesare "exiit edictum a Cæsare" 1141-3; col soffrire senza lagnarsi le ripulse fatte a sua madre: "non erat eis locus in diversorio" 1141-4; specialmente col tollerar l'ingratitudine degli uomini che non pensano a preparargli un posto nel loro cuore: "in propria venit et sui eum non receperunt" 1141-5. b) La pratica nella natività, ove ci appare come povero bambino, avvolto nelle fasce, posto in una mangiatoia, steso sopra poca paglia: "invenietis infantem, pannis involutum, positum in præsepio" 1141-6. Eppure questo bambinello è il Figlio di Dio, l'Eguale del Padre, la Sapienza increata!
c) La pratica in tutte le circostanze che seguono alla sua nascita: viene circonciso e riscattato a prezzo di due tortorelle come fosse un bambino comune; è obbligato a fuggire in Egitto per scansar la persecuzione di Erode, egli che con una parola sola poteva ridurre in polvere quel crudele tiranno! d) E qual nascondimento nella vita di Nazareth! Sepolto in un paesucolo della Galilea, aiuta la madre nelle faccende domestiche, garzone e operaio; passa trent'anni a obbedire, egli, Padrone del mondo, "et erat subditus illis" 1141-7. Or si capisce l'esclamazione di Bossuet: 1141-8 "O Dio, io rimango di nuovo attonito! Vieni, o orgoglio, e muori dinanzi a questo spettacolo! Gesù, figlio d'un falegname, falegname egli stesso, noto da questo mestiere, senza che si parli d'alcun altro impiego nè d'alcun'altra azione".
1142. B) Nella vita pubblica Gesù continua a praticar l'oblìo di sè, fin dove è compatibile con la sua missione. È obbligato, è vero, a proclamar colle parole e coi fatti di esser Figlio di Dio; ma lo fa in modo discreto, misurato, con sufficiente chiarezza perchè gli uomini di buona volontà possano capire, ma senza quel fulgore che sforza l'assenso. La sua umiltà appare in tutta la sua condotta.
a) Si circonda di apostoli ignoranti, poco colti e quindi poco stimati: alcuni pescatori e un pubblicano! Mostra spiccata preferenza per quelli che il mondo disprezza: i poveri, i peccatori, gli afflitti, i fanciulli, i disereditati di questo mondo. Vive di limosine e non ha casa propria.
b) Semplice è il suo insegnamento, alla portata di tutti; i suoi paragoni e le sue parabole sono tolti dalla vita comune; non cerca di farsi ammirare ma di istruire e di muovere i cuori.
c) Raramente opera miracoli, spesso raccomandando ai guariti di non dir nulla ad alcuno. Non affettate austerità: mangia come gli altri, assiste alle nozze di Cana e ai banchetti a cui viene invitato. Fugge la popolarità, nè teme di disgustare anche i discepoli (durus est hic sermo); 1142-1 e, quando vogliono farlo re, si dilegua.
d) Se entriamo nei più intimi suoi sentimenti, vediamo che vuol vivere in dipendenza dal Padre suo e dagli uomini: nulla giudica da sè ma prende consiglio dal Padre: "Ego non judico quemquam" 1142-2; non parla che per esporre la dottrina di Colui che l'ha mandato: "A meipso non loquor 1142-3... Mea doctrina non est mea, sed ejus qui misit me" 1142-4; nulla fa da sè ma unicamente per deferenza al Padre: "Non possum a meipso facere quidquam... Pater autem in me manens ipse facit opera" 1142-5. Non cerca quindi la gloria sua ma quella del Padre; non visse sulla terra che per glorificarlo: "Ego non quæro gloriam meam 1142-6... Ego te clarificavi super terram" 1142-7. Anzi, egli, Padrone del mondo, si fa servo degli uomini: "Non venit ministrari sed ministrare" 1142-8. In una parola, dimentico di sè, si sacrifica, costantemente per Dio e per gli uomini.
1143. C) Il che appare anche più nella vita sofferente, in cui pratica l'umiltà di abiezione.
Gesù, che è la stessa santità, volle caricarsi del peso delle nostre iniquità e subirne la pena, come se fosse stato colpevole: "Eum, qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit" 1143-1. a) Onde quei sentimenti di tristezza, di abbattimento, di noia provati nel giardino degli Ulivi, vedendosi coperto dei nostri peccati: "cœpit pavere, tædere, mæstus esse... Tristis est anima mea usque ad mortem" 1143-2.
b) Quindi gl'insulti onde fu ricolmo: tradito da Giuda, ha pur sempre per lui accenti d'amicizia: Amice, ad quid huc venisti 1143-3; abbandonato dagli apostoli, continua ad amarli; catturato, legato come un malfattore, guarisce Malco ferito da Pietro. Dato in balìa del servidorame, ne tollera i vituperii senza lagnarsi; ingiustamente calunniato, non si giustifica, e non apre bocca che per rispondere allo scongiuro del sommo sacerdote in cui rispetta l'autorità di Dio; sa che la sua risposta gli frutterà la pena di morte, ma dice la verità a qualunque costo. Trattato da pazzo da Erode, non dice parola, non fa miracoli per vendicare il suo onore. Il popolo, da lui tanto beneficato, gli preferisce Barabba, e Gesù continua a soffrire per la sua conversione! Ingiustamente condannato da Pilato, tace, si lascia flagellare, coronare di spine, vilipendere da re da burla; accetta senza lamento la pesante croce caricatagli sulle spalle e si lascia crocifiggere senza dir parola. Ai sarcasmi dei nemici risponde pregando per loro e scusandoli presso il Padre. Privo di celesti consolazioni, abbandonato dai discepoli, ferito nella dignità d'uomo, nella fama, nell'onore, subì, si può dire, tutte le umiliazioni immaginabili, onde può ripetere con maggior ragione del salmista: "Sum vermis et non homo, opprobrium hominum et abjectio plebis" 1143-4. Per noi peccatori, in vece nostra, tollerò Gesù così eroicamente tutti quegli insulti senza lamento: "Qui cum malediceretur, non maledicebat; cum pateretur, non comminabatur; tradebat autem judicanti se injuste" 1143-5. Come dunque potremmo lagnarci noi che siamo tanto colpevoli, anche se in qualche circostanza fossimo accusati ingiustamente?
