ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica
PARTE SECONDA
Le Tre Vie
LIBRO III
La via unitiva
Della via unitiva semplice.
1303. Questa via è lo stato delle anime fervorose che vivono abitualmente in intima unione con Dio, senza avere ancor ricevuto il dono della contemplazione infusa. Abituate già a praticare le virtù morali e teologali, si sforzano di perfezionarvisi coltivando i doni dello Spirito Santo; l'orazione si semplifica sempre più e diventa orazione di semplicità o di semplice raccoglimento, che viene chiamata contemplazione impropriamente detta, acquisita o attiva. Che si dia questo stato è dimostrato dall'esperienza, dalla distinzione dei due generi di contemplazione, come pure dalla differenza tra doni attivi e doni contemplativi.
1304. 1° Innanzitutto l'esperienza dimostra che vi sono nel chiosto e nel mondo anime veramente fervorose, unite abitualmente a Dio, che praticano con generosità e costanza le virtù cristiane, talora anche in modo eroico, e che pure non hanno la contemplazione infusa. Anime cosiffatte sono docili allo Spirito Santo, corrispondono abitualmente alle sue ispirazione, ricevono anche ogni tanto lumi e ispirazioni speciali, ma nessuna prova scorgono esse o il loro direttore per affermare che si trovino nello stato passivo propriamente detto 1304-1.
1305. 2° Ed è pure ciò che risulta dalla distinzione tra contemplazione acquisita e contemplazione infusa, di cui troviamo vestigio anche presso Clemente Alessandrino 1305-1 e Riccardo da S. Vittore, distinzione che divenne classica a cominciare dalla fine del secolo decimo settimo: le anime che rimangono nella contemplazione acquisita per un notevole periodo della vita, sono nella via unitiva semplice.
Qui, a scanso di equivoci, non diciamo che vi siano due vie divergenti, perchè ammettiamo invece che la contemplazione acquisita sia ottima disposizione alla contemplazione infusa, quando piaccia a Dio di darcela. Ma vi sono molte anime che non la ricevono pur vivendo intimamente unite a Dio; onde restano nella via unitiva semplice senza necessaria colpa da parte loro 1305-2.
1306. 3° L'argomento viene pur confermato dal fatto che, tra i doni dello Spirito Santo, gli uni ci sono dati specialmente per l'azione e gli altri specialmente per la contemplazione. Ora avviene che certe anime, dotate di temperamento più attivo e aggravate da più numerose occupazioni, coltivino specialmente i doni attivi, onde riescono meno atti alla contemplazione propriamente detta.
Tale osservazione non sfuggì al P. Noble 1306-1: "Non nell'affanno del lavoro o nell'affaccendamento di affari complicati che attraggono tutta l'attenzione, egli dice, può la mente concentrarsi dentro di sè a fissare un immobile sguardo sulle realtà spirituali ed eterne. Per contemplare non bisogna essere oppressi da assidui e faticosi lavori; o per lo meno è necessario potere strappar loro tanto di respiro che il cuore e la mente si levino tranquillamente a Dio.
Avendo essa per caratteristica:
tratteremo per ordine di questi due elementi.ART. I. DEI DONI DELLO SPIRITO SANTO 1307-1.
Tratteremo per ordine:
§ I. Dei doni dello Spirito Santo in generale.
Ne esporremo:
I. Natura dei doni dello Spirito Santo.
1307. Abbiamo detto, n. 119, in che modo lo Spirito Santo inabitante nel'anima vi produca, oltre la grazia abituale, abiti soprannaturali che perfezionano le nostre facoltà e le rendono capaci di produrre atti soprannaturali sotto l'impulso della grazia attuale. Questi abiti sono le virtù e i doni: determinando con esattezza la differenza che passa tra queste due sorte di abiti, riusciremo a intender meglio in che consistano i doni.
1308. 1° Differenza tra i doni e le virtù. A) La differenza fondamentale non deriva già dall'oggetto materiale o dal campi di azione che veramente è lo stesso, ma dal diverso modo di operare nell'anima.
Dio, come dice S. Tommaso 1308-1, può operare in noi in due modi: a) adattandosi al modo umano di agire delle nostre facoltà; il che fa nelle virtù, aiutandoci a riflettere e a cercare i mezzi migliori per giungere allo scopo; a rendere soprannaturali queste operazioni ci dà le grazie attuali, ma lascia che incominciamo noi secondo le regole della prudenza o della ragione illuminata dalla fede; onde siamo noi che operiamo sotto l'impulso delle grazia.
b) Ma, per mezzo dei doni, Dio opera pure in una maniera superiore al modo umano: comincia lui per il primo: prima che abbiamo avuto il tempo di riflettere e di consultare le regole della prudenza, ci manda istinti divini, illustrazioni e ispirazioni, che operano in noi senza deliberazione da parte nostra, non però senza il nostro consenso. Grazia cosiffatta, che sollecita soavemente e ottiene efficacemente il nostro consenso, può essere chiamata grazia operante; sotto di lei noi siamo più passivi che attivi, e la nostra attività consiste soprattutto a liberamente consentire all'operazione di Dio, a lasciarci guidare dallo Spirito Santo, a seguirne prontamente e generosamente le ispirazioni.
1309. B) Con questo principio fondamentale si capiscono meglio le differenze tra doni e virtù.
a) Le virtù ci inclinano ad agire conforme alla natura delle nostre facoltà: onde noi, con l'aiuto della grazia largitaci, indaghiamo, ragioniamo, lavoriamo allo stesso modo che negli atti di ordine puramente naturale; sono quindi forze primieramente e direttamente attive. I doni invece ci danno una docilità, una ricettività che ci fa ricevere e seguire gl'impulsi della grazia operante: grazia che mette in moto le nostre facoltà senza però toglierne la libertà, cosicchè l'anima, come dice S. Tommaso, è più passiva che attiva "non se habet ut movens sed magis ut mota" 1309-1.
b) Nelle virtù ci governiamo secondo i principi e le regole della prudenza soprannaturale; onde dobbiamo riflettere, deliberare, consultare, scegliere, ecc. (n. 1020); sotto l'influsso dei doni invece ci lasciamo guidare da una ispirazione divina, che, repentinamente, senza nostra riflessione, ci fa viva premura di operar questa o quell'altra cosa.
c) Essendo la parte della grazia molto maggiore nei doni che nelle virtù, gli atti fatti sotto l'influsso dei doni sono normalmente, a parità di condizioni, più perfetti di quelli fatti sotto l'azione delle virtù; sono i doni quelli che ci fanno praticare il terzo grado delle virtù e fare atti eroici.
1311. 2° Definizione. Dal fin qui detto si può conchiudere che i doni dello Spirito Santo sono abiti soprannaturali che danno alle facoltà tale docilità da obbedire prontamente alle ispirazioni della grazia. Ma, come presto diremo, questa docilità non è a principio che semplice ricettività che ha bisogno di essere coltivata per giungere al pieno suo sviluppo. Inoltre non entra in esercizio che quando Dio ci concede quella grazia attuale che si chiama operante. Allora l'anima, pur essendo passiva sotto l'azione di Dio, diventa attivissima per farne la volontà; e si può dire che i doni sono nello stesso tempo "arrendevolezza ed energia, docilità e forza... che rendono l'anima più passiva sotto la mano di Dio e insieme più attiva nel servirlo e nel compierne le opere" 1311-1.
Si può considerare questa eccellenza in sè e in relazione alle virtù.
1312. 1° In sè è chiaro che questi doni sono eccellenti. Quanto più siamo uniti e docili allo Spirito Santo, fonte d'ogni santità, tanto più siamo necessariamente perfetti. Ora i doni ci mettono sotto l'azione diretta dello Spirito Santo, che, vivendo nell'anima, illumina l'intelletto coi suoi lumi, indicandogli chiaramente ciò che dobbiamo fare, infiamma il cuore e fortifica la volontà per farle compiere il bene suggerito. Onde sorge un'unione intima tanto quanto è consentito sulla terra.
Preziosi quindi ne sono gli effetti. Sono i doni che ci fanno praticare il grado più perfetto delle virtù morali e teologali, quello che chiamiamo terzo grado, e che ispirano gli atti eroici. L'anima viene per essi elevata, quando Dio lo voglia, alla contemplazione infusa, essendo l'arrendevolezza e la docilità da essi prodotta la disposizione prossima allo stato mistico. Sono quindi la scorciatoia per arrivare alla più alta perfezione.
1313. 2° Se paragoniamo i doni colle virtù, li troviamo, dice S. Tommaso 1313-1, più perfetti delle virtù morali o intellettuali. Queste infatti non hanno Dio per oggetto immediato, mentre i doni portano le virtù a un grado superiore, dove, confondendosi con la carità, ci uniscono a Dio.
Così la prudenza, perfezionata dal dono del consiglio, ci fa partacipare alla luce stessa di Dio; il dono della fortezza mette in noi, a nostra disposizione, la fortezza stessa di Dio. Ma i doni non sono superiori alle virtu teologali, massime alla carità; la carità infatti è il primo e il più perfetto dei beni soprannaturali, la fonte da cui derivano i doni. Tuttavia si può dire che i doni perfezionano le virtù teologali nel loro esercizio: così il dono dell'intelletto rende la fede più viva e più penetrante, manifestandole l'armonia intima dei dogmi; e il dono della sapienza perfezione l'esercizio della carità, facendoci assaporare Dio e le cose divine. Sono quindi mezzi che si riferiscono alle virtù teologali come a fine, aggiungendovi però maggior perfezione.
III. Della cultura dei doni dello Spirito Santo.
1314. 1° Sviluppo progressivo. Noi riceviamo i doni dello Spirito Santo insieme con lo stato di grazia, ma non sono allora se non semplici facoltà soprannaturali. Giunti l'età della ragione e volgendosi il cuore a Dio, cominciamo, sotto l'influsso della grazia attuale, a mettere in eserzicio tutto l'organismo soprannaturale, compresi i doni dello Spirito Santo; non è infatti credibile che questi doni restino inoperosi e incapaci di essere utilizzati per un lungo periodo della vita 1314-1.
Ma perchè giungano al normale e pieno sviluppo, è necessario aver prima praticato le virtù morali per un tempo notevole, che varia secondo i disegni di Dio su di noi e la cooperazione nostra alla grazia: sono infatti queste virtù che, come abbiamo detto, indociliscono a poco a poco l'anima e la preparano a quella perfetta arrendevolezza che è richiesta al pieno esercizio dei doni. Crescono intanto, come abiti, insieme colla grazia abituale e aggiungono spesso le loro energie, senza che noi n'abbiamo coscienza, a quelle delle virtù per farci praticare gli atti soprannaturali.
Ci sono persino occasioni in cui lo Spirito Santo, con la grazia operante, provocherà, così di passaggio, un fervore insolito, che sarà come una passeggiera contemplazione. Quale anima fervorosa infatti non sentì, in certi momenti, certe repentine ispirazioni della grazia in cui noi non abbiamo che da ricevere e da seguire la mozione divina? Sarà stato nella lettura del Vangelo o di un libro pio, in una comunione o in una visita al SS. Sacramento, in tempo di esercizi spirituali o della scelta di uno stato di vita, di un'ordinazione, di una vestizione; ci pareva allora che la grazia di Dio fortemente e soavemente ci trasportasse: "satis suaviter equitat quem gratia Dei portat".
1315. 2° Mezzi per coltivare i doni. A) La pratica della virtù morali è la prima condizione necessaria alla coltura dei doni. Tal è l'insegnamento di S. Tommaso 1315-1: "Virtutes morales et intellectales præcedunt dona, quia per hoc quod homo bene se habet circa rationem propriam disponitur ad hoc quod se bene habeat in ordine ad Deum". Ad acquistare infatti quella divina docilità che i doni conferiscono bisogna aver prima domato le passioni e i vizi con abiti di prudenza, di umiltà, di obbedienza, di dolcezza, di castità. Come infatti si potrebbe percepire e docilmente accogliere e seguire le ispirazioni della grazia, quando l'anima è agitata dalla prudenza della carne, dall'orgoglio, dall'indocilità, dalla collera, dalla lussuria? Prima di essere guidati dagli impulsi divini, bisogna aver già seguito le regole della prudenza cristiana; prima di obbedire ai moti della grazia, bisogna aver osservato i comandamenti e trionfato della superbia.
Quindi il Gaetano 1315-2, fedele commentatore di S. Tommaso, giustamente dice: "Notino bene questo i direttori spirituali e vigilino onde i loro discepoli si esercitino nella vita attiva prima di proporre loro le vette della contemplazione. È necessario infatti domar le passioni con abiti di dolcezza, di pazienza, ecc., di liberalità, di umiltà, ecc., per potere poi, diventati calmi, elevarsi alla vita contemplativa. Per difetto di questa precedente ascesi, molti che, in cambio di camminare, vanno saltando nella via di Dio, si trovano poi, dopo aver dato buona parte della vita alla contemplazione, vuoti di ogni virtù, impazienti, collerici, superbi, per poco che siano cimentati. Cotesta gente non ebbe mai nè la vita attiva nè la vita contemplativa nè l'unione delle due, ma edificò sull'arena e Dio volesse che fosse questo un difetto raro".
