ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica

PARTE SECONDA
Le Tre Vie

LIBRO III
La via unitiva


CAPITOLO II.

Della contemplazione infusa 1386-1.

Esposte le nozioni generali sulla contemplazione infusa, ne percorreremo i vari gradi.

ART. I. NOZIONI GENERALI SULLA CONTEMPLAZIONE INFUSA.

A far conoscere la contemplazione infusa, ne spiegheremo:

§ I. Natura della contemplazione infusa.

Datane la definizione, spiegheremo la parte di Dio e la parte dell'anima nella contemplazione.

I. Definizione.

1386.   A) Gli autori antichi, non facendo esplicita distinzione tra contemplazione acquisita e contemplazione infusa, ordinariamente non dicono neppure la differenza specifica che corre tra loro. Dai vari articoli di S. Tommaso su questo argomento si può conchiudere che la contemplazione è una vista semplice, intuitiva, di Dio e delle cose divine, che procede dall'amore e tende all'amore 1386-2. S. Francesco di Sales la definisce: "un'amorosa, semplice e permanente attenzione della mente alle cosa divine1386-3.

B) Gli autori moderni fanno generalmente distinzione tra i due generi di contemplazione, e con Benedetto XIV definiscono o descrivono la contemplazione infusa: "una semplice vista intellettuale, accompagnata da soave amore delle cose divine, che procede da Dio, il quale applica in modo speciale l'intelletto a conoscere e la volontà ad amare le cose divine, e concorre a questi atti coi doni dello Spirito Santo, intelletto e sapienza, illuminando la mente di viva luce e la volontà infiammando d'amore". Si ha qui una nozione veramente compita, che indica bene la parte di Dio e dei Doni dello Spirito Santo e nello stesso tempo la parte delle nostre facoltà, le quali, pur essendo applicate da Dio alla conoscenza e all'amore, liberamente cooperano a questa divina mozione. Però si noti che questa definizione comprende la sola contemplazione soave e non la contemplazione arida. Onde, volendo una definizione che le comprenda tutte e due, si può dire che la contemplazione infusa è una vista semplice, affettuosa e prolungata di Dio e delle cose divine, che si fa sotto l'influsso dei doni dello Spirito Santo e di una grazia attuale speciale, la quale s'impossessa di noi e ci fa operare più passivamente che attivamente.

A ben intendere questa definizione, ci resta da esporre la parte di Dio e la parte dell'uomo nella contemplazione.

II. Parte di Dio nella contemplazione.

Dio ha la parte principale, perchè egli solo può impossessarsi di noi e metterci nello stato passivo.

1387.   1° È Dio che chiama l'anima alla contemplazione; perchè, a confessione di tutti i mistici, è questo un dono essenzialmente gratuito. Tal è la dottrina di S, Teresa, che chiama spesso soprannaturale questo genere d'orazione. Ora, nella seconda relazione al P. Rodrigo Alvarez, spiega così questa parola: "Chiamo soprannaturale ciò che non si può acquistare nè coll'industria nè collo sforzo, per quanto uno vi si affatichi; sebbene disporvisi, sì, si può, e questo deve importare assai" 1387-1. Il che fa anche meglio capire con questo grazioso paragone: "Di grado in grado viene il Signore a prendere quest'uccellino e metterlo nel nido perchè vi si riposi" 1387-2.

Tal è pure l'insegnamento di S. Giovanni della Croce, il quale distingue due metodi, l'uno attivo e l'altro passivo; questo, che non è altro che la contemplazione, è, egli dice, "quello in cui l'anima non fa nulla come da sè e per propria industria, ma Dio opera in lei ed ella se ne sta come passiva" 1387-3. E torna spesso su questa distinzione: corre tra i due stati "tanta differenza come tra l'opera umana e l'opera divina, tra il modo d'operare naturale e quello soprannaturale. -- Badino i direttori di tali anime e considerino che l'agente principale, la guida, il motore delle anime in questo affare, non sono loro ma lo Spirito Santo, il quale non cessa di vigilar su di esse, e che essi sono semplici strumenti per condurle alla perfezione secondo la fede e la legge divina, secondo lo spirito che Dio distribuisce a ciascuna" 1387-4. Se dunque l'iniziativa è tutta di Dio, se è lui che muove le anime, lui il principale agente, e l'anima se ne sta come passiva, è chiaro che l'anima non può ingerirsi da sè in questo stato nè meritarlo in senso proprio, de condigno; non potendosi meritare a questo modo se non ciò che Dio volle inchiudere nell'oggetto del merito, vale a dire la grazia santificante e la gloria eterna.

Questa gratuità è ammesa pure dalla Scuola che tiene che tutte le anime sono chiamate alla contemplazione; dopo aver detto che la meditazione non è sopra i nostri sforzi, il Saudreau aggiunge: "Non si può entrar in pari modo nell'orazione mistica; per qualunque sforzo si faccia, non vi si arriverà mai, se non si è stati innalzati per favor divino a stato così meritorio" 1387-5. È vero che alcuni pensano che si possa meritarlo de congruo, ma questo merito di semplice convenienza non ne toglie l'essenziale gratuità.

1388.   2° Dio pure è quello che sceglie il momento e il modo della contemplazione come anche la durata. Egli solo infatti mette l'anima nello stato passivo o mistico, impossessandosi delle sue facoltà per operare in loro e per loro col libero consenso della volontà: è una specie di ossessione divina; Dio, essendo sovrano padrone dei suoi doni, interviene quando vuole e come vuole.

1389.   3° Nella contemplazione Dio opera soprattutto in quello che i mistici chiamano l'apice, la cima dell'anima, la cima della volontà o l'intimo fondo, il centro dell'anima. Si deve intendere con queste parole tutto ciò che vi è di più alto nell'intelletto e nella volontà; è l'intelletto non in quanto ragiona ma in quanto percepisce la verità con un semplice sguardo, sotto l'influsso dei doni superiori di intelletto e di sapienza; è la volontà nel suo atto più semplice