1144. D) La sua vita eucaristica ripete questi vari esempi d'umiltà.
a) Gesù vi è nascosto più ancora che nel presepio, più che sul Calvario: "in cruce latebat sola deitas, at hic latet simul et humanitas" 1144-1. Eppure è lui che, dal fondo del tabernacolo, è causa prima e principale di tutto il bene che si fa nel mondo, lui che ispira, fortifica, consola i missionari, i martiri, le vergini... E vuole star nascosto, nesciri, pro nihilo reputari.
b) E quanti affronti, quanti insulti non riceve nel sacramento dell'amore, non solo da parte degli increduli che rifiutano di crederne la presenza, degli empi che ne profanano il sacro corpo, ma anche dei cristiani che, per debolezza e viltà, fanno comunioni sacrileghe, e perfino delle anime a lui consacrate che talora lo dimenticano lasciandolo solo nel tabernacolo: "non potuistis unâ horâ vigilare mecum?" 1144-2. E in cambio di lagnarsi, non cessa di ripeterci: "Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos" 1144-3.
1145. 2° Vediamo dunque in che modo possiamo a suo esempio praticar l'umiltà verso Dio, verso il prossimo e verso noi stessi.
A) Verso Dio l'umiltà si manifesta specialmente in tre modi:
a) Con lo spirito di religione, che onora in Dio la pienezza dell'essere e della perfezione. Lo facciamo riconoscendo affettuosamente e lietamente il nostro nulla e il nostro peccato, godendo di proclamare così la pienezza e la santità dell'essere divino. Di qui nascono i sentimenti d'adorazione, di lode, di timor filiale e di amore; di qui quel grido del cuore: Tu solus Sanctus, tu solus Dominus, tu solus Altissimus. Sentimenti che ci sgorgano dal cuore non solo quando preghiamo, ma anche quando contempliamo le opere di Dio: opere naturali ove si riflettono le perfezioni del Creatore, opere soprannaturali ove l'occhio della fede ci scopre una vera somiglianza, una partecipazione della vita divina.
1146. b) Con lo spirito di riconoscenza, che vede in Dio la fonte di tutti i doni naturali e soprannaturali che ammiriamo in noi e negli altri. Allora noi, come l'umile Vergine e con lei, glorifichiamo Dio per tutto il bene messo in noi: "Magnificat anima mea Dominum... Fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus". Così, invece di insuperbirci di questi doni, ne riferiamo a Dio tutti l'onore, riconoscendo che ne abbiamo spesso usato male.
1147. c) Con lo spirito di dipendenza, che ci fa confessar la nostra incapacità a far nulla di bene da soli. In tal persuasione non cominciamo mai un'azione senza metterci sotto l'influsso e la direzione dello Spirito Santo e senza implorarne la grazia che sola può rimediare alla nostra incapacità. È quello che fanno specialmente i direttori di anime, i quali, nell'esercizio del delicato loro ufficio, in cambio di prevalersi della confidenza mostrata loro dalle anime dirette, confessano ingenuamente la propria incapacità prendendo quindi consiglio da Dio prima di dare i propri avvertimenti.
1148. B) Verso il prossimo il principio che deve guidarci è questo: vedere in lui ciò che Dio vi ha posto di bene tanto sotto l'aspetto naturale come soprannaturale; ammirarlo senza invidia e senza gelosia; stendere invece un velo sui suoi difetti scusandoli per quanto è possibile, ogni volta almeno che per dovere del nostro stato non siamo obbligati a correggerli.
In virtù di questo principio: a) si gode delle virtù e dei buoni successi del prossino, essendo cose che glorificano Dio, "dum omni modo... Christus annuntietur" 1148-1. Si può certamente desiderarne le virtù, ma allora bisogna rivolgersi allo Spirito Santo che si degni darcene una partecipazione; onde sorge una nobile emulazione: "consideremus invicem in provocationem caritatis et bonorum operum" 1148-2.
b) Vedendo il prossimo cadere in qualche fallo, in cambio di sdegnarsene, si prega per la sua conversione; pensando sinceramente che, senza la grazia di Dio, noi saremmo caduti in falli anche peggiori, n. 1129.
1149. c) Onde uno viene a considerarsi come inferiore agli altri, "in humilitate superiores sibi invicem arbitrantes" 1149-1. Si può infatti considerar principalmente, se non esclusivamente, ciò che vi è di bene negli altri e ciò che vi è di male in noi.
Ecco il consiglio che dava S. Vincenzo de' Paoli au suoi discepoli 1149-2: "Se ci studiamo di conoscerci bene, vedremo che in tutto ciò che pensiamo, diciamo e facciamo, sia nella sostanza come nelle circostanze, siamo pieni e circondati di motivi di confusione e di disprezzo; e se non vogliamo illuderci, ci vedremo non solo più cattivi degli altri uomini, ma peggiori in qualche modo dei demonii dell'inferno: perchè, se questi sciagurati spiriti avessero a loro disposizione le grazie e i mezzi largiti a noi per diventar migliori, ne farebbero mille e mille volte miglior uso di noi".
A chi chiedesse come si possa giungere a questa persuasione, che in sè, obiettivamente, non è sempre conforme alla verità, si può prima di tutto rispondere che si trova in tutti i santi, onde deve avere un sodo fondamento. E il fondamento è questo: di fronte a sè l'uomo è giudice, e quando si conosce a fondo, vede chiaramente che è molto colpevole e che per di più ci sono in lui molte tendenze cattive; onde conchiude che deve disprezzarsi. Ma di fronte agli altri non è giudice, nè può esserlo, perchè non ne conosce le intenzioni, che sono uno degli elementi più essenziali per giudicarne la condotta; come non conosce la misura di grazia che Dio loro distribuisce e di cui bisogna tenere pur conto nel giudizio della loro condotta. Giudicando dunque severamente sè, e gli altri giudicando con benignità, si giunge alla persuasione pratica che, tenendo conto di tutto, dobbiamo porci al di sotto di tutti.