1316. B) Si coltivano pure i doni combattendo lo spirito del mondo, che è diametralmente opposto allo Spirito di Dio. È quello che vuole da noi S. Paolo: "Noi però ricevemmo non lo spirito del mondo, ma lo spirito che è da Dio; affinchè conosciamo quello che da Dio ci fu largito... L'uomo naturale non accoglie le cose dello Spirito di Dio: sono follìa per lui e non può intenderle, perchè spiritualmente van giudicate: "animalis autem homo non percipit ea quæ sunt Spiritus Dei; stultitia enim est illi, et non potest intelligere quia spiritualiter examinatur" 1316-1. A meglio combattere questo spirito del mondo, bisogna leggere e meditare le massime evangeliche e conformarvi la propria condotta più perfettamente che sia possibile; si sarà allora disposti a lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio.
1317. C) Vengono quindi i mezzi positivi e diretti che ci mettono sotto l'azione dello Spirito Santo:
a) Prima di tutto il raccoglimento interno o l'abitudine di pensar spesso a Dio che vive non solo vicino a noi ma in noi (n. 92). Con ciò uno giunge gradatamente a non perder di vista la presenza di Dio anche in mezzo alle più gravi occupazioni; si ritira spesso nella celletta del proprio cuore per trovarvi lo Spirito Santo e ascoltarne la voce: "Audiam quid loquatur in me Dominus Deus" 1317-1. S'avvera allora ciò che dice l'autore dell'Imitazione: "Beata anima quæ Dominum in se loquentem audit et de ore ejus verbum consolationis accipit" 1317-2; lo Spirito Santo parla al cuore e le sue parole recano luce, forza e consolazione.
1319. c) Bisogna anzi andargli incontro, fiduciosamente invocandolo in unione col Verbo Incarnato che ci promise di mandarci il suo Spirito, in unione con Colei che è il tempio più perfetto e la sposa dello Spirito Santo, come fecero gli Apostoli che nel Cenacolo pregavano con Maria "cum Mariâ, matre Jesu" 1319-1.
La Chiesa ci porge nella liturgia magnifiche preghiere per attirare su noi lo Spirito di Dio; la sequenza Veni Sancte Spiritus, l'inno Veni Creator Spiritus, e altre invocazioni che si trovano nel Pontificale nel rito dell'ordinazione dei sudduaconi, dei diaconi e dei sacerdoti; sono preci che hanno efficacia particolare, di contenuto così bello che non si possono recitare senza sentirsene piamente commossi.
Ottimo costume è quello di recitare, prima di ogni azione, il Veni Sancte Spiritus, come si fa nei Seminari, onde si chiede la divina carità, principio dei doni, e il dono della sapienza "recta sapere" che, essendo il più perfetto, contiene tutti gli altri. Recitata con attenzione e fervore, questa preghiera non può restar senza effetto.
IV. Classificazione dei doni dello Spirito Santo.
1320. Il Profeta Isaia, vaticinando la venuta del Messia, dichiara che riposerà su di lui lo Spirito di Dio, "spirito di sapienza e d'intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di timore" 1320-1. Incorporati col battesimo a Cristo, noi partecipiamo degli stessi doni, che, secondo l'insegnamento tradizionale, sono sette.
Si possono classificare in varie maniere.
A) Quanto a perfezione, il meno perfetto è il timor di Dio, e il più perfetto è il dono della sapienza.
B) Se si considerano le facoltà su cui operano, si distinguono in doni intellettuali e in doni affettivi: i primi, che illuminano l'intelletto, sono la scienza, l'intelletto, la sapienza e il consiglio; i secondi, che fortificano la volontà, sono la pietà, la fortezza e il timor di Dio. -- Tra i doni intellettuali, tre specialmente producono la contemplazione infusa: i doni della scienza, dell'intelletto e della sapienza; gli altri sono detti attivi.
C) Se si studiano i doni in corrispondenza colle virtù da essi perfezionate:
§ II. Dei doni in particolare.
1321. 1° Natura. A) Il dono del consiglio perfeziona la virtù della prudenza, facendoci giudicare prontamente e sicuramente, per una specie di intuizione soprannaturale, ciò che conviene fare, specialmente nei casi difficili. Con la virtù della prudenza noi riflettiano e accuratamente ricerchiamo i mezzi migliori a conseguire uno scopo, giovandoci delle lezioni del passato e traendo partito dalle cognizioni presenti per prendere una savia risoluzione. Col dono del consiglio la cosa corre altrimenti: lo Spirito Santo ci parla al cuore e ci fa intendere in un istante quello che dobbiamo fare; onde si effettua la promessa di Nostro Signore agli apostoli: "Quando sarete posti nelle loro mani, non vi date pensiero di che o di come abbiate a parlare, perchè in quel punto vi sarà dato ciò che dovrete dire: nolite cogitare quomodo aut quid loquamini; dabitur enim vobis in illâ horâ quid loquamini" 1321-1. Questo appunto vediamo nel contegno di S. Pietro dopo la Pentecoste: arrestato dal Sinedrio, riceve ordine di non predicar più Gesù Cristo; ed egli subito risponde: "Obedire oportet Dei magis quam hominibus 1321-2: è meglio ubbidire a Dio che agli uomini".
Molti santi godettero del dono del consiglio. S. Antonino lo possedeva in sì alto grado che i posteri gli diedero il titolo di buon consigliere, Antoninus consiliorum; veniva infatti consultato non solo dai semplici fedeli, ma anche da uomini di Stato, specialmente da Cosimo dei Medici, che lo scelse più volte per ambasciatore. Ammiriamo pure questo dono in S. Caterina da Siena, la quale, benchè giovanissima e senza studi, dà savi consigli a principi, a Cardinali, agli stessi Sommi Pontefici; in S. Giovanna d'Arco che, ignara d'arte militare, forma piani di guerra ammirati dai migliori capitani, e indica ove attingesse la sua sapienza: "Voi siete stati al vostro consiglio, e io pure sono stata al mio".
1322. B) L'oggetto proprio del dono del consiglio è la buona direzione delle azioni particolari; i doni della scienza e dell'intelletto ci danno i principi generali; il dono del consiglio ce li fa applicare ai mille casi particolari che ci si presentano: i lumi dello Spirito Santo ci mostrano allora ciò che dobbiamo fare nel tempo, nel luogo e nelle circostanze in cui ci troviamo; e, se siamo incaricati di dirigere gli altri, quali consigli dobbiamo dare.
1323. 2° Necessità. A) A tutti questo dono è necessario in certi casi più importanti e più difficili, dove si tratta dell'eterna salute o della propria santificazione, per esempio nella vocazione o in certe occasioni di peccato che s'incontrano nell'esercizio del proprio ufficio. Essendo la ragione umana fallibile ed incerta nelle sue vie e non potendo procedere che lentamente, è necessario, nei momenti decisivi della vita, ricevere i lumi di questo divino Consigliere, che abbraccia tutto con un unico sguardo e che in tempo opportuno ci fa con sicurezza vedere ciò che dobbiamo fare in questa o quella difficile circostanza 1323-1. "Col dono del consiglio, dice Mons. Landrieux, l'anima cristiana ha il sicuro discernimento dei mezzi; vede la propria via; e la batte intrepida, per ardua e arida e ripugnante che sia... sapendo aspettar l'ora propizia" 1323-2.
B) Questo dono è necessario specialmente ai superiori e ai sacerdoti, così per la propria come per l'altrui santificazione. a) È talora così difficile saper conciliare la vita interiore con l'apostolato, l'affetto che si deve alle anime con la perfetta castità, la semplicità della colomba con la prudenza del serpente, che non è davvero di troppo un lume speciale dello Spirito Santo che suggerisca nel momento opportuno la condotta da tenere. b) Parimenti i Superiori, che devono far fedelmente osservare la regola e nello stesso tempo conservarsi la fiducia e l'affetto dei sudditi, hanno bisogno di molto discernimento per associare una giusta severità con la bontà, non moltiplicar le prescrizioni e gli avvisi e fare osservare la regola più per amore che per timore. c) Quanto ai direttori poi di qual lume non hanno bisogno per discernere ciò che conviene a ognuno dei loro diretti, conoscere i difetti e scegliere i mezzi migliori per riformarli; dar retto giudizio sulla vocazione e guidare ogni anima al grado di perfezione o al genere di vita a cui è chiamata!
1324. 3° Mezzi per coltivarlo. A) Per coltivar questo dono è necessario prima di tutto avere profondo sentimento della nostra impotenza e ricorrere spesso allo Spirito Santo perchè ci faccia conoscere le sue vie: "Vias tuas, Domine, demonstra mihi: et semitas tuas edoce me" 1324-1. Verrà allora o in un modo o in un altro ad illuminarci, perchè s'abbassa volentieri agli umili; principalmente se ci studiamo di invocarlo fin dal mattino per tutta la giornata, poi al principio delle principali azioni e specialmente nei casi difficili.
B) Bisogna pure abituarsi a prestare orecchio alla voce dello Spirito Santo, a giudicar tutto alla sua luce senza lasciarsi muovere da considerazioni umane, e a seguirne le minime ispirazioni; trovando l'anima arrendevole e docile le parlerà al cuore con molto maggior frequenza 1324-2.
1325. 1° Natura. Questo dono perfeziona la virtù della religione, che è annessa alla giustizia, producendo nel cuore un affetto filiale a Dio e una tenera devozione alle persone o alle cose divine, per farci compiere con santa premura i doveri religiosi.
La virtù della religione si acquista laboriosamente, il dono della pietà ci è comunicato dallo Spirito Santo.
A) Ci fa vedere in Dio non più soltanto il supremo Padrone, ma un ottimo e amantissimo Padre: "Accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus: Abba, Pater" 1325-1. Onde ci allarga l'anima con la confidenza e l'amore, senza escludere la debita riverenza.
Coltiva quindi in noi un triplice sentimenti: 1) Un rispetto filiale per Dio, che ce lo fa adorare con santa premura, come un Padre dilettissimo; onde le pratiche di pietà, in cambio di riuscire pesanti, diventano un bisogno dell'anima, uno slancio del cuore verso Dio. 2) Un amor tenero e generoso, che ci porta a sacrificarci per Dio e per la sua gloria, a fine di piacergli: "quæ placita sunt ei facio semper". Non è quindi una pietà egoista, che vada in cerca di consolazioni; una pietà inerte, che resti oziosa quando invece bisognerebbe operare; una pietà sentimentale, che cerchi soltanto emozioni e si perda in fantasticherie: è pietà virile, che manifesta l'amore facendo la divina volontà. 3) Un'affettuosa ubbidienza, che vede nei precetti e nei consigli la altamente sapiente e paterna espressione dei divini voleri su di noi; onde un santo abbandono nelle mani di questo amantissimo Padre, che conosce meglio di noi ciò che ci conviene e che non ci prova se non per purificarci e unirci a lui: "diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum" 1325-2.
1326. B) Questo stesso sentimento ci fa amare le persone e le cose che partecipano dell'essere divino e delle sue perfezioni.
1) Onde amiamo e veneriamo la SS. Vergine, perchè è Madre di Dio e Madre nostra (n. 155-156); riversiamo in lei qualche cosa della venerazione e dell'amore che abbiamo per Dio, essendo quella tra tutte le creature che meglio riflette le divine perfezioni. 2) Così pure amiamo e veneriamo negli Angeli e nei Santi un riflesso dei divini attributi. 3) La Sacra Scrittura diventa per noi la vera parola di Dio e come una lettera scrittaci dal Padre celeste, che ce ne comunica il pensiero e i disegni su di noi. 4) La Santa Chiesa è per noi la Sposa di Cristo, uscita dal sacro suo costato, che ne perpetua la missione sulla terra, rivestita dell'infallibile sua autorità; e la madre nostra che ci generò alla vita della grazia da lei alimentata coi sacramenti. Prendiamo quindi parte a tutto ciò che prossimamente la riguarda, ai suoi trionfi come alle sue umiliazioni; facciamo nostri tutti gli interessi suoi, lieti di poterli promuovere; ne compatiamo i dolori; abbiamo insomma per lei un amore filiale. Vi aggiungiamo pure una cordiale ubbidienza, persuasi come siamo che l'assoggettarci ai suoi precetti è un ubbidire a Dio stesso: "qui vos audit, me audit" 1326-1. 5) Il capo della Chiesa, il Sommo Pontefice, è per noi il luogotenente, il rappresentante visibile di Gesù Cristo sulla terra; onde riversiamo su lui la venerazione e l'amore che abbiamo pel capo invisibile della Chiesa e dolce ci torna l'ubbidire a lui come a Cristo stesso. 6) Questi sentimenti li proviamo pure verso i nostri superiori, in cui vediamo volentieri Gesù Cristo: "superiori meo imaginem Christi imposui"; e se Dio ci affida degli inferiori, abbiamo per loro quella filiale tenerezza che Dio ha per noi.
1327. 2° Necessità. A) Tutti i cristiani hanno bisogno di questo dono per adempiere lietamente e premurosamente i doveri di religione verso Dio, di rispettosa ubbidienza ai superiori e di condiscendenza cogli inferiori. Senza di esso tratterebbero con Dio come con un padrone: la preghiera riuscirebbe più un peso che una consolazione, le prove provvidenziali parrebbero castighi severi ed anche ingiusti. Per opera di questo dono, invece, Dio ci appare come Padre, a cui con filiale contento porgiamo i nostri ossequi e con dolce sottomissione baciamo quella mano che ci percuote solo per purificarci e unirci più intimamente a lui.
b) Non ci è meno necessario questo dono per trattare con bontà e dolcezza le persone che non ci fossero naturalmente simpatiche; ed avere paterna tenerezza per coloro che Dio si degna di affidarci, appropriandoci i sentimenti di S. Paolo, che nei discepoli suoi voleva formar Gesù Cristo: "Filioli mei, quos iterum parturio donec formetur Christus in vobis" 1328-1.
1329. 3° Mezzi per coltivar questo dono. A) Il primo è di meditar frequentemente quei bei testi della Sacra Scrittura che descrivono la bontà e la misericordia paterna di Dio, verso gli uomini e principalmente verso i giusti (n. 93-96). Il titolo di Padre è quello sotto cui si compiace di essere conosciuto ed amato, massime nella Nuova Legge; onde dobbiamo ricorrere a lui, in ogni difficoltà, con la premura e la confidenza di figli. Perciò amorosamente compiremo le pratiche di pietà, cercando prima di tutto il beneplacito di Dio e non la nostra consolazione.
B) Il secondo è di trasformare le azioni ordinarie in atti di religione, facendole per piacere al Padre celeste (n. 527); così l'intiera nostra vita diventa una preghiera, e quindi un atto di pietà filiale verso Dio e di fraterna pietà verso il prossimo. Onde mettiamo perfettamente in pratica la parola di S. Paolo: "Exerce teipsum ad pietatem... pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ quæ nunc est et futuræ: la pietà è utile a tutto: ha delle promesse per la vita presente e per la futura" 1329-1.
1330. 1° Natura. È un dono che perfeziona la virtù della fortezza, dando alla volontà un impulso e una energia che la rendono capace di operare o di patire lietamente e intrepidamente grandi cose, superando tutti gli ostacoli.
Differisce dalla virtù per questo che non deriva dai nostri sforzi aiutati dalla grazia, ma dall'azione dello Spirito Santo, che afferra l'anima dall'alto comunicandole particolare signorìa sulla facoltà inferiori e sulle esterne difficoltà. La virtù non toglie una certa esitazione e un certo timore degli ostacoli e dei cattivi successi; il dono vi sostituisce la risolutezza, la sicurezza, la letizia, la speranza certa della riuscita, onde produce i più grandi risultati. Ecco perchè si dice di S. Stefano che era pieno di fortezza, perchè era pieno di Spirito Santo: "Stephanus autem plenus gratiâ et fortitudine... cum autem esset plenus Spiritu Sancto" 1330-1.
1331. Operare e patire, in mezzo alle più spinose difficoltà e con sforzi talora eroici: tali sono i due atti a cui ci porta il dono della fortezza.
a) Operare, vale a dire intraprendere senza esitazione e timore le più ardue cose: per esempio, praticare perfetto raccoglimento in vita affaccendatissima, come fece S. Vincenzo de' Paoli o S. Teresa; serbare inviolata la castità fra le più pericolose occasioni, come S. Tommaso d'Aquino e San Carlo Borromeo; restar umili in mezzo agli onori, come S. Luigi; sfidare i pericoli, le noie, le fatiche, la morte, come S. Francesco Saverio; calpestare il rispetto umano e disprezzar gli onori, come S. Giovanni Crisostomo, che una sola cosa temeva, il peccato. b) Nè occorre minor fortezza per sopportare lunghe e dolorose malattie, come fece S. Liduina; o morali tribolazioni come quelle sostenute da certe anime nelle prove passive; o semplicemente per osservare tutta la vita, senza venirvi mai meno, tutti i punti della propria regola. Il martirio è reputato l'atto per eccellenza del dono della fortezza, e a ragione, perchè si dà per Dio il bene più caro che è la vita; ma versare il sangue a goccia a goccia, sacrificandosi intieramente per le anime, come fanno, dopo S. Paolo, tanti umili sacerdoti e tanti pii laici, è martirio ovvio a tutti e quasi altrettanto meritorio.
1332. 2° Necessità. È inutile insistere a lungo sulla necessità di questo dono. Abbiamo detto infatti, n. 360, che in molte circostanze per conservare lo stato di grazia occorre praticar l'eroismo. È appunto il dono della fortezza quello che ci fa generosamente compiere questi atti difficili.
Più necessario ancora è questo dono in certe professioni in cui si è obbligati ad esporsi a malattie e alla morte, per esempio al medico, al soldato, al sacerdote.
1333. 3° Mezzi per coltivarlo. A) Non provenendo da noi la nostra fortezza ma da Dio, è chiaro che si deve cercarla in lui, riconoscendo umilmente la nostra impotenza. La Provvidenza infatti si serve degli strumenti più deboli, purchè abbiano coscienza della loro debolezza e si appoggino su Colui che solo può fortificarli. Tal è il senso di quelle parole di S. Paolo 1333-1: "le folli cose del mondo elesse Dio per confondere i sapienti; e le impotenti del mondo elesse Dio per confondere le forti... e quelle che non sono per annientare quelle che sono: affinchè non si glorii persona alcuna dinanzi a Dio". Specialmente nella santa comunione possiamo attingere da Gesù la forza che ci occorre per trionfare di tutti gli ostacoli. S. Giovanni Crisostomo presenta i cristiani che, all'uscire dalla sacra mensa, sono forti come leoni, perchè partecipano della forza stesso di Cristo 1333-2.
1334. B) Bisogna pure attentamente cogliere le mille piccole circostanze in cui, perseverando nello sforzo, si può praticar la fortezza e la pazienza.
Così fanno quelli che lietamente si assoggettano da mane a sera a una regola, che si sforzano di essere devoti nelle preghiere e raccolti nel corso del giorno, che osservano il silenzio quando avrebbero voglia di chiacchierare, che schivano di guardare oggetti eccitanti la curiosità, che soffrono senza lagnarsi le intemperie delle stagioni, che si mostrano cortesi verso chi è loro naturalmente antipatico, che ricevono con pazienza e umiltà i rimproveri, che s'adattano ai gusti, ai desideri, agli umori altrui, che sopportano calmi la contraddizione, che si studiano insomma di trionfar delle piccole loro passioni e di vincere se stessi. Ora far tutto ciò non una volta sola, di passaggio, ma abitualmente, e farlo non solo pazientemente ma anche lietamente, è già eroismo; onde non sarà difficile essere eroici nelle grandi circostanze che poi si presenteranno 1334-1, perchè allora avremo con noi la fortezza stessa dello Spirito Santo: "Accipietis virtutem supervenientis Spiritus Sancti in vos et eritis mihi testes" 1334-2.
1335. 1° Natura. Qui non si tratta di quella paura di Dio che, al ricordarci dei nostri peccati, ci inquieta, ci attrista, ci conturba. Non si tratta neppure del timor dell'inferno, che basta per abbozzare una conversione ma non per dar compimento alla nostra santificazione. Si tratta del timore riverenziale e filiale che ci fa paventare ogni offesa di Dio.
Il dono del timore perfeziona nello stesso tempo le virtù della speranza e della temperanza: la virtù della speranza, facendoci paventare di dispiacere a Dio e di essere da lui separati; la virtù della temperanza, staccandoci dai falsi diletti che potrebbero farci perdere Dio.
Può quindi definirsi un dono che inclina la volontà al rispetto filiale di Dio, ci allontana dal peccato perchè gli dispiace, e ci fa sperare nel potente suo aiuto.
1336. Abbraccia tre atti principali: a) Un vivo sentimento della grandezza di Dio e quindi sommo orrore dei minimi peccati che ne offendono l'infinita maestà: "Non sai tu, figliuola mia, diceva il Signore a S. Caterina da Siena 1336-1, che tutte le pene che sostiene o può sostenere l'anima in questa vita, non sono sufficienti a punire una minima colpa? Perocchè l'offesa che è fatta a me, che sono Bene infinito, richiede soddisfazione infinita. E però io voglio che tu sappi che non tutte le pene che sono date in questa vita, sono date per punizione, ma per correzione". Cosa che avevano capito molto bene i Santi, i quali amaramente deploravano le colpe anche più lievi e non credevano di aver fatto mai abbastanza per ripararle. b) Una viva contrizione delle minime colpe commesse, perchè hanno offeso un Dio infinito e infinitamente buono; onde sorge un ardente desiderio di ripararle, moltiplicando gli atti di sacrificio e di amore 1336-2.
c) Una vigile cura di fuggire le occasioni di peccato come si fugge un serpente: "quasi a facie colubri fuge peccata" 1336-3; e quindi grande diligenza in voler conoscere in tutto il beneplacito di Dio per conformarvi la propria condotta.
È chiaro che, operando in questo modo, si perfeziona la virtù della temperanza con lo scansare i proibiti diletti, e quella della speranza con l'innalzare con filiale fiducia lo sguardo a Dio.
1337. 2° Necessità. A) Necessario è questo dono per evitare la troppa grande familiarità con Dio. Ci sono di quelli che, dimenticando facilmente la grandezza di Dio e l'infinita distanza che ci separa da lui, si prendono con Dio e colle cose sante sconvenienti libertà e gli parlano con troppa arditezza, trattando quasi alla pari con lui. È vero che Dio stesso invita certe anime a una dolce intimità e a una stupenda familiarità; ma sta a lui a farlo per il primo e non già a noi. Del resto il timore filiale non impedisce quella tenera familiarità che si vede in alcuni santi 1337-1.
B) Non meno utile è questo dono per preservarci, nelle relazioni col prossimo, massime con gli inferiori, da quel fare altezzoso e superbo che ha più dello spirito pagano che del cristiano; il timore riverenziale di Dio, che è nello stesso tempo padre loro e nostro, ci farà esercitare l'autorità in modo modesto, come conviene a chi la tiene non da sè ma da Dio.
1338. 3° Mezzi per coltivare questo dono. A) Bisogna meditare spesso l'infinita grandezza di Dio, i suoi attributi, il potere che ha su di noi; e considerare al lume della fede che cos'è il peccato, il quale, per lieve che sia, è pur sempre offesa all'infinita maestà di Dio. Non può darsi allora che non si concepisca un timore riverenziale per questo Sommo Padrone, che non finiamo mai di offendere: "confige timore tuo carnes meas; a judiciis enim tuis timui" 1338-1; e nel comparire dinanzi a lui ci sentiremo il cuore contrito ed umiliato.
B) A fomentar questo sentimento, è bene fare diligentemente gli esami di coscienza, eccitantosi più alla compunzione che alla minuziosa ricerca dei peccati: "cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies" 1338-2. A ottenere purità di cuore sempre più perfetta, conviene unirsi e incorporarsi ognor più a Gesù penitente; quanto più ne parteciperemo l'odio per il peccato e le umiliazioni, tanto più pieno sarà il perdono.
1339. Osservazioni sui tre doni intellettuali. Col dono della scienza siamo ai tre doni intellettuali che più direttamente concorrono alla contemplazione: il dono della scienza, che ci fa giudicar rettamente delle cose create nelle loro relazioni con Dio; il dono dell'intelletto, che ci palesa l'intima armonia delle verità rivelate; il dono della sapienza, che ce le fa giudicare, apprezzare, gustare, secundum quamdam connaturalitatem ad ipsas, come dice S. Tommaso 1339-1. Tutti e tre hanno questo di comune, che ci danno una conoscenza sperimentale o quasi sperimentale, perchè ci fanno conoscere le cose divine non per via di ragionamento ma per mezzo di un lume superiore che ce le fa afferrare come se ne avessimo l'esperienza. Questo lume comunicatoci dallo Spirito Santo è certamente il lume della fede, ma più attivo e più illuminante che non sia abitualmente e che ci dà come una specie di intuizione di queste verità, simile a quella che abbiamo dei primi principi 1339-2.
1340. 1° Natura. La scienza di cui qui parliamo, non è la scienza filosofica che si acquista colla ragione, neppure la scienza teologica che si acquista col lavorìo della ragione sui dati della fede, ma la scienza dei Santi che ci fa sanamente giudicar delle cose create nelle loro relazioni con Dio.
Si può quindi definire il dono della scienza un dono che, sotto l'azione illuminatrice dello Spirito Santo, perfeziona la virtù della fede, facendoci conoscere le cose create nelle loro relazioni con Dio.
Perchè, dice l'Olier 1340-1, "Dio è un essere che riempie ed occupa tutto. Apparisce sotto l'esterno di tutte le cose. Ci dice nei cieli e sulla terra qualche cosa di ciò che egli è... Onde in ogni creatura, che è come un sacramento delle perfezioni di Dio, dobbiamo adorare ciò ch'essa rappresenta... Ci sarebbe riuscito facile il farlo se non avessimo perduto la grazia di Adamo... ma il peccato ce la rapì, e non viene restituita in Gesù Cristo che alle anime molto pure, a cui la fede svela la maestà di Dio dovunque si trova... Questo lume della fede si chiama propriamente la scienza dei Santi; e, senza l'aiuto dei sensi, senza l'esperienza della ragione, mostra la dipendenza da Dio in cui ogni creatura si trova... È conoscenza che s'acquista senza fatica e in un istante. Con un solo sguardo si penetra la causa di tutte le cose e si trova in ognuna argomento di meditazione e di contemplazione perpetua".
1341. L'oggetto del dono della scienza sono dunque le cose create in quanto ci conducono a Dio.
a) Se ne consideriamo l'origine, le cose ci dicono che provengono da Dio che le creò e le conserva: "ipse fecit nos et non ipsi nos"; se ne studiamo la natura, vi scorgiamo un'immagine o un riflesso di Dio; il loro fine poi è di condurci a Dio: sono come gradini per salire a Lui.