1150. C) Verso noi stessi ecco il principio da seguire: pur riconoscendo il bene che è in noi per ringraziarne Dio, dobbiamo soprattutto considerare ciò che abbiamo di difettoso, il nostro nulla, la nostra incapacità, i nostri peccati, a fine di tenerci abitualmente in sentimenti di umiltà e di confusione.
Con l'aiuto di questo principio, si praticherà più facilmente l'umiltà, che deve estendersi a tutto l'uomo: alla mente, al cuore, all'esteriore.
a) L'umiltà di mente comprende principalmente quattro cose:
1) Una giusta diffidenza di sè, che induce a non esagerare i propri talenti ma ad umiliarsi per aver trafficato così male i doni ricevuti da Dio. È il consiglio del Savio: "Non cercare ciò che è troppo difficile per te e non scrutare ciò che oltrepassa le tue forze: altiora te ne quæsieris"; 1150-1 ed è pure ciò che raccomandava S. Paolo ai Romani: "Dico dunque, in virtù della grazia che mi fu data, a ognuno che è tra voi di non troppo sentire di sè, oltre quel che deve sentirne, ma sentirne modestamente, ognuno secondo la misura della fede compartitagli da Dio: "non plus sapere quam oportet, sed sapere ad sobrietatem" 1150-2.
2) Nell'uso che si fa dei propri talenti, non cercar di brillare e di farsi stimare, ma di essere utile e far del bene.
Tal era la raccomandazione di S. Vincenzo de' Paoli ai suoi missionari e aggiungeva: 1150-3 "Fare altrimente sarebbe un predicar se stesso e non Gesù Cristo; e una persona che predica per farsi applaudire, lodare, stimare, fare parlar di sè, che cosa fa questa persona?... Un sacrilegio, sì, un sacrilegio! Ecchè? servirsi della parola di Dio e delle cose divine per acquistare onore e riputazione! sì, è un sacrilegio!"
1151. 3) Praticar la docilità intellettuale, non solo sottomettendosi ai decreti ufficiali della Chiesa ma accettando pure cordialmente le direzioni pontificie, anche quando non sono infallibili, memori che in queste prescrizioni vi è maggior saviezza che nei nostri giudizi.
1152. b) L'umiltà di cuore vuole che, invece di desiderare e di cercare la gloria e gli onori, uno si contenti dello stato in cui è e preferisca la vita nascosta agli uffici appariscenti: ama nesciri et pro nihilo reputari. Va anzi più oltre: nasconde, come nota S. Vincenzo de' Paoli nel terzo grado di umiltà, tutto ciò che può farci amare e stimare, e desidera l'ultimo posto non solo nei gradi sociali ma anche nella stima degli uomini: "recumbe in novissimo loco" 1152-1. Desidera perfino che la nostra memoria perisca intieramente sulla terra.
Ascoltiamo S. Vincenzo de' Paoli: 1152-2 "Non dobbiamo mai posar gli occhi nè fissarli su ciò che è di bene in noi, ma studiarci di conoscere ciò che vi è di male e di difettoso: gran mezzo è questo per conservar l'umiltà. Il dono di convertir le anime e tutti gli altri talenti esteriori che sono in noi, non sono per noi, noi non ne siamo che i facchini, e possiamo con tutti questi doni bravamente dannarci. Onde nessuno deve gonfiarsi o compiacersi di sè nè concepire di sè alcuna stima, vedendo che Dio opera grandi cose per mezzo suo; ma deve tanto più umiliarsi, riconoscendosi un meschino strumento di cui Dio si degna servirsi".
1153. c) L'umiltà esteriore non dev'essere che la manifestazione dei sentimenti interiori; si può peraltro osservare che gli atti esterni d'umiltà reagiscono sulle interne disposizioni per rassodarle e intensificarle. Onde non bisogna trascurarli ma accompagnarli con veri sentimenti d'umiltà, abbassando l'anima nell'abbassare il corpo.
1) Un'abitazione povera, vesti modeste, mezzo logore e rattoppate, purchè siano pulite, inclinano all'umiltà; un'abitazione e vesti ricche suggeriscono facilmente sentimenti contrari a questa virtù.
2) Il contegno, l'andatura, la fisionomia, il modo di fare modesto ed umile, senza affettazione, aiutano a praticar l'umiltà; 1153-1 le umili occupazioni, come il lavoro manuale, il rammendarsi le vesti, producono lo stesso effetto.
3) Lo stesso vale della condiscendenza che si mostra verso gli altri, dei segni di deferenza e di cortesia.
4) Nelle conversazioni, l'umiltà ci porta a far parlare gli altri delle cose che li interessano e a parlar poco noi. Impedisce specialmente che parliamo di noi e di tutto ciò che ci riguarda: bisognerebbe essere santo per poter parlare male di sè senza secondi fini 1153-2; parlar bene di sè è millanteria. -- Non bisogna però, sotto pretesto d'umiltà, fare delle stranezze. "Se, come dice S. Francesco di Sales
1153-3, vi furono grandi servi di Dio che si finsero pazzi a fine di rendersi più abietti agli occhi del mondo, bisogna ammirarli ma non imitarli, perchè per tali eccessi essi ebbero motivi tanto speciali e straordinari che nessuno deve trarne conseguenza per conto proprio".
§ III. La mansuetudine o dolcezza 1154-1.