Così guardavano le cose i Santi, specialmente S. Francesco d'Assisi. Considerava tutti gli esseri come aventi una comune relazione coll'unico Padre, e ognuno gli appariva come fratello nella grande faniglia del Padre celeste: il sole, la limpida acqua, i fiori, gli uccelli. "Vedendo l'incrollabile solidità e la potenza delle rupi, subito sentiva e riconosceva nel medesimo istante quanto è forte Dio e quale appoggio egli ci offre. L'aspetto di un fiore nella sua mattutina freschezza, o di beccucci aperti con ingenua confidenza in un nido di uccelli, gli rivelava la purità e la schietta bellezza di Dio, come pure la infinita tenerezza del cuore divino onde tutto questo procede. Sentiamo che riempiva Francesco di una specie di continua letizia alla vista e al pensiero di Dio, di un continuo desiderio di ringraziarlo" 1341-1.
Onde tal dono ci illumina sullo stato dell'anima nostra, sui segreti suoi moti, sui loro principi, sui loro motivi e sugli effetti che ne possono derivare. Ci insegna pure il modo di trattare col prossimo rispetto alla sua salute eterna; così il predicatore conosce con questo dono ciò che deve dire agli uditori per far loro del bene; il direttore in che modo deve guidare le anime, ognuna secondo i suoi bisogni spirituali e i moti della grazia, e questo in virtù di un lume che gli fa penetrare il fondo dei cuori: è il dono infuso del discernimento degli spiriti. Ecco perchè molti Santi, illuminati da Colui che scruta le reni e i cuori, conoscevano i pensieri più segreti dei penitenti prima ancora che li dichiarassero.
1342. 2° Utilità. È chiaro che questo dono è utilissimo ai semplici fedeli e specialmente ai religiosi e ai sacerdoti.
a Ci distacca dalle creature, mostrandoci quanto vane sono in se stesse, incapaci di renderci felici, e anche pericolose, perchè tendono a pervertirci con attirarci a sè e sedurci per sviarci da Dio. Così distaccati, ci inalziamo più facilmente verso Colui che solo può appagare tutte le aspirazioni del nostro cuore, e gridiamo col Salmista: "Oh! se avessi ali di colomba, volerei a riposarmi; fuggirei lontano lontano e abiterei nel deserto: quis mihi dabit pennas sicut columbæ et volabo et requiescam?" 1342-1.
b) Ci aiuta a usar bene delle creature, adoprandole come scalini per salire a Dio. Siamo portati da naturale istinto a goderne e tentati di farne il nostro fine; mercè di questo dono, non vediamo più in esse che ciò che Dio vi pose e da questo pallido riflesso delle divine bellezze assorgiamo alla bellezza infinita, ripetendo con S. Agostino: "O pulchritudo semper antiqua et semper nova, sero te cognovi, sero te amavi" 1342-2.
1343. 3° Mezzi per coltivarlo. a) Il gran mezzo è di aprir sempre gli occhi della fede nel guardar le creature: in cambio di fermarci a quest'ombre che passano, non è forse giusto assorgere alla Causa prima che si degnò di comunicar loro un'immagine delle sue perfezioni, e attaccarci a lei disprezzando utto il resto? Tanto faceva S. Paolo, che, preso d'amore per Gesù, scriveva: "Per lui io feci getto di tutto e tutto stimo lordura per guadagnar Cristo: propter quem omnia detrimentum feci et arbitror te stercora, ut Christum lucrifaciam" 1343-1.
b) Animati da questo spirito, sapremo privarci di tutto ciò che è inutile, e anche di qualche cosa utile, per esempio di uno sguardo, di una lettura, di un po' di cibo, per farne sacrificio a Dio. Ci distaccheremo così a poco a poco dalle creature per non veder più in esse che ciò che può condurci al loro autore.
1344. 1° Natura. Il dono dell'intelletto si distingue da quello della scienza perchè l'oggetto ne è molto più vasto: non si restringe alle sole cose create ma si estende a tutte le verità rivelate; inoltre lo sguardo ne è più profondo, facendoci penetrare (intus legere, legger dentro) l'intimo significato delle verità rivelate. Non ci fa certamente comprendere i misteri, ma ci fa capire che, non ostante la loro oscurità, sono credibili, che bene armonizzano tra loro e con ciò che vi è di più nobile nella umana ragione, onde conferma i motivi di credibilità.
Può dunque essere definito: un dono che, sotto l'azione illuminatrice dello Spirito Santo, ci dà una penetrante intuizione delle verità rivelate, senza però svelarcene il mistero. Il che si rileverà anche meglio dalla sua azione nell'anima.
1345. 2° Effetti. Questo dono produce in noi tre principali effetti:
A) Ci fa penetrare nell'intimo delle verità rivelate in sei modi diversi, come insegna S. Tommaso 1345-1:
1) Ci scuopre la sostanza nascosta sotto gli accidenti, per esempio Gesù sotto le specie eucaristiche; è quello che faceva dire al contadino di cui parla il Curato d'Ars: Io scorgo lui e lui scorge me.
2) Ci spiega il senso delle parole nascosto sotto la lettera, come fece Nostro Signore svelando ai discepoli de Emmaus il senso delle profezie. Quante volte lo Spirito Santo non fa comprendere alle anime interiori il senso profondo di questo o di quel passo della Sacra Scrittura!
3) Palesa l'arcano significato dei segni sensibili; così S. Paolo ci mostra nel battesimo d'immersione il simbolo della nostra morte al peccato, del nostro seppellimento e della nostra risurrezione spirituale insieme con Cristo.
4) Ci fa cogliere sotto le apparenze le realtà spirituali, mostrandoci, per esempio, nell'artigiano di Nazaret il Creatore del mondo.
5) Vediamo per mezzo suo gli effetti contenuti nella causa, per esempio nel sangue di Gesù versato sul Calvario la purificazione dell'anima nostra e la nostra riconciliazione con Dio; nel costato ferito di Gesù la nascita della Chiesa e dei sacramenti.
6) Vediamo pure per lui la causa negli effetti, come, per esempio, l'azione della Provvidenza negli esterni eventi.
1346. B) Questo dono ci mostra le verità rivelate sotto tal luce che, senza farcele comprendere, ci rassoda nella fede; come appunto dice S. Tommaso 1346-1: "Cognoscitur quod ea quæ exterius apparent veritati non contrariantur... quod non est recedendum ab iis quæ sunt fidei". In grado più alto, ci fa contemplar Dio, non con intuizione positiva immediata dell'essenza divina, ma mostrandoci ciò che Dio non è, come spiegheremo in appresso 1346-2.
C) Ci fa infine conoscere un maggior numero di verità, aiutandoci a dedurre dai principi rivelati le conclusioni teologiche che vi sono contenute. Così dalle parole: "Et verbum caro factum est et habitavit in nobis" si ricava quasi tutta la dottrina del Verbo Incarnato; e dal testo "ex qua natus est Jesus qui vocatur Christus" si deduce tutta la teologia Mariana.
Questo dono quindi, così utile ai fedeli, è specialmente giovevole ai sacerdoti e ai teologi per dar loro l'intelligenza delle verità rivelate che devono spiegare ai discepoli.
1347. 3° Cultura del dono dell'intelletto. A) La principale disposizione necessaria a ottenerlo è una fede viva e semplice che umilmente sollecita i lumi divini onde afferrar meglio le verità rivelate: "Da mihi intellectum et discam mandata tua" 1347-1. Così usava S. Anselmo, cercando, dopo un atto di viva fede, l'intelligenza dei misteri, secondo la sua massima "fides quærens intellectum": la fede è via a capire le verità soprannaturali.
B) Dopo un tal atto di fede, bisogna abituarsi a penetrar più che si può nel cuore del mistero, non già per comprenderlo (il che è impossibile), ma per coglierne il senso, l'ampiezza, l'analogia colla ragione; e, studiato un certo numero di misteri, se ne fa il confronto, onde scaturisce spesso viva luce su ognuno di essi; così l'ufficio del Verbo nella SS. Trinità fa capir meglio il mistero della sua unione colla natura umana e l'opera sua redentrice; e a loro volta l'Incarnazione e la Redenzione diffondono nuova luce sui divini attributi e sulle rivelazioni che corrono tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma, a meglio intendere queste verità, bisogna amarle e studiarle più col cuore che con la mente, soprattutto poi con umiltà. Ce lo dice Nostro Signore nella bella preghiera rivolta al Padre: "Io ti lodo, o Padre, Signore del cielo e della terra, perchè nascondesti queste cose ai dotti e ai saputi e le hai rivelate ai parvoli" 1347-2.
VII. Il dono della sapienza 1348-1.
Ne esporremo la natura, gli effetti, i mezzi di coltivarlo.
1348. 1° Natura. È un dono che perfeziona la virtù della carità, e risiede nello stesso tempo nell'intelletto e nella volontà perchè effonde nell'anima luce ed amore. Onde viene meritamente considerato come il più perfetto dei doni, quello in cui si compendiano tutti gli altri, a quel modo che la carità comprende tutte le virtù.
A) S. Bernardo lo chiama la saporosa cognizione delle cose divine. Vi è dunque un doppio elemento nel dono della sapienza: 1) una luce, che illumina l'intelletto e gli fa pronunziar retti giudizi su Dio e sulle cose create, queste riconducendo al loro primo principio e al loro ultimo fine; onde ci aiuta a giudicar delle cose partendo dalle supreme loro cause e a ridurle all'unità in una vasta sintesi divina; 2) un gusto soprannaturale, che opera sulla volontà facendole assaporare le cose divine per una specie di arcana connaturalità o simpatia.
Un paragone ci farà capir meglio questo doppio ufficio: è, come il raggio del sole, raggio di luce che illumina e allieta gli occhi dell'anima e raggio di calore che riscalda il cuore, infiammandolo di amore e colmandolo di gaudio.
1349. B) Il dono della sapienza si può quindi definire un dono che, perfezionando le virtù della carità, ci fa discernere e giudicar Dio e le cose divine nei loro più alti principi e ce li fa gustare.
Differisce quindi dal dono dell'intelletto, che ci fa conoscere le verità divine in se stesse e nelle mutue loro relazioni ma non nelle loro cause più alte, e che non ce le fa amare e assaporare: "gustate et videte quoniam suavis est Dominus" 1349-1.
È questo il dono che fa abbracciare a S. Paolo con un solo sguardo il divino disegno della Redenzione e vedervi la gloria di Dio come causa finale primaria, il Verbo Incarnato come causa meritoria ed esemplare, la beatitudine degli eletti come causa finale secondaria, la grazia divina come causa formale; ponendogli sul labbro quel cantico di ringraziamento: "Benedictus Deus et Pater Domini nostri Jesu Christi..." 1349-2.
Mercè di questo dono, S. Giovanni riduca tutta la teologia al mistero della vita divina, di cui l'amore è nello stesso tempo principio e termine: Deus caritas est; e S. Tommaso compendia tutta la Somma in quest'unico pensiero: Dio è nello stesso tempo il primo principio da cui tutte le creature escono, l'ultimo fine a cui tutte ritornano e la via che seguono nel ritornare a Lui 1349-3.
1350. 2° Effetti del dono della sapienza. Oltre l'aumento di carità che produce nell'anima, questo dono perfeziona tutte le altre virtù:
a) Rende incrollabile la fede con la cognizione quasi sperimentale che ci dà delle verità rivelate; così, quando uno ha lungamente assaporato le delizie della comunione, come potrebbe più dubitare della presenza reale? b) Rassoda la speranza; quando si è inteso e gustato il dogma della nostra incorporazione a Cristo, come non sperare, dacchè il nostro Capo è già in cielo e i santi che sono nostri fratelli già regnano con lui nella patria beata? c) Ci fa perfettamente praticare le virtù morali; poichè, quando si sono assaporate le delizie dell'amor di Dio, quelle della terra non hanno più sapore per noi; si ama la croce, la mortificazione, lo sforzo, la temperanza, l'umiltà, la dolcezza, essendo queste virtù altrettanti mezzi per maggiormente assomigliare ad Diletto e dimostrargli il nostro amore.
Vi è quindi tra il dono della Sapienza e il dono dell'intelletto la differenza che questo è uno sguardo della mente e quello un esperimento del cuore; l'uno è luce e l'altro è amore; armonizzandosi così e integrandosi insieme. Il più perfetto però è il dono della sapienza, perchè il cuore va più lontano della mente, ha penetrazione maggiore e capisce o indovina ciò che la ragione non afferra; e, specialmente nei Santi, l'amore supera spesso la cognizione.
1351. 3° Mezzi per coltivarlo. A) Essendo la sapienza uno dei doni più preziosi, bisogna ardentemente desiderarlo, chiederlo con insistenza e cercarlo con instancabile ardore.
È quanto ci viene consigliato dal libro della sapienza, che vuole che la prendiamo in isposa e a compagna di tutta la vita, e ci suggerisce una bella preghiera per ottenerla:
"Dio de' miei padri e Signore pietoso,
Con Te sta la Sapienza, che ben conosce le opere tue
Mandala dai santi cieli
Tu che hai creato ogni cosa con la tua parola,
e con la tua sapienza hai formato l'uomo,
affinchè domini le creature da Te fatte,
e governi il mondo con santità e giustizia
e con animo retto sentenzi in giudizio;
dammi la Sapienza, che siede in trono accanto a Te,
e non mi escludere dal novero dei tuoi figli;
perchè io sono tuo servo e figlio della tua ancella,
uomo fragile e di corta vita
e scarso nell'intelligenza del diritto e delle leggi.
ed era presente quando creavi il mondo,
e sa qual cosa Ti sia gradita
e quale retta secondo i tuoi comandi.
e dal trono della tua maestà inviala,
affinchè mi assista nei miei lavori,
e mi faccia sapere qual cosa Ti sia più gradita;
perchè essa tutto conosce ed intende
e mi guiderà saggiamente nelle mie imprese,
e mi proteggerà con la sua grandezza;
onde saranno accette le opere mie,
e governerò il tuo popolo con giustizia
e sarò degno del trono del padre mio" 1351-1.