1154. Nostro Signore giustamente associa la dolcezza o mansuetudine all'umiltà; perchè questa non può praticarsi senza di quella. Tratteremo:
I. Natura della virtù della dolcezza.
1155. 1° I suoi elementi. La dolcezza è una virtù complessa che comprende tre elementi principali: a) una certa padronanza di sè che previene e modera i movimenti della collera: è l'aspetto per cui si connette colla temperanza; b) la sopportazione dei difetti del prossimo, che esige la pazienza e quindi pure la virtù della fortezza; c) il perdono delle ingiurie e la benevolenza verso tutti, anche verso i nemici; onde include la carità. Come si vede, è un complesso di virtù anzichè un'unica virtù.
1156. 2° Quindi si può definirla: una virtù morale soprannaturale che previene e modera la collera, sopporta il prossimo non ostante i suoi difetti e lo tratta con benignità.
La dolcezza non è dunque quella debolezza di carattere che dissimula, sotto apparenze bonarie, in profondo risentimento. È virtù interna che risiede nello stesso tempo nella volontà e nella sensibilità per farvi regnare la calma e la pace, ma che si manifesta al du fuori nelle parole e nei gesti e nell'affabilità dei modi 1156-1. Si pratica verso il prossimo, ma anche verso se stesso, e verso gli esseri animati o inanimati.
II. L'eccellenza della dolcezza.
La dolcezza è virtù eccellente in sè e negli effetti.
1157. 1° In sè, è, dice l'Olier 1157-1, "la perfezione del cristiano; perchè presuppone in lui l'annientamento di tutto ciò che è proprio e la morte di ogni proprio interesse".
Quindi, aggiunge, "la vera e perfetta dolcezza non s'incontra quasi mai che nelle anime innocenti in cui Gesù Cristo ha fatto continua dimora dopo la santa rigenerazione". Nei penitenti non si trova nella sua perfezione che raramente, perchè sono ben pochi quelli che lavorano con tanta energia e costanza da distruggere i difetti che hanno contratto. Onde Bossuet dice che "il vero segno dell'innocenza conservata o ricuperata è la dolcezza" 1157-2.
1158. 2° il grande vantaggio della dolcezza è di far regnare la pace nell'anima, pace con Dio, col prossimo, con se stesso.
a) Con Dio, perchè ci fa accettare tutti gli avvenimenti, anche più disgustosi, con calma e serenità, come mezzi di progredire nelle virtù, e soprattutto nell'amor di Dio: "Sappiamo infatti, dice S. Paolo, che ogni cosa concorre al bene di quelli che amano Dio: diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum" 1158-1.
b) Col prossimo: perchè, prevenendo e reprimendo i moti di collera, ci fa sopportare i difetti del prossimo e ci fa stare con lui in buona relazione, o almeno non ci lascia internamente turbare se altri s'adira contro di noi.
c) Verso se stesso: quandi si è commesso qualche errore o preso qualche abbaglio, uno non si impazienta nè si irrita, ma si corregge con tranquillità, con compassione, senza stupirsi dei suoi falli, giovandosi dell'acquistata esperienza per stare più vigilante. Onde di scansa il difetto di coloro che, "essendosi lasciati andare alla collera, si corrucciano poi di essersi corrucciati, si appenano di essersi appenati e s'indispettiscono di essersi indispettiti". 1158-2 Così si conserva la pace, che è uno dei beni più preziosi.
III. Pratica della virtù della dolcezza.
1159. 1° Gl'incipienti la praticano combattendo la collera e il desiderio di vendetta, come tutti i moti disordinati dell'anima, n. 861-863.
1160. 2° Le anime progredite si sforzano d'attirare in sè la dolcezza di Gesù, dolcezza da lui mirabilmente insegnataci con le parole e con gli esempi 1160-1.
A) Tanta importanza dà Gesù a questa virtù, da volere che fosse annunziata dai profeti come uno dei caratteri del Messia e che gli Evangelisti ne notassero l'adempimento 1160-2.
1161. B) Ci si offre come modello di questa dolcezza, invitandoci ad essere suoi discepoli, perchè egli è dolce ed umile di cuore 1161-1.
a) Attua perfettamente l'ideale della dolcezza tracciato dai profeti. Predica il Vangelo, non con alterchi, animosità, acredine, ma con calma e serenità.
Non sfuriate, non grida inutili, non parole rabbiose: il chiasso passa senza fare del bene. I suoi modi saranno così dolci che non spezzerà la canna mezzo infranta nè spegnerà il lucignolo ancor fumante, vale a dire la piccola scintilla di fede e di amore che resta nell'anima del peccatore. Per attirar gli uoini non sarà nè triste nè turbolento: tutto in lui spirerà amabilità e inviterà i travagliati a venirsi a riposare in lui.
1162. b) Verso gli apostoli: 1) la sua condotta è piena di dolcezza: ne sopporta i difetti, l'ignoranza, la rozzezza; procede con riguardo, non rivelando la verità se non a gradi, nella misura che la possono sopportare, e lasciando allo Spirito Santo la cura di compiere l'opera sua.
Li difende dalle ingiuste accuse dei Farisei che li rimproverano di non digiunare; ma li riprende quando mancano di dolcezza verso i fanciulli che stringono attorno a lui, o quando vogliono trar fuoco del cielo su un borgo della Samaria. Quando Pietro ferisce Malco di spada, Gesù ne lo rimprovera; ma nello stesso tempo gli perdona il triplice rinnegamento, facendoglielo espiare con triplice professione d'amore.
2) Consiglia poi la dolcezza agli operai apostolici: avranno la semplicità della colomba insieme con l'astuzia del serpente; saranno come agnelli in mezzo ai lupi; non resisteranno al male ma presenteranno la guancia sinistra a chi li percuote sulla destra; cederanno il mantello e la tunica anzichè ricorrere ai tribunali; e pregheranno per i persecutori.
1163. c) Anche ai più colpevoli peccatori perdona volentieri appena vede in loro in minimo segno di pentimento.