1352. C) Facendoci questo dono gustare le cose divine, dobbiamo da parte nostra abituarci ad amare e gustare queste divine cose, memori che vana è ogni cognizione che non conduca all'amore. Ma poi come non amare questo Dio che è infinita bellezza e bonta infinita? "Gustate et videte quoniam suavis est Dominus" 1352-1. Ed essendo le cose divine una partecipazione della bellezza e della bontà di Dio, non è possibile amare e gustar Dio senza che quest'amore rifluisca su ciò che ne partecipa le perfezioni.
§ III. Ufficio dei doni nell'orazione e nella contemplazione.
Risulta da quanto abbiamo detto che l'esercizio dei doni ci è di grande aiuto nell'orazione.
1353. 1° Prima ancora di giungere al pieno sviluppo, i doni, appena incominciamo a coltivarli, aggiungono la loro luce e la loro influenza a quella delle virtù per agevolarci l'orazione. Senza porci nello stato passivo o mistico, ci indociliscono già l'anima e ce la rendono più sensibile all'azione dello Spirito Santo.
Tal è l'insegnamento comune dei teologi, compendiato nelle seguenti parole del Meynard 1353-1; il quale, menzionata l'opinione di alcuni autori stimanti che i doni dello Spirito Santo, esclusivamente riservati agli atti eroici, restino inoperosi nella pratica delle virtù ordinarie, dice: "La loro azione parimente si estende a una quantità di circostanze in cui la volontà di Dio richiede da noi una certa prontezza e una maggiore docilità nella pratica delle virtù ordinarie della vita cristiana, per esempio, quando si tratta di liberarsi dai vizi, di domar le passioni, di resistere alle tentazioni della carne, del mondo e del demonio, massime quando la debolezza e la fragilità della persona richiedono più pieno e più efficace aiuto, e quindi un principio d'azione più alto. Quest'ultima opinione, che noi crediamo esser la vera, si fonda sulla considerazione che i doni non producono opere di un genere particolare e distinto dalle virtù, ma ci vengono puramente in aiuto onde praticare tutte le virtù in modo più pronto e più facile". Ora se i doni dello Spirito Santo intervengono nella pratica delle virtù ordinarie, ci agevolano pure l'orazione, che è atto della virtù della religione e uno dei mezzi più efficaci a praticar le virtù.
1354. 2° A più forte ragione questi doni ci aiutano nella contemplazione attiva, che è una specie di affettuosa intuizione della verità. È proprio infatti dei doni dell'intelletto e della sapienza, anche prima della piena loro fioritura, di agevolare questo semplice sguardo della fede col renderci l'intelletto più penetrante e più ardente l'amore 1354-1. La loro azione, senza metterci ancora nello stato mistico, è già più frequente e più efficace che non nell'orazione ordinaria; il che spiega in che modo l'anima nostra può più lungamente e più affettuosamente fissar lo sguardo su una sola e medesima verità.
1355. 3° Ma sopratutto nella contemplazione infusa hanno i doni ufficio importante: giunti alla piena loro fioritura, comunicano all'anima una mirabile arrendevolezza che la rende atta allo stato mistico o contemplativo.
A) Tre specialmente, il dono della scienza, dell'intelletto e della sapienza, concorrono alla contemplazione.
Spieghiamo meglio il nostro pensiero: a) i principi elicitivi della contemplazione sono, propriamente parlando, le nostre facoltà superiori, intelletto e volontà, perfezionate e trasformate dalle virtù teologali e dai doni e mosse della grazia attuale operante; i doni infatti vengono innestati sulle facoltà, ond'è che facoltà e doni concorrono indivisibilmente al medesimo atto. Queste facoltà, così trasformate, costituiscono i principi elicitivi della contemplazione, ossia la fonte prossima onde scaturiscono, sotto l'azione della grazia operante, gli atti della contemplazione; come l'intelletto, perfezionato dalla virtù della fede, è il principio elicitivo degli atti di fede.
b) Tutti i teologi ammettono che i doni dell'intelletto e della sapienza costituiscono i principi elicitivi della contemplazione; ma alcuni escludono da quest'ufficio il dono della scienza. Noi però crediamo, con la maggioranza degli autori, che non si debba escludere; perchè la contemplazione parte talora dalle creature, e il dono della scienza interviene allora per farci vedere l'immagine di Dio nelle creature.
"Dio, dice S. Giovanni della Croce 1355-1, lasciò in ognuna delle sue creature un vestigio di ciò che egli è non solo creandole dal nulla, ma dotandole pure di innumerevoli grazie e proprietà. E ne accrebbe la bellezza col mirabile ordine e coll'indefettibile dipendenza che mutuamente le collega... Le creature sono un vestigio del passaggio di Dio, onde se ne rintraccia la grandezza, la potenza, la sapienza e gli altri divini attributi". Ora è proprio del dono della scienza innalzarci dalle creature al Creatore e palesarci la bellezza di Dio ascosa [sic] sotto i simboli visibili.
1356. B) Questi tre doni si prestano mutua cooperazione e lavorano o tutti insieme o l'un dopo l'altro nella stessa contemplazione.
a) Così il dono della scienza ci innalza dalle creature a Dio per unirci a lui: 1) è accompagnato da un lume infuso con cui chiaramente vediamo il nulla di tutto ciò che il mondo cerca, onori, ricchezze, piaceri; il pregio del dolore e delle umiliazioni come mezzi per andare a Dio e glorificarlo; e il riflesso delle divine perfezioni ascoso nelle creature, ecc.
2) Lume accompagnato da una grazia che opera sulla volontà per distaccarla dalle creature e aiutarla a non servirsene che come scalini per salire a Dio.
b) Il dono dell'intelletto ci fa penetrare più oltre: mostrandoci le arcane armonie che corrono tra l'anima nostra e Dio, tra le verità rivelate e le più profonde nostre aspirazioni, come pure le mutue relazioni di queste verità, ci fissa la mente e il cuore sulla vita intima di Dio, sulle sue operazioni immanenti, sui misteri della Trinità, dell'Incarnazione o della grazia, e ce li fa ammirare in sè e nelle mutue loro relazioni, così che stentiamo poi a staccarne la mente e il cuore. Ruysbroeck lo paragona alla luce del sole 1356-1: il sole riempie coi suoi raggi l'aria di luce semplice e pura; illumina ogni forma ed ogni figura e fa distinguere tutti i colori. Così questo dono penetra nella mente e vi produce la semplicità; semplicità che è attraversata da raggi di singolare chiarezza; onde diventiamo capaci di ricevere la cognizione dei sublimi attributi che sono in Dio e che sono l'origine di tutte le sue opere.
c) Il dono della sapienza, facendoci valutar tutto per rispetto a Dio e assaporare le cose divine, fissa anche più amorosamente la nostra mente e il nostro cuore sull'oggetto contemplato, attaccando a lui con maggiore costanza e ardore. Ruysbroeck 1356-2 così descrive il sapore prodotto da questo dono: "Questo sapore è così forte che pare all'anima che il cielo e la terra e tutto ciò che essi contengono debbano fondersi e annientarsi in questo inscrutabile sapore. Delizie che sono di sopra e di sotto (cioè nelle facoltà superiori e nelle facoltà inferiori) di dentro e di fuori, abbracciando e penetrando l'intiero regno dell'anima. Quindi l'intelletto contempla la semplicità da cui derivano tutte queste delizie. Onde poi la ragione illuminata si mette a far considerzioni; ma sa bene che questi ineffabili delizie sfuggiranno sempre alla sua conoscenza; perchè la sua considerazione si fa alla luce d'un lume creato, mentre queste delizie sono senza misura. Ond'è che la ragione in questa considerazione vien meno; ma l'intelletto, che mercè di questa illimitata chiarità è trasformato, contempla e fissa continuamente l'incomprensibile gaudio della beatitudine".
1357. C) Gli altri quattro doni, senza aver nella contemplazione ufficio così importante, vi concorrono anch'essi parzialmente in due maniere:
a) Vi ci dispongono contribuendo essi pure a rendere l'anima più arrendevole e più docile all'azione della Spirito Santo; b) vi cooperano, eccitando nel cuore pii affetti che alimentano la contemplazione; così il dono del timore ci dà sentimenti di compunzione e di distacco dalle creature; il dono della pietà, sentimenti di filiale amore; il dono della fortezza, sentimenti di generosità e costanza; il dono del consiglio ci rende capaci di applicare a noi e agli altri i lumi ricevuti dallo Spirito Santo.
1358. Un certo numero di Padri e di teologi, come pure molti autori mistici, parlano di cinque sensi spirituali 1358-1, simili ai cinque sensi immaginativi di cui abbiamo già parlato al n. 992.
Ecco il bel testo in cui S. Agostino li descrive 1358-2: "Che amo, io dunque, o mio Dio, quando ti amo?... amo certa luce, certa voce, certo odore, certo cibo, certo amplesso, allorchè amo il mio Dio, luce, voce, odore, cibo, amplesso all'interno mio senso; dove all'anima mia risplende ciò cui spazio non contiene, dove risuona ciò che il tempo non dilegua, dove olezza ciò che l'aure non dissipano, dove si assapora ciò che l'edacità non iscema, dove congiungesi ciò che la sazietà non ributta. Questo è ch'io amo, quando amo il mio Dio".
Ora che devesi intendere per questi sensi spirituali? A parer nostro, altro non sono che funzioni od operazioni dei doni dello Spirito Santo, specialmente dei doni dell'intelletto e della sapienza. Così i sensi spirituali della vista e dell'udito si riferiscono al dono dell'intelletto che ci fa veder Dio e le cose divine, n. 1341, e ascoltar Dio che ci parla al cuore. Gi altri tre sensi si riferiscono al dono della sapienza, che ci fa gustare Dio, respirare e odorare il profumo delle sue perfezioni, e venire a contatto con lui per mezzo d'una specie di stretta e di amplesso spirituale che altro non è se non un amore sperimentale di Dio.
Si concilia in tal modo su questo punto la dottrina di S. Agostino e di S. Tommaso, del P. Poulain e del P. Garrigou-Lagrange.
§ IV. Dei frutti dello Spirito Santo e delle beatitudini.
Coi doni si connettono i frutti dello Spirito Santo e le beatitudini, che vi corrispondono e li compiono, come pure le grazie gratuitamente date (gratiæ gratis datæ) che hanno coi doni una certa analogia, n. 1314.
I. I frutti dello Spirito Santo.
1359. Quando un'anima corrisponde fedelmente alle grazie attuali che mettono in moto le virtù e i doni, produce atti di virtù, imperfetti e penosi, a principio, poi migliori e più saporiti, che riempiono il cuore di gaudio santo. Sono questi i frutti dello Spirito Santo, che si possono definire: atti virtuosi che sono giunti a una certa perfezione e che riempiono l'anima di santo gaudio.
S. Paolo ne enumera nove: la carità, il gaudio, la pace, la pazienza, la mansuetudine, la bontà, la fedeltà, la dolcezza e la temperanza 1359-1. Ma non è a credere che ne abbia voluto dare una lista completa; onde S. Tommaso fa giustamente osservare che è un numero simbolico, il quale indica veramente tutti gli atti di virtù in cui l'anima trova consolazione spirituale: "Sunt fructus quæcumque virtuosa opera in quibus homo delectatur".
1360. I frutti si distinguono dalle virtù e dai doni come l'atto si distingue dalla potenza. Non tutti però gli atti di virtù meritano il nome di frutti, ma quelli soltanto che sono accompagnati da una certa spirituale soavità. A principio gli atti di virtù esigono spesso molti sforzi e hanno talora un certa asprezza come il frutto non ancor maturo. Ma quando uno si è lungamente esercitato nella pratica delle virtù, acquista la facilità di produrne gli atti, li fa senza penosi sforzi, anzi con diletto come gli atti degli abiti acquisiti; prendono allora il nome di frutti.
I frutti quindi si ottengono col coltivare le virtù e i doni, e coi frutti vengono le beatitudini, preludio della beatitudine eterna.
1361. Le beatitudini sono l'ultima corona dell'opera divina in noi. Come i frutti, sono anch'esse atti, ma di tal perfezione che paiono procedere dai doni anzichè dalle virtù 1361-1; sono frutti, ma di maturità così perfetta, che ci danno già una pregustazione della celeste beatitudine; onde il nome di beatitudini.
Nostro Signore, nel discorso del Monte, le riduce a otto; la povertà di spirito, la dolcezza, le lagrime, la fame e la sete della giustizia, la misericordia, la purità di cuore, la pazienza in mezzo alle persecuzioni. Ma anche qui si può dire che è numero simbolico e che non ha nulla di esclusivo.
Queste beatitudini non indicano la assoluta e perfetta felicità; sono piuttosto mezzi per giungere alla beatitudine eterna e mezzi efficacissimi; perchè quando lietamente si abbraccia la povertà, la dolcezza, la purità, l'umiliazione, quando uno sa dominare se stesso fino al punto di pregare per i nemici e di amare la Croce, si imita allora perfettamente Nostro Signore, e si fanno rapidi passi nelle vie della perfezione.
1362. Conclusione. I doni dello Spirito Santo, sapendoli coltivare, c'introducono nella via unitiva. 1) Ci fanno infatto praticar tutte le virtù, morali e teologali, nel più alto grado, onde ci uniscono a Dio trasformandoci a poco a poco in Lui e facendocene imitare le divine perfezioni. 2) Pongono nell'anima quell'arrendevolezza e quella docilità per cui lo Spirito Santo s'impossessa di lei e vi opera liberamente. Sotto l'influsso latente di questi doni e talora pure con la palese loro cooperazione si fa l'orazione di semplicità di cui ora tratteremo.