Con qual delicatezza induce a confessione e a conversione la Samaritana, e perdona alla peccatrice e al buon ladrone, essendo venuto a chiamare a penitenza non i giusti ma i peccatori! Come un buon pastore, va a cercare la smarrita pecorella riconducendola all'ovile sulle spalle; dà perfino la vita per le pecorelle. -- Se parla talora severamente agli Scribi e ai Farisei, è perchè impongono al prossimo un giogo insopportabile, impedendolo così di entrare nel regno di Dio.
d) Perfino i nemici tratta con dolcezza: Giuda, che pur lo tradisce, riceve ancora il dolce nome d'amico; e sulla croce Gesù prega per i suoi carnefici chiedendo al Padre di perdonarli per la loro ignoranza.
1164. C) Ad imitar Nostro Signore: a) eviteremo gli alterchi, i gridìi, le parole e gli atti offensivi o sgarbati, per non allontanare i timidi. Baderemo a non rendere mai male per male; a non rompere o spezzar nulla per avventatezza; a non parlare quando siamo in collera.
b) Ci studieremo invece di trattar con riguardo quelli che ci si avvicinano; di aver per tutti viso allegro ed affabile, anche quando ci tornino noiosi e pesanti; di accogliere con bontà particolare i poveri, gli afflitti, gli infermi, i peccatori, i timidi, i fanciulli; di addolcire con qualche buona parola le riprensioni che siamo costretti a fare; di mostrarci santamente premurosi di rendere servizi, facendo talora anche di più di quanto ci si domanda, e soprattutto facendolo con grazia. Pronti, se occorresse, a sopportare uno schiaffo senza restituirlo, e a presentar la guancia sinistra a chi ci percuote la destra.
1165. 3° I perfetti si sforzano d'imitare la dolcezza stessa di Dio, come nota l'Olier 1165-1: "Dio è la dolcezza per essenza, e quando vuol parteciparla all'anima, si stabilisce talmente in lei, che ella non ha più nulla della carne nè di sè stessa, ma è tutta perduta in Dio, nel suo essere, nella sua vita, nella sua sostanza, nelle sue perfezioni; di modo che tutto ciò che fa lo fa con dolcezza; e anche quando opera con zelo, è sempre con dolcezza, l'amarezza e l'acredine non trovando più posto in lei come non lo trovano in Dio".
1166. Conclusione. Terminiamo qui, per non dilungarci di troppo, l'esposizione delle virtù cardinali. a) Esse disciplinano, indociliscono e perfezionano tutte le nostra facoltà, assoggettandole all'impero della ragione e della volontà. Si ristabilisce così a poco a poco nell'anima l'ordine primitivo: la sottomissione del corpo all'anima e delle facoltà inferiori alla volontà.
b) Fanno ancora di più: non solo sopprimono gli ostacoli all'unione divina ma iniziano già quest'unione. Perchè la prudenza che acquistiamo è già una partecipazione della sapienza di Dio, la giustizia nostra una partecipazione della giustizia sua; la nostra fortezza viene da Dio e a lui ci unisce; la nostra temperanza ci fa partecipare al bello equilibrio e all'armonia che regna in lui. Quando ubbidiamo ai Superiori, ubbidiamo a Dio; la castità è un mezzo per accostarci alla perfetta sua purità; l'umiltà non fa il vuoto nell'anima se non per riempirla di Dio; e la nostra dolcezza è una partecipazione della dolcezza di Dio.
Preparata così dalle virtù morali, quest'unione con Dio si verrà perfezionando con le virtù teologali, che hanno Dio stesso per oggetto.
998-2 S. Tommaso, Iª IIæ, q. 62-63;
Suarez, De passionibus et habitibus, diss. III;
J. a S. Thoma, op. cit., disp. XVI;
L. Billot, De virt. infusis;
P. Janvier, Quaresimale 1906 (Marietti, Torino);
P. Garrigou-Lagrange, Perfect. chrét. et contemplation, p. 62-75.
999-1 Op. cit., p. 64.
1001-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 63, a. 4; H. Noble, Vie spirituelle, Nov. 1921, p. 103-104.
1008-1 Cf. S. Agostino, Lettera 167 a Girolamo, P. L., XXXIII, 735.
1008-2 S. Gregorio, Moral., l. XXII, c. I.
1016-1 Cassiano, Confer. II;
S. G. Climaco, La scala, XXVI;
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 47-56;
C. De Smedt, Notre vie surnaturelle, t. II, p. 1-33;
P. Janvier, Quaresimale 1917 (Marietti, Torino).
1016-2 Rom., VIII, 6-8.
1016-3 Matth., XVI, 26.
1017-1 "Prudentia est et vera et perfecta quæ ad bonum finem totius vitæ recte consiliatur, judicat et præcipit". (S. Tommaso, IIª IIæ, q. 47, p. 73).
1018-1 Ideo necesse est quod prudens et cognoscat universalia principia rationis et cognoscat singularia, circa quæ sunt operationes" (S. Tommaso, IIª IIæ, q. 47, a. 3).
1024-1 Ephes., V, 15.
1031-1 Per non tornare più volte sulle stesse virtù, indichiamo, per quanto è possibile, di ogni virtù il grado che corrisponde alle varie tappe della perfezione.
1033-1 Joan., XVI, 12.
1033-2 Matth., VI, 33; X, 16.
1033-3 Marc., XIII, 33.
1035-1 Jac., III, 13-18.
1037-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 56-122:
Dom. Soto, De justitia et jure;
Lessius, De justitia;
Ad. Tanquerey, Synopsis theol. moralis, t. III, De virtute justitiæ, con i numerosi autori citati;
P. Janvier, Quaresimale, 1918 (Marietti, Torino).
1037-2 Matth., V. 6.
1038-1 È ciò che osserva Bossuet nel Sermone sulla giustizia: "Quando nomino la giustizia, nomino nello stesso tempo il vincolo sacro dell'umana società, il freno necessario della licenza... Quando regna la giustizia, nei trattati si trova la fede, l'onestà negli affari, l'ordine nella politica, la terra è in pace, e anche il cielo, per così dire, c'illumina lietamente e ci manda più dolci influssi".
1040-1 Synopsis theol. moralis, t. III, De virtute justitiæ.
1043-1 Joan., VIII, 7.
1045-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 84;
Suarez, De virtute et statu religionis, t. I, l. II;
Bouquillon, De virtute religionis;
J. J. Olier, Introd. à la vie et aux vertus chrét.;
Mgr. d'Hulst, Quaresimale 1893, Conf. I (Marietti, Torino);
C. De Smedt, op. cit., pag. 35-104;
Ribet, Les vertus, c. XXI.
1048-1 I Petr., II, 5.
1049-1 Ps. XVIII, 2.
1049-2 Ps. XCIX, 3.
1050-1 Rom., XI, 36; XIV, 7-8.
1050-2 I Cor., VI, 20.
1051-1 Hebr., V, 1.
1051-2 Hebr., V, 7.
1055-1 Introd. à la vie et aux vertus chrét., c. I.
1057-1 S. G. Climaco, La scala, IV;
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 104-105; S. Cat. da Siena, Dialogo;
S. Fr. di Sales, La Filotea, P. 3ª, c. XI; Conferenze X-XI;
Rodriguez, P. III, tr. V. Dell'obbedienza;
J. J. Olier, Introd., c. XIII;
Tronson, De l'obéissance;
S. Alfonso, La vera sposa, c. VII;
Mgr Gay, Virtù et vita ecc., tr. XI, L'obbedienza;
C. De Smedt, Notre Vie surnat., t. II, p. 124-151;
Ribet, Vertus, c. XXIX;
D. C. Marmion, Le Christ idéal du moine, Conf. XII.
1058-1 Ps. CXVIII, 91.
1058-2 Phil., II, 8.
1058-3 I Cor., VI, 20.
1059-1 Rom., XIII, 2.
1059-2 Rom., XIII, 1.
1059-3 Luc., X, 16.
1060-1 Si veda l'Enciclica di Leone XIII, Rerum novarum, e il nostro Tratt. De justitia, ove ne diamo il commento.
1061-1 Act., V, 29.
1061-2 Tal è dottrina di S. Fr. di Sales, Trattenimenti spir., c. XI, p. 170-171: "Molti si sono grandemente ingannati... credendo che l'obbedienza consistesse nel fare a diritto e a torto tutto ciò che ci potesse venir comandato, fosse pure contro i comandamenti di Dio e della Santa Chiesa; nel che errarono grandemente... perchè in tutto ciò che riguarda i comandamenti di Dio, non avendo i Superiori potere alcuno di far mai precetto contrario, gl'inferiori non hanno mai obbligo d'ubbidire in tal caso, anzi se ubbidissero peccherebbero".
1063-1 Luc., I, 51.
1063-2 Serm. de diversis, XXXV, 4.
1064-1 Lettera CXX, trad. Brouix, 1870, p. 464.
1064-2 S. Ignazio, Costituzioni, VI, § I, reg. 36.
1065-1 Ephes., VI, 5-9.
1065-2 Lettere CXX.
1066-1 Trattenimenti spirituali, c. XI, p. 170.
1066-2 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 104, a. 3, ad 3.
1066-3 Veri ["Vedi"?] Trattenimenti spirituali, c. XI, p. 191.
1067-1 Ibid., p. 178.
1067-2 Sermo de diversis, XLI, 7; è da leggersi tutto questo sermone sull'ubbidienza.
1067-3 Matth., V, 18.
1067-4 S. Fr. di Sales, Conf. spirituali, c. XI, 182.
1067-5 II Cor., IX, 5.
1068-1 Sum. Theol., IIª IIæ, q. 104, a. 3.
1069-1 S. Gregorio, Moral., l. XXV, c. 10.
1069-2 Luc., XXII, 42.
1069-3 I Reg., XV, 22.
1070-1 De Civit. Dei, l. XIV, c. 12.
1070-2 Sum. Theol., IIª IIæ, q. 104, a. 3.
1070-3 I Joan., II, 5.
1070-4 I Joan., XIV, 15.
1071-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 104, a. 3, ad 2.
1071-2 Lettera citata, p. 231-236.
1071-3 Citato da S. Fr. di Sales, Trattenimenti spirituali, l. c.
1072-1 S. Bernardo, Sermo III in tempore paschali, 3.
1074-1 Il Dialogo, edizione Gigli, 1726.
1075-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 123-140; e i suoi commentatori, specialmente il Gaietano e G. di S. Tommaso;
P. Janvier, Quaresimale 1920 (Marietti, Torino);
Ribet, Vertus, c. XXXVII-XLII;
C. De Smedt, Notre vie surnat., t. II, p. 210-267.
1076-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 123, a. 3.
1077-1 Sum. Theol., IIª IIæ, q. 123, a. 6, ad 1.
1079-1 Gal., I, 10
1079-2 II Cor., X, 17-18.
1088-1 S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. III;
J. J. Olier, Introd., c. IX;
J. Faber, Progressi, c. IX;
D. V. Lehodey, Le saint abandon, P. IIIª, c. III-V.
1090-1 I Petr., IV, 1.
1090-2 Galat., II, 19.
1090-3 Rom., VIII, 17.
1090-4 II Cor., XII, 9.
1090-5 II Cor., VII, 4.
1091-1 Luc., XII, 50.
1091-2 Constit. Soc. Jesu, Esam. generale, c. IV, n. 44.
1092-1 Notre vie surnat., t. II, p. 260. -- Il P. Capelle che fece studi speciali sopra tal questione (Les Ames généreuses, 1920, P. 3ª, c. IV-VII) compendia la sua dottrina in tre proposizioni: 1) È Gesù Cristo stesso che sceglie le sue vittime; 2) le avvisa prima di quanto dovranno soffrire; 3) ne chiede il libero consenso.
1093-1 Sum. Theol., IIª IIæ, q. 137, a. 1.
1095-1 Joan., XV, 5.
1095-2 Phil., IV, 13.