ART. II. L'ORAZIONE DI SEMPLICITÀ 1363-1.
1363. L'orazione di semplicità, come la disse Bossuet, era conosciuta assai prima di lui, e portava vari nomi che è bene qui richiamare.
1) S. Teresa la chiama orazione di raccoglimento; e si deve intendere raccoglimento attivo, in opposizione al raccoglimento passivo di cui parleremo nel secondo capitolo; l'anima vi raccoglie le varie sue facoltà per concentrarle su Dio, ascoltarlo ed amarlo.
2) Molti la chiamano orazione di semplice sguardo, di semplice presenza di Dio, o di semplice abbandono in Dio, oppure una semplice vista di fede, perchè l'anima fissa affettuosamente lo sguardo su Dio, si tiene alla sua presenza, s'abbandona nelle sue mani e con una semplice vista di fede lo guarda e lo ama.
3) Bossuet la chiama orazione di semplicità, perchè ci fa semplificar tutto, ragionamenti e affetti della orazione, anzi tutta quanta la vita.
4) I Carmelitani, e con loro molti autori dal secolo XVII in qua, la chiamano contemplazione acquisita per distinguerla dalla contemplazione infusa.
§ I. Natura dell'orazione di semplicità.
1364. Bossuet descrisse molto bene quest'orazione:
"Bisogna abituarsi a nutrir l'anima con un semplice e amoroso sguardo in Dio e in Nostro Signore Gesù Cristo; a tal effetto bisogna dolcemente separarla dal ragionamento, dal discorso e dalla moltitudine degli affetti, per tenerla in semplicità, in rispetto, in attenzione, e avvicinarsi così sempre più a Dio, suo primo principio e suo ultimo fine... La meditazione è molto buona a suo tempo, e molto utile al principio della vita spirituale; ma non bisogna fissarvisi, perchè l'anima, colla sua fedeltà a mortificarsi e a raccogliersi, riceve d'ordinario un'orazione più pura e più intima, che si può chiamare di semplicità, la quale consiste in una semplice vista, sguardo o attenzione amorosa in sè, verso qualche oggetto divino, che può essere Dio in se stesso, o alcuno dei suoi misteri, o altre verità cristiane. L'anima dunque, lasciando il ragionamento, si serve di una dolce contemplazione che la tiene quieta, attenta e capace delle operazioni e impressioni divine che lo Spirito Santo le comunica; fa poco e riceve molto; dolce è il suo lavoro, eppure più fruttuoso; e poichè ella si fa più presso alla fonte di ogni luce, di ogni grazia e di ogni virtù. glie se ne dà pure in maggior copia".
1365. 1° La prima semplificazione è la diminuzione, poi la soppressione dei ragionamenti, che tenevano sì gran posto nella meditazione degl'incipienti. Obbligati ad acquistare profonde convinzioni e poco abituati del resto a pii affetti, avevano bisogno di lungamente riflettere sulle verità fondamentali della religione e sulle loro relazioni con la vita spirituale, sulla natura e sulla necessità delle principali virtù cristiane e sui mezzi di praticarle, prima di poter far scaturire dal cuore sentimenti di riconoscenza e d'amore, di contrizione, di umiliazione e di fermo proponimento, di ardenti e continuate preghiere. a) Ma viene poi il tempo in cui queste convinzioni si radicano talmente nell'anima, da far parte, a così dire, della nostra mentalità abituale, onde bastano pochi minuti per richiamarle alla mente. Nascono allora prontamente e facilmente i pii affetti di cui parliamo e l'orazione diventa affettiva.
1366. b) Più tardi si fa un'altra semplificazione: i pochi minuti di riflessione sono sostituiti da uno sguardo intuitivo dell'intelletto. A quel modo che conosciamo senza difficoltà e per una specie d'intuizione i primi principi, così, quando abbiamo per lungo tempo meditato sulle verità fondamentali della vita spirituale, esse diventano per noi certe e fulgide come i primi principi, e noi, con uno sguardo complessivo, facilmente e giocondamente le afferriamo, senza bisogno di farne minuziosa analisi. Così l'idea di padre applicata a Dio, che a principio aveva bisogno di lunghe riflessioni per darcene tutti il contenuto, ora con un solo sguardo ci si fa così ricca e così feconda, che vi ci fermiamo sopra lungamente e amorosamente ad assaporarne i molteplici elementi.
c) Avviene anche qualche volta che l'anima si contenta d'uno sguardo confuso su Dio o sulle cose divine, che pure la tiene dolcemente e affettuosamente alla presenza di Dio e la rende vie più docile all'azione dello Spirito Santo; e allora, senza moltiplicare atti di intelletto o di volontà, s'abbandona a Dio per eseguirne gli ordini.
1367. 2° Pari semplificazione avviene negli affetti. Erano a principio numerosi, vari e in rapida vicenda: amore, gratitudine, gioia, compassione, dolore dei peccati, desiderio di far meglio, domanda d'aiuto, ecc. a) Ma presto un solo è medesimo affetto dura cinque, dieci minuti; l'idea di Dio Padre nostro, per esempio, eccita nel cuore un amore intenso che, senza esprimersi in molte parole, alimenta per alcuni minuti tutta l'anima, la penetra e vi produce generose disposizioni. Non basterà certo a occupar da solo tutto il tempo della orazione e bisognerà passare ad altri affetti per non cadere in distrazioni o in una specie d'oziosità; ma ognuno vi terrà posto così ampio da non doverli moltiplicare come per lo passato.
1368. b) Tra gli affetti qualcuno finisce poi con dominare e tornar continuamente alla mente e al cuore; il suo oggetto diventa come quello d'una idea fissa, attorno alla quale gravitano certo altre idee ma poche e subordinate. Per gli uni sarà la Passione di Nostro Signore, coi sentimenti di amore e di sacrifizio che le si accompagnano: dilexit me et tradidit semetipsum pro me 1368-1. Per gli altri sarà Gesù vivente nell'Eucaristia che diverrà centro dei pensieri e degli affetti, onde ripeteranno continuamente: Adoro te devote, latens Deitas. Ci sono di quelli che vengono vivamente presi dal pensiero di Dio presente nell'anima e che non pensano che a glorificarlo in tutto il corso del giorno: "Apud eum veniemus et mansionem apud eum faciemus... templum Dei sanctum est, quod estis vos... glorificate et portate Deum in corpore vestro" 1368-2.
Questo fatto è molto bene spiegato dal P. Massoulié 1368-3: "Quando l'anima si fa a considerare che non solo ha l'onore di essere alla presenza di Dio, ma anche la fortuna di possederlo in se stessa, questo pensiero le fa viva impressione e la fa entrare in profondo raccoglimento. Ella guarda questo Dio di amore e di maestà e tutta l'adorabile Trinità che si degna di entrare in lei e abitarvi come in suo tempio. Lo guarda con somma compiacenza, gioisce di gaudio in possederlo e vi trova riposo ineffabile vedendo sodisfatti tutti i suoi desideri, quanto è consentito sulla terra: che cosa infatti può l'anima desiderare e sperare di più grande che posseder Dio?
1369. 3° Questa semplificazione si estende ben presto a tutta la vita: "La pratica di quest'orazione, dice Bossuet, deve cominciare fin dal primo svegliarsi, facendo un atto di fede in Dio presente da per tutto, e in Gesù Cristo, il cui sguardo, quand'anche fossimo inabissati nel centro della terra, non ci lascia mai". E continua per tutta la giornata. Pur attendendo agli ordinari doveri, uno sta unito a Dio, lo guarda ed ama. Nelle preghiere liturgiche e in quelle vocali si bada più alla presenza di Dio vivente in noi che al senso particolare delle parole, e si cerca prima di tutto di dimostrargli il proprio amore. Anche gli esami di coscienza si semplificano: si vedono con rapido sguardo le proprie colpe appena commesse e subito si detestano. Gli studi e le esterne opere di zelo si fanno in ispirito di preghiera, alla presenza di Dio, col desiderio ardente di glorificarlo, ad majorem Dei gloriam. Anche le azioni più comuni sono compenetrate di spirito di fede e di amore, onde diventano ostie frequentemente offerte a Dio, "offerre spirituales hostias acceptabiles Deo" 1369-1.
§ II. Vantaggi dell'orazione di semplicità.
1370. Il grande vantaggio di quest'orazione sta in ciò che per lei tutta la vita è ridotta ad unità, accostandosi così alla vita divina, per la maggior gloria di Dio e pel bene spirituale dell'anima.
1° Dio è glorificato in tutta la giornata. Quest'abituale e affettuoso sguardo dell'anima a Dio, ce lo fa conoscere e amare meglio di tutte le considerazioni; uno dimentica se stesso e a più forte ragione dimentica le creature, o almeno non le vede se non in relazione a Dio, sotto l'influsso del dono della scienza, n. 1341. La vita quindi riesce un continuo atto di religione, un atto di riconoscenza e di amore che ci fa ripetere con Maria: "L'anima mia glorifica il Signore: magnificat anima mea Dominum".
1371. 2° Onde anche l'anima viene santificata. a) Concentrando per notevole tempo l'attenzione su una verità, ella impara a conoscer meglio Dio, ed essendo questo sguardo accompagnato da amore, lo ama di più intenso amore e si unisce a lui in modo più intimo, attirando così in sè le perfezioni divine e le virtù di Nostro Signore.
b) Allora il distacco riesce più agevole: quando si pensa abitualmente a Dio, le creature non ci appaiono più come scalini per salire al Creatore; piene di imperfezioni e di miserie, non hanno valore se non in quanto riflettono le divine perfezioni e ci ammoniscono di rifarci alla fonte d'ogni bene.
c) L'umiltà diventa più facile: al lume divino, si vede chiaramente il proprio nulla e i propri peccati, e si è lieti di potere, coll'umile confessione delle colpe, glorificar Colui che solo merita ogni onore ed ogni gloria: Soli Deo honor et gloria, mihi autem ignominia et confusio. In cambio di anteporsi al prossimo, uno si considera come l'ultimo dei peccatori, pronto ad amorosamente soffrire tutte le prove e tutte le umiliazioni.
Si può quindi in tutta verità dire che l'orazione di semplicità ci aiuta in modo singolare a glorificar Dio e a santificarci l'anima.
1373. b) Altri obiettano che concentrare a questo modo l'attenzione su un'idea fissa è uno stancarsi la testa ed entrare in eccessiva tensione di mente. Ci sarebbe certo un vero pericolo per chi volesse mettersi a questo genere di orazione prima d'esservisi preparato e mantenervisi a furia di sforzi di testa. Ma è appunto questo che bisogna evitare, dice Bossuet 1373-1: "Bisogna badare di non martoriarsi il capo e neppure di eccitar troppo il cuore; ma prendere con umiltà e semplicità ciò che si presenta allo sguardo dell'anima, senza quegli sforzi violenti che sono più fantastici che reali e profondi; lasciarsi trarre dolcemente a Dio, abbandonandosi al suo spirito". Non si tratta quindi di fare sforzi violenti, ma di assecondar dolcemente i moti della grazia, ed esaurito un pensiero, passare ad un altro, senza volersi ostinare nel primo. Allora l'orazione di semplicità, in cambio di riuscir faticosa, è dolce riposo dell'anima che si abbandona all'azione dello Spirito Santo. Il che del resto si capirà meglio vedendo in che modo si fa questa orazione.
§ III. Modo di fare l'orazione di semplicità.
1374. 1° Della chiamata a questo genere d'orazione. Per fare l'orazione di semplicità in modo abituale, bisogna aver le condizioni indicate per la via unitiva, n. 1296. Se però si tratti di darsi solo di tanto in tanto a questo genere d'orazione, basta sentirvisi attirato dalla grazia di Dio.
Si possono del resto ridurre a due i segni distintivi della chiamata divina a quest'orazione: a) un certo disgusto per l'orazione discorsiva o per la moltiplicità degli affetti, unito al poco profitto che se ne ricava; s'intende che qui parliamo di anime fervorose che si sforzano di meditar bene e non di anime tiepide che vogliono vivere nella mediocrità. b) Una certa propensione a semplificar l'orazione, a fissare lo sguardo su Dio, e tenersi alla sua presenza, unita al profitto che si ricava da questo santo esercizio.
In pratica, quando un direttore vede che un'anima fervorosa sente grande difficoltà a far considerazioni o a moltiplicar gli affetti, è opportuno esporle sommariamente questo modo d'orazione, esortandola a farne la prova e chiedendole poi conto dei risultati ottenuti; se buoni, la consiglierà a continuare.
1375. 2° Dell'orazione in se stessa. Non c'è, propriamente parlando, un dato metodo per questo genere d'orazione, perchè non c'è guari altro da fare che guardare ed amare. Si possono per altro dare alcuni consigli alle anime che vi sono chiamate, onde aiutarle a tenersi alla presenza di Dio. Consigli che saranno proporzionati all'indole, alle disposizioni e ai moti soprannaturali dei penitenti.
a) A quelli che hanno bisogno di fissare i sensi su qualche oggetto pio, si consiglierà di volgere lo sguardo alla croce, al tabernacolo o a qualche pia immagine atta a concentrare il pensiero su Dio. Come ben dice il Curato d'Ars, "non c'è bisogno di parlar molto per pregar bene. Sapendo che il Signore è lì nel santo tabernacolo, gli si apre il cuore e si gode di essere alla santa sua presenza: è la miglior preghiera" 1375-1.
b) Chi ha fantasia viva potrà rappresentarsi una scena evangelica, non nei particolari come per il passato, ma così all'ingrosso, per esempio Nostro Signore nell'Orto degli Ulivi o sul Calvario; poi amorosamente contemplarlo che patisce per noi e ripetere: "Gesù mi amò e si sacrificò per me: dilexit me et tradidit semetipsum pro me" 1375-2.