1095-3 I Cor., I, 27-28.
1098-1 Cant., VIII, 6.
1098-2 II Cor., V, 14.
1098-3 Rom., VIII, 38-39.
1098-4 Ps. XLII, 2.
1099-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 141-170;
Scaramelli, Direttorio ascetico, Tr. III, art. 4;
Ribet, Vertus, c. XLIII-XLVIII;
C. de Smedt, t. II, p. 268-342;
P. Janvier, Quaresimale 1921 e 1922 (Marietti, Torino).
1100-1 Cassiano, Conf. XII;
S. G. Climaco, Scala, gradino XV;
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 151-156;
Rodriguez, P. III, tr. IV, Della castità;
S. Fr. di Sales, La Filotea, P. III, c. XII, XIII;
J. J. Olier, Introd., c. XII;
S. Alfonso, Selva, P. II, Istruzione IIIª, Castità del sacerdote;
Mgr Gay, Vita e virtù, tr. X;
Valuy, Vertus religieuses, Chasteté;
P. Desurmont, Charité sacerdotale, § 77-79;
Mgr Lelong, Le saint Prêtre, Conf. 12ª.
1103-1 Ephes., V, 25.
1104-1 La Filotea, P. IIIª, c. XXXVIII.
1104-2 Oraz. XXXVII, 7.
1105-1 Tob., VIII, 9.
1106-1 S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. XXXIX.
1106-2 I Cor., VII, 5.
1107-1 Si vedano gli ottimi consigli di S. Fr. di Sales alle vedove, La Filotea, P. IIIª, c. XL.
1108-1 Rom., I, 26.
1109-1 Epistola XXII, ad Eustochium, P. L., XXII, 396.
1109-2 Ep. LII, ad Nepotianum, P. L., XXII, 531-532: "Nec in præteritâ castitate confidas; nec David sanctior, nec Salomone potes esse sapientior. Memento semper quod paradisi colonum de possessione suâ mulier ejecerit".
1110-1 "Nam Deus impossibilia non jubet, sed jubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adjuvat ut possis". (Trident., sess. VI, c. II, Denz., 804).
1110-2 Introd., c. XII.
1111-1 È quello che raccomandava già S. Girolamo al suo caro Nepoziano: "Hospitiolum tuum aut raro aut nunquam mulierum pedes terant... Si propter officium clericatus, aut vidua a te visitatur, aut virgo, nunquam solus introeas. Tales habeto socios quorum contubernio non infameris... Solus cum solâ, secreto et absque arbitro vel teste, non sedeas... Caveto omnes suspiciones, et quidquid probabiliter fingi potest, ne fingatur, ante devita. (Epist. LII, P. L., XXII, 531-532).
1112-1 S. Girolamo descrive molto bene queste stranezze: "Omnis his cura de vestibus, si bene oleant, si pes, laxâ pelle, non folleat. Crines calamistro vestiglio rotantur; digiti de annulis radiant: et ne plantas humidior via aspergat, vix imprimunt summa vestigia. Tales cum videris, sponsos magis æstimato quam clericos". (Epist. XXII, P. L., XXII, 414).
1113-1 Esercizi spirituali.
1115-1 Job, XXXI, 1.
1115-2 Eccli., IX, 5, 8, 9: "Virginem ne conspicias ne forte scandalizeris in decore illius... Averte faciem tuam a muliere comptâ, et ne circumspicias speciem alienam. Propter speciem mulieris multi perierunt, et ex hoc concupiscentia quasi ignis exardescit".
1116-1 I Cor., XV, 33.
1116-2 Ephes., V, 4.
1117-1 Meditazioni sui SS. Ordini, p. 105, ed. 1874.
1117-2 Saint Vincent de Paul, Correspondance, Entretiens, Documents, par Pierre Coste, Tom. II, p. 523, Paris, Lecoffre et Gabalda, 1921.
1118-1 "O quoties ego ipse in eremo constitutus, et in illâ vastâ solitudine quæ exusta solis ardoribus, horridum monachis præstat habitaculum, putabam me Romanis interesse deliciis".
1118-2 Epist. XXII, n. 7. P. L., XXII, 398.
1118-3 S. Hieronymi, Epist. XXII, n. 6, P. L., 398.
1119-1 Epist. cit. n. 5.
1119-2 Eccli., III, 27.
1121-1 Vertus religieuses, p. 73, 74.
1122-1 Eccli., XXXIII, 29.
1122-2 Ama scientiam Scripturarum et carnis vitia non amabis... Facito aliquid operis, ut te semper diabolus inveniat occupatum". S. Girolamo, Lettera CXXV, P. L., XXII, 1078.
1124-1 La Scala, Scalino XV, 7.
1127-1 Cassiano, Conf. XVIII, c. XI;
S. G. Climaco, Scala, XXV;
S. Bernardo, De Gradibus humilitatis et superbiæ;
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 161;
Rodriguez, P. II, Tr. III, Dell.umiltà;
S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. IV-VII;
J. J. Olier, Introd., c. V;
L. Tronson, Tr. de l'humilité;
Scaramelli, Direttorio Ascetico, tr. III. art. XI;
S. Alfonso, La vera sposa, c. XI;
Mgr Gay, Vita e Virtù, tr. VI;
V. Libermann, Ecrits spirit., Dell'umiltà;
Beaudenom, Formation à l'humilité;
C. De Smedt, Notre vie surnat., t. II, p. 305-342;
D. Col. Marmion, Le Christ idéal du moine, XI, p. 277-333.
1127-2 De gradibus humilitatis, c. I, n. 2.
1128-1 IIª IIæ, q. 161, a. 3.
1128-2 I Tim. I, 17.
1128-3 Apoc., VII, 12.
1129-1 Gratiæ tuæ deputo et quæcumque non feci mala: quid enim non facere potui, qui etiam gratuitum facinus amavi? Et omnia mihi dimissa esse fateor; et quæ meâ sponte feci mala, et quæ, te duce, non feci. (Confess., l. II, c. 7, P. L., XXXII, 681).
1129-2 Catéch. chrétien, P. Iª, lez. XVIII.
1130-1 D. Columba Marmion, Le Christ, idéal du moine, 1922, p. 299.
1131-1 Ps. XVIII, 10.
1131-2 Secondo il Codice, can. 530, i Superiori religiosi non possono più in nessun modo obbligare gli inferiori a manifestar loro la coscienza; ma, aggiunge il Codice, "è bene che i religiosi ricorrano ai Superiori con filiale confidenza, esponendo anche, se i Superiori sono sacerdoti, i dubbi e la angustie della loro coscienza".
1135-1 Regula seu Constitutiones Comm. Congreg. Missionis, C. 2, n. 7.
1135-2 La dottrina di S Vincenzo de' Paoli sull'umiltà e quella dell'Olier sono molto affini; il che non deve far maraviglia, chi pensa che l'Olier fu il diletto amico e spirituale discepolo di S. Vincenzo il quale pure amorosamente lo assistette in punto di morte.
1136-1 IIª IIæ, q. 161, a. 4
1137-1 I Petr., V, 5.
1137-2 I Petr., V, 5.
1137-3 II Cor., X, 5.
1137-4 Super Missus est, homil. IV, 9.
1138-1 Enarrat. in Ps. CXLI, c. 7.
1139-1 Sermo 10 de Verbis Domini.
1141-1 Philip., II, 5-7.
1141-2 Saint Vincent de Paul, edizione Coste, Tomo XII, p. 199, 200.
1141-3 Luc., II, 1.
1141-4 Luc., II, 7.
1141-5 Joan., I, 11.
1141-6 Luc., II, 12.
1141-7 Luc., II, 51.
1141-8 Elevazioni, XXª settimana, elev. 8ª.
1142-1 Joan., VI, 61.
1142-2 Joan., VIII, 15.
1142-3 Joan., XIV, 10.
1142-4 Joan., VII, 16.
1142-5 Joan., V, 30; XIV, 10.
1142-6 Joan., VIII, 50.
1142-7 Joan., XVII, 4.
1142-8 Matth., XX, 28.
1143-1 II Cor., V, 21.
1143-2 Marc., XIV, 33, 34.
1143-3 Matth., XXVI, 50.
1143-4 Ps. XXI, 7.
1143-5 I Petr., II, 23.
1144-1 Inno Adoro te di S. Tommaso.
1144-2 Matth., XXVI, 40.
1144-3 Matth., XI, 28.
1148-1 Phil., I, 18.
1148-2 Hebr., X, 24.
1149-1 Phil., II, 3.
1149-2 Maynard, Virtù e dottrina spirit. di S. Vincenzo.
1150-1 Eccli., III, 22.
1150-2 Rom., XII, 3.
1150-3 Maynard, Vertus et doctr., p. 214.
1152-1 Luc., XIV, 10.
1152-2 Maynard, Vertus et doctrine, p. 218.
1153-1 Lo spiega molto bene Monsignor Gay in Vita e virtù cristiane, T. 1 Dell'umiltà: "Vi è un abito di esterna umiltà in cui l'anima sinceramente umile serba sempre il corpo. E qualche cosa di contenuto, di riserbato, di calmo, che dà a tutta la fisionomia e a tutto il contegno quella bellezza ineffabile, quell'armonia, quella grazia che viene espressa dalla parola modestia. Modesto è lo sguardo, modesta la voce, modesto il riso, modesti sono tutti i movimenti. Nulla è più lontano dall'affettazione quanto la vera modetia. San Paolo diceva (Phil. IV, 5): la vostra modestia sia nota a tutti, perchè il Signore è vicino! Sta qui infatti il segreto di questo incantevole e santo contegno. Dio è vicino a questa anima e quest'anima non lo dimentica mai: vive alla sua presenza ed opera sotto i suoi occhi, in compagnia degli angeli buoni".
1153-2 "Diciamo tante volte che siamo nulla, che siamo la stessa miseria e la spazzatura del mondo; ma ci dorrebbe assai se ci prendessero in parola e ci pubblicassero per tali quali noi ci diciamo. Facciamo finta di fuggire e di nasconderci, perchè ci si corra dietro e ci vengano a cercare: facciamo sembiante di voler essere gli ultimi a sedere in fondo alla tavola, ma lo scopo è di riuscir più facilmente ad essere posti in capo ad essa. La vera umiltà non fa sembiante d'esserlo e non dice molte parole d'umiltà"... (S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. V.)
1153-3 La Filotea, l. c., c. V.
1154-1 S. G. Climaco, La Scala, XXIV;
S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. VIII;
J. J. Olier, Introd., c. X;
Card. Bona, Manuductio, c. XXXII;
Ribet, Ascétique, c. L;
Vén. A. Chevrier, Le véritable disciple, p. 345-354.
1156-1 San Girolamo la descrive molto bene nel Commento della Lettera ai Galati, V, 22: "La benignità, dice S. Girolamo, è una virtù soave, tranquilla, dal parlare dolce, affabile nei costumi, felice misto di ogni buona qualità. Molto vicina ne è la bontà, perchè anch'essa cerca di far piacere; ma se ne distingue in questo che la bontà è meno attraente e di aspetto più severo e che è pronta a far del bene e a rendere servizi ma senza quella graziosità e quella soavità che guadagna i cuori".
1157-1 Introd., c. X.
1157-2 Medit. sul Vangelo, Sermone, giorno III°.
1158-1 Rom., VIII, 28.
1158-2 S. Fr. di Sales, La Filotea, P. IIIª, c. IX.
1160-1 P. Chevrier, Le disciple, p. 345-354.
1160-2 Isaia, XLII, 1-4; Matth., XII, 17-21.
1161-1 Matth., XI, 29.
1165-1 Introduzione, c. X.
Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@gmail.com>.
Ultima revisione: 1 febbraio 2006.