1376. c) Altri amano di riandare adagino un passo della Sacra Scrittura o di qualche pia preghiera, assaporandolo e nutrendosene. È ciò che consiglia S. Ignazio nel secondo modo di pregare n. 993; e l'esperienza mostra che molte anime vengono iniziate all'orazione di semplicità con questo mezzo; conviene allora consigliarle a farsi una raccolta dei più bei testi, di quelli che già assaporarono leggendoli 1376-1, e giovarsene secondo le attrattive dello Spirito Santo.
1377. d) Alle anime affettuose si consiglierà di fare atti motivati d'amor di Dio, per esempio: "O mio Dio, io vi amo con tutto il cuore, perchè siete la stessa bontà, Deus caritas est, la bellezza infinita..." assaporando a lungo questi pochi pensieri. Oppure rivolgersi a Gesù e pensare ai diritti che ha al nostro amore: "Vi amo, o Gesù, che siete l'amabilità stessa; voi siete il mio Signore e io vi voglio ubbidire; il mio Pastore e io vi voglio seguire e nutrirmi di voi; il mio Dottore e io credo in voi; il mio Redentore e io vi benedico e aderisco a voi; il mio capo e io m'incorporo a voi; il mio più fedele amico e io vi amo sopra ogni cosa e voglio amarvi sempre più". -- Si può anche adoprare il primiero metodo d'orazione lasciato dall'Olier ai suoi discepoli: Gesù davanti agli occhi: "Stiamo in riverenza e rispetto dinanzi a cosa così divina e così santa; e dopo che il nostro cuore si sarà sfogato in amore e lode e in altri doveri, stiamocene per qualche tempo in silenzio dinanzi a lui". Gesù nel cuore: supplicheremo lo Spirito di Gesù a venire nell'anima nostra per renderci conformi a questo divino modello: "Ci daremo a lui per essere da lui posseduti e animati dalla sua virtù; e dopo ce ne staremo un altro poco in silenzio vicino a lui, per lasciarci penetrare dalla divina sua unzione..."; Gesù nelle mani, bramando "che la divina sua volontà si compia in noi, suoi membri, che dobbiamo stare sottomessi al nostro capo e che non dobbiamo avere altro moto che quello datoci da Gesù Cristo, nostra vita e nostro tutto; il quale, riempendoci l'anima del suo Spirito, della sua virtù e della sua forza, deve essere colui che opera in noi e per noi tutto ciò che desidera" 1377-1.
1378. e) Vi sono anime in cui domina la volontà, che non possono più discorrere nell'orazione, e che, trovandosi per altro in aridità e distrazioni, stentano a trar dal cuore pii affetti. L'orazione semplificata che convien loro è così descritta dal P. Piny 1378-1: "Questa orazione consiste nel voler passare tutto il tempo dell'orazione in amar Dio e amarlo più che noi stessi; nel volervi stare per pregarlo in ispirito di carità; nel volervi rimanere abbandonati alla divina sua volontà... Bisogna notare che l'amore ha questo vantaggio sugli atti della maggior parte delle virtù e sulle altre specie di unione che, se vogliamo amare, noi amiamo; se vogliamo con vera volontà amorosamente unirci alla volontà di Colui che amiamo o che vogliamo amare, con quest'atto di volontà noi subito possediamo questa unione: l'amore infatti non è altro che un atto affettivo della nostra volontà".
1379. f) In quest'orazione si è esposti alle distrazioni e alle aridità come nell'orazione affettiva. Non c'è che umiliarsene e offrire a Dio la pena che se ne sente, sforzandosi ciò nonostante di starsene alla sua presenza con perfetta rassegnazione alla sua volontà: le distrazioni ben possono impedire che si fissi su Dio la mente ma non la volontà, il cui atto virtualmente persevera nonostante il divagare dell'immaginazione.
1380. 3° Della preparazione e della conclusione. A) Quando si fa l'orazione di semplicità, occorre prepararne l'argomento? Ordinariamente sì. Si sa infatti che S. Francesco di Sales consigliava alla S. Chantal di preparare l'orazione 1380-1: "Io non dico che, quando si è fatta la preparazione e poi nell'orazione si è attratti a questa specie d'orazione (di semplice sguardo), non si debba assecondarla; ma prendere per metodo di non prepararsi, mi riesce un po' duro, come pure il togliersi dalla presenza di Dio senza ringraziamento, senza offerta e senza espressa preghiera. Tutto ciò potrà qualche volta riuscir utile, ma che se ne faccia una regola, confesso che ci ho un po' di ripugnanza". Consiglio molto savio: il preparare un argomento non impedirà allo Spirito Santo di suggerircene un altro, se vuole; e, se non lo crede opportuno, converrà occuparsi dell'argomento preparato.
1381. B) Questa preparazione inchiude pure la risoluzione da prendere alla fine della meditazione; è certamente meglio specificarne una la sera precedente. Può essere che lo Spirito Santo ne suggerisca un'altra o che porti semplicemente l'anima a darsi a Dio tutta la giornata; ma quella presa da sè avrà pur la sua utilità. Aggiungiamo peraltro che, poichè qui tutto si semplifica, la risoluzione migliore sarà spesso di ripetere la stessa, per esempio, di vivere abitualmente alla presenza di Dio o di non rifiutargli nulla o di far tutto per amore. Vaghe potranno parere queste risoluzioni a chi non fa orazione a questo modo, ma sono invece molto precise per le anime che Dio vi ha condotto, perchè s'incarica poi lui di renderle pratiche colle ispirazioni che darà spesso nella giornata.
§ IV. Relazione tra l'orazione di semplicità e la contemplazione infusa.
Per esporre esattamente la dottrina comune su questo argomento, dimostreremo:
1382. 1° È una contemplazione. a) Tal era il pensiero di Bossuet, che, descritta quest'orazione, aggiunge: "L'anima dunque, lasciando il ragionamento, si serve di una dolce contemplazione che la tiene tranquilla, attenta e atta a ricevere le operazioni e le impressioni divine che lo Spirito Santo le comunica". E tale è pure la conclusione che nasce dalla natura stessa di quest'orazione paragonata con quella della contemplazione. Questa si definisce, come abbiamo detti al n. 1298, una semplice intuizione della verità; ora l'orazione di semplicità, dice Bossuet, "consiste in una semplice vista, sguardo o attenzione amorosa in sè a qualche oggetto divino"; a ragione quindi viene detta contemplazione.
b) È una contemplazione acquisita, non infusa, almeno al principio, finchè resta debole e intermittente. Allora infatti non dura che pochi minuti e cede il posto ad altri pensieri ed affetti; solo a poco a poco l'anima si abitua a guardare ed amar Dio con una semplice vista di fede, per un tempo un po' più notevole e in modo sintetico, come l'artista contempla un capolavoro di cui ha prima studiato in particolare i diversi elementi. Qui, a quanto pare, vi è un processo psicologico ordinario, il quale, come è chiaro, suppone una fede viva e anche l'opera latente dei doni dello Spirito Santo, ma non uno speciale intervento di Dio, una grazia operante.
1383. 2° L'orazione di semplicità è disposizione favorevole alla contemplazione infusa. Pone infatti l'anima in uno stato che la rende attentissima e docilissima agli impulsi della grazia, facile mobilis a Spiritu Sancto. Quando dunque piacerà alla divina Bontà d'impossessarsi di lei per cagionarvi un raccoglimento più profondo, una vista più semplice, un amore più intenso, entrerà nella seconda fase dell'orazione di semplicità, quale è descritta dal Bossuet nel n. V° del citato opuscolo.
"Dopo non bisogna affannarsi a produrre molti altri atti o disposizioni diverse, ma solo starsene attenti a questa presenza di Dio, esposti ai divini suoi sguardi, continuando così in questa devota attenzione o disposizione finchè Nostro Signore ce ne farà la grazia, senza darsi pensiero di far altro fuori di quello che ci interviene, perchè quest'orazione è un'orazione con Dio solo e un'unione che eminentemente contiene tutte le altre disposizioni particolari, e che dispone l'anima alla passività, vale a dire che Dio diventa il solo padrone del suo interno e che vi opera in modo più particolare dell'ordinario: quanto meno lavora la creatura, tanto più potentemente opera Dio; e poichè l'operazione di Dio è riposo, l'anima gli diviene in qualche modo simile in quest'orazione e vi riceve quindi mirabili effetti"...
1384. Vi è quindi una certa continuità tra l'orazione affettiva semplificata, che si può acquistare collo spirito di fede, e la quiete, che è orazione infusa causata dai doni dello Spirito Santo con la cooperazione dell'anima. Corre tra l'una e l'altra una differenza essenziale, essendo l'una acquisita e l'altra infusa; ma c'è un vincolo e un ponte, cioè l'orazione di semplicità, che comincia con una semplice vista di fede e termina, quando piaccia a Dio, coll'investimento dell'anima da parte dello Spirito Santo. Dio non è obbligato, è vero, anche quando si è giunti all'orazione di semplicità, a trasformarla in orazione infusa, che resta sempre dono gratuito a cui non possiamo elevarci da noi stessi; ma lo fa spesso quando trova l'anima ben disposta; perchè nulla tanto desidera quanto di unirsi in modo più perfetto alle anime generose che sono risolute a non ricusargli nulla.
CONCLUSIONE DEL PRIMO CAPITOLO.
1385. Questa prima forma della vita unitiva è già molto perfetta. 1) Affettuosamente e abitualmente unita a Dio, l'anima si studia di praticare le virtù in ciò che hanno di più alto, coll'aiuto dei doni dello Spirito Santo, che ora operano in modo latente ora in modo più palese. I doni che in lei predominano sono, per ragion del temperamento, delle occupazioni e delle attrattive divine, quelli che portano all'azione; ma, operando, rimane in comunione con Dio, perchè per lui, con lui, sotto l'azione della sua grazia lavora e patisce. 2) Venuta l'ora della preghiera, la sua orazione è molto semplice: guarda con gli occhi della fede questo Dio che le è Padre, che abita in lei, che lavora con lei; e contemplando l'ama; amore che si manifesta talora con slanci generosi, altre volte con puri atti di volontà, perchè l'anima ha pure aridità e prove in cui non può che dire: O mio Dio, io vi amo, o almeno vi voglio amare, voglio fare per amore la vostra volontà a qualunque costo. 3) Vi sono momenti in cui i doni della scienza, dell'intelletto e della sapienza, che abitualmente non operano in lei se non in modo latente, si manifestano come un lampo e la mettono per un istante in dolce riposo.
È una specie d'iniziazione alla contemplazione infusa.
1305-1 Don Ménager, La doct. spir. de Clém. d'Alex., Vie spirituelle, gennaio 1923, p. 424; Cfr. Etudes Carmélitaines, 1920-1922, ove è una serie di articoli sulla contemplazione acquisita; si legga anche il nostro articolo sulla orazione di semplicità, Vie spirit., dic. 1920, p. 161-174.
1305-2 Questa conclusione è ammessa dal P. Garrigou-Lagrange, in risposta ad una lettera di G. Maritain (Perfect. chrét. et contempl., t. II°, p. 75): "Quindi non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscerlo ripetutamente: può accadere che anime anche generosissime, per mancanza di certe condizioni indipendenti dalla loro volontà, non pervengano alla vita mistica se non dopo un tempo più lungo della durata ordinaria della nostra vita terrena. Il che può dipendere non solo dall'ambiente sfavorevole, dalla mancanza di direzione, ma anche dal fisico temperamento".
1306-1 Rev. des Jeunes, 25 sett. 1923, p. 613. -- Ciò che viene pure provato da G. Maritain, nell'articolo citato. Aggiunge però che le anime, in cui predominano i doni attivi, sono nello stato mistico, benchè non godano della contemplazione infusa. A scanso d'equivoci, bisognerebbe aggiungere ch'esse sono nello stato mistico impropriamente detto.
1307-1 S. Tommaso, In III Sent., dist. XXXIV-XXXV; Iª IIæ, q. 68; IIª IIæ, qq. 8, 9, 19, 45, 52, 121, 139; e i suoi commentatori, specialmente Giovanni di S. Tommaso, in Iam IIæ, q. 68;
Suarez, De gratia, P. III, c. VIII;
Dionigi certosino, ottimo trattato De Donis Spiritus S.;
G. B. de St Jure, L'uomo spirituale, 4° Principio, La docilité à la conduite du S. Esprit;
Mgr Perriot, L'Ami di Clergé, 1892; p. 389-393;
Froget, De l'habitation du S. Esprit, p. 378-424;
Card. Billot, De virtutibus infusis, (1901), p. 162-190;
Gardeil, Dons du S. Esprit, Dict. de Théol., t. IV, col. 1728-1781;
D. Joret, Les dons du S. Esprit, Vie spirituelle, t. I, pp. 229, 289, 383;
P. Garrigou-Lagrange, Perfect. et contemplation, t. I, c. IV, a. 5-6, p. 338-417;
Mgr Landrieux, Le Divin Méconnu.
1308-1 Nel libro delle Sentenze (III. Sent. d. 34, q. I, a. I) adopra questa espressione: "Dona a virtutibus distinguuntur in hoc quod virtutes perficiunt ad actus modo humano, sed dona ultra humanum modum". Nella Somma si serve d'una espressione diversa: "secundum ea (dona) homo disponitur ut efficiatur prompte mobilis ab inspiratione divinâ" (Iª IIae, q. 68, a. I). Cfr. De Guibert, Dons du S. Esprit et mode d'agir ultra-humain, nella Rev. d'Asc. et de Mystique, ott. 1922, p. 394. Vi è qui certamente una sfumatura un po' diversa; resta però sempre vero che, sotto l'influsso dei doni giunti al loro pieno sviluppo, noi siamo più passivi che attivi, magis agimur quam agimus.
1309-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 52, a. 2.
1311-1 Mgr Gay, Della vita e delle virtù cristiane, t. I.
1313-1 Sum. Theol., IIª IIæ, q. 9, art. 3, ad 3: "Dona sunt perfectiora virtutibus moralibus et intellectualibus; non sunt autem perfectiora virtutibus theologicis; sed magis omnia ad perfectionem virtutum theologicarum ordinantur sicut ad finem". Cfr. Iª IIæ, q. 68, a. 8.
1314-1 Alcuni teologi, come l'abbate Perriot (Ami du Clergé, 1892, p. 391), pensano che i doni intervengano in ogni opera meritoria; ma senza andar tanto oltre, si ammette comunemente che su questi atti influiscano frequentemente allo stato latente, senza che ne abbiamo coscienza.
1315-1 Sum. theol., Iª IIæ, q. 68, a. 8 ad 2.
1315-2 In IIam IIæ, q. 182, a. 1, § VII;
Joret, Vie spirit., 10 Aprile 1920, p. 45-49, e La Contemplation mystique, 1923, p. 71.
1316-1 I Cor., II, 12-14.
1317-1 Ps. LXXXIV, 9.
1317-2 De imit., l. III, c. 1.
1318-1 Joan., VIII, 29.
1318-2 Ps. XCIV, 8; Hebr., III, 7-8.
1319-1 Act., I, 14.
1320-1 Isa., XI, 2-3. -- Il testo ebraico non fa menzione del dono della pietà, come fanno i Settanta e la Volgata; la Tradizione dal secolo III° in poi conferma questo numero settenario. Del resto, come nota il Knabenbauer (in Isaiam, Vol. I, p. 272), il concetto di timore ha nella Sacra Scrittura tal ampiezza da potersi esprimere più analiticamente coi due vocaboli di pietà e di timore.
1321-1 Matth., X, 19.
1321-2 Atti, V, 29.
1323-1 "Sed quia humana ratio non potest comprehendere singularia et contingentia quæ occurrere possunt, fit quod "cogitationes mortalium sint timidæ et incertæ providentiæ nostræ" (Sap. IX, 14). Et ideo indiget homo in inquisitione consilii dirigi a Deo qui omnia comprehendit; quod fit per donum consilii, per quod homo dirigitur quasi consilio a Deo accepto". (S. Tommaso, IIª IIæ, q. 52, a. I, ad I).
1323-2 Mons. Landrieux, op. cit., p. 163. -- "La mancanza di questo dono ci causa gravissimi mali, dice il P. S. Jure, P. Iª, c. IV, § 7, perchè... ci rende confusi nei pensieri, ciechi nei disegni, precipitati nelle risoluzioni, imprudenti nelle parole, temerari nelle opere".
1324-1 Ps. XXIV, 4.
1324-2 Ecco perchè Donoso Cortès diceva che i migliori consiglieri sono i contemplativi: "Fra le persone che conobbi da vicino, e ne conobbi molte, le sole in cui io abbia riconosciuto imperturbabile buon senso, vera sagacia, mirabile disposizione a dar soluzioni pratiche e savie sui problemi più difficili... sono quelle che condussero vita contemplativa e ritirata". (Saggi sul Cattolicismo).
1325-1 Rom., VIII, 15.
1325-2 Rom., VIII, 28.
1326-1 Luc., X, 16.
1328-1 Galat., IV, 19.
1329-1 I Tim., IV, 7-8.
1330-1 Atti, VI, 8; VII, 55.
1333-1 I Cor., I, 27-29.
1333-2 "Ab illâ mensâ recedamus tanquam leones, ignem spirantes, diabolo terribiles". (In Joan., homil. LXI, 3, P. L., LIX, 260).
1334-1 È la lezione che il B. E. Susone ebbe un giorno dalla divina Sapienza: "È necessario, gli disse, che il mio servo ami prima di tutto l'abnegazione e che muoia interamente a se stesso e alle creature. Questo grado di perfezione è molto raro, ma colui che vi è arrivato, s'innalza rapidamente a Dio... Sarà allora meraviglia che le afflizioni e le croci non lo impressionino punto, come impressionano quelli il cui formale desiderio è di non soffire? Non è che i Santi siano più degli altri insensibili al dolore... Ma l'anima loro è al sicuro da ogni assalto, perchè non cerca e non ama che la croce... Il loro corpo soffre, ma l'anima s'inebria di Dio e gusta nell'estasi una ineffabile felicità... L'amore che le anima fa che non possono più considerare il dolore come dolore, nè l'afflizione come afflizione: non conoscono in Dio che pace profonda ed inalterabile".
1334-2 Atti, I, 8.
1336-1 Il Dialogo, l. I, c. 2, (edizione Gigli).
1336-2 "Nè colui che per me desidera e vuole mortificare il corpo colle molte penitenze senza uccidere la propria volontà, mi è molto a grado. Ma io voglio le molte operazioni del sostener virilmente e con pazienza e le altre virtù intrinseche dell'anima. Io, che sono infinito, richieggo infinite operazioni, cioè infinito affetto d'amore. Voglio che le operazioni della penitenza e degli altri esercizi corporali siano posti per strumento e non per principale affetto. Che se fosse posto il principale affetto ivi, mi sarebbe data cosa finita, e farebbe come la parola, che, uscita che è fuori della bocca, non è più. Se già la parola non uscisse coll'affetto dell'anima, il quale concepisce e partorisce in verità la virtù, cioè che l'operazione finita, che ho chiamata parola, fosse unita coll'affetto della carità; allora sarebbe grata e piacevole a me; perchè non sarebbe sola ma accompagnata colla vera discrezione, usando operazioni corporali per strumento, non per principale capo". Il Dialogo, l. I, c. X, (edizione Gigli).
1336-3 Eccles., XXI, 2.
1337-1 È una giusta osservazione del P. de Smedt (Notre vie surnat., t. I, p. 501-502): "Quando abbiamo un'alta ideale della superiorità di una persona su di noi, non ci avviciniamo a lei che con un senso di timidità o anche di turbamento; ma se questa persona riguardata molto al di sopra di noi si mostra piena di bontà, se manifesta vivo piacere di vederci, di conversare con noi, di sapersi da noi amata, se ambisce di trattare con noi con la più intima familiarità, il rispetto ispiratoci dalla sua superiorità non c'impedisce di concepire per lei un vivo affetto. Anzi, quanto più grande è l'idea che abbiamo della sua superiorità su di noi, tanto più grande è pure il nostro amore, tanto più profonda la riconoscenza e più vivo il desiderio di attestargli quest'amore e questa riconoscenza colla tenerezza e colla devozione nostra. D'altra parte, vedendola più da vicino e addentrandoci nella sua intimità, maggiormente ne stimiamo l'eccellenza delle doti; onde cresce la nostra venerazione per lei e ci sentiamo compresi di riconoscenza e di confusione alla vista della stima, della tenerezza, della premura, della delicatezza che ci dimostra".
1338-1 Ps. CXVIII, 120.
1338-2 Ps. L, 19.
1339-1 IIª IIæ, q. 45, a. 2.
1339-2 D. Joret, Les dons du S. Esprit, in Vie spirit., Marzo 1920, p. 383-393.
1340-1 Esprit de M. Olier, t. II, p. 346.
1341-1 Joergensen, S. Francesco d'Assisi, (Palermo, 1910). Gli stessi sentimenti si riscontrano nella Journée chrétienne dell'Olier.
1342-1 Ps. LIV, 7.
1342-2 S. Agostino, Le confessioni, l. X, c. 27.
1343-1 Phil., III, 8.
1345-1 IIª IIæ, q. 8, a. 1.
1346-1 IIª IIæ, q. 8, a. 3.
1346-2 "In hâc etiam vitâ, purgato oculo per donum intellectûs, Deus quodammodo videri potest... Duplex est Dei visio: una quidem perfecta, per quam videtur Dei essentia; alia vero imperfecta, per quam, etsi non videamus de Deo quid est, videmus autem quid non est... secunda pertinet ad donum intellectus inchoatum, secundum quod habetur in via" (Iª IIæ, q. 69, a. 2, ad 3; IIª IIæ, q. 8, a. 7).
1347-1 Ps. CXVIII, 73.
1347-2 Matth., XI, 25.
1348-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 45.
1349-1 Ps. XXXIII, 9.
1349-2 Ephes., I, 3.
1349-3 I semplici praticano questo dono della sapienza a modo loro, assaporando a lungo qualche verità divina; tale era quella povera vaccaia che non poteva terminare il Pater, "perchè, diceva, son già cinque anni che quando pronunzio la parola Pater e considero che Colui che sta lassù è mio Padre, mi metto a piangere e sto tutto il giorno così, badando le vacche". (H. Brémond, Hist. littéraire, t. II, p. 66).
1351-1 Sap., IX, 1-12. La bella versione è tolta da "I Libri poetici della Bibbia tradotti dai testi originali e annotati dal P. Vaccari S. J.", Roma, Pontificio Istituto biblico, 1925, pp. 310-311 (N. D. T.)
1352-1 Ps. XXXIII, 9.
1353-1 Traité de la vie intérieure, t. I, n. 246. A sostegno della sua opinione cita S. Antonino, Giov. di S. Tommaso e il Suarez. Lo stesso insegna il P. Garrigou-Lagrange, op. cit., t. I, p. 404: "Abbiamo sempre detto che, prima dell'ingresso nello stato mistico, i doni intervengono in modo o latente e assai frequente, o manifesto ma raro." -- Cf. P. G. de Guibert; R. A. M., ott. 1923, p. 338.
1354-1 Così insegna il P. Meynard, t. I, n. 126, 128, appoggiandosi su Giovanni di S. Tommaso.
1355-1 Cantico spirituale, stanza V, n. 1, 3.
1356-1 L'Ornamento delle Nozze Spirituali, l. II°, c. 66-68 (Libreria Carabba, Lanciano).
1356-2 Royaume des amants, c. XXXIII.
1358-1 Il P. Poulain, Delle grazie d'orazione, c. VI, adduce in prova gran quantità di testi.
1358-2 Confess., l. X, c. VI, nella classica versione del Bindi.
1359-1 Galat., V, 22-23. La Volgata ne enumera dodici: "Fructus autem Spiritus est: caritas, gaudium, pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia, continentia, castitas"; aggiunge dunque la longanimità, la modestia e la continenza, e alla temperanza sostituisce la castità.
1361-1 "Beatitudines dicuntur solum perfecta opera, quæ, etiam ratione suæ perfectionis, magis attribuuntur donis quam virtutibus". (Sum. theol., Iª IIæ, q. 70, a. 2).
1363-1 Bossuet, Modo breve e facile per fare l'orazione in fede e di semplice presenza di Dio, Tom. LIV, p. 316;
Thomas a Jesu, De contemplatione divinâ;
Ven. Libermann, Ecrits spirit., De l'oraison d'affection; Instruct. aux missionaires, c. V, art. II;
P. Poulain, Delle grazie d'orazione, c. II;
D. V. Lehodey, Le vie dell'orazione, P. II, c. VIII (Marietti, Torino);
A. Tanquerey, L'oraison de simplicité, Vie spirit., dic. 1920, p. 161-174.
1368-1 Galat., II, 20.
1368-2 Joan., XIV, 23; I Cor., III, 17; VI, 20.
1368-3 Traité de la véritable oraison, P. 3ª, C. 10.
1369-1 I Petr., II, 5.
1372-1 Autobiografia, c. XIII, -- Cf. P. Dupont, Vie di P. Balthazar Alvarez, c. XLI.
1373-1 Opuscolo sul miglio modo di fare orazione, t. VII, ed. Vivès, p. 501.
1375-1 Vita del Santo Curato d'Ars scritto dal Monnin, l. V, c. IV (Marietti, Torino).
1375-2 Galat., II, 20. -- S. Teresa, nella sia Vita, c. XIII, in fine, ci dà un esempio di quest'orazione. Dopo aver invitato le suore a meditare su Gesù legato alla colonna, aggiunge in fine: "Badi però di non stancarsi cercando sempre questo (chi patì, che cosa patì, per chi patì ecc.) ma se ne stia lì coll'intelletto quieto. Potendo, si occupi nel pensare che Gesù la guarda e l'accompagni, gli parli, gli chieda, si umili, si consoli con lui, ammettendo che non merita di stare alla sua presenza. Se può giungere a questo, anche fin dal principio dell'orazione, ne caverà gran profitto..."
1376-1 Il P. S. Jure compose una piccola raccolta di questo genere: Le Maître Jésus Christ enseignant les hommes; si può pure servirsi del V. P. Chevrier, Le disciple.
1377-1 L'oraison di cœur, c. I.
1378-1 Introduzione, c. IV.
1380-1 Lettera del 11 marzo 1610, t. XIV, p. 266.
Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@gmail.com>.
Ultima revisione: 1 febbraio 2006.
Ultima revisione dell'HTML: 26 ottobre 2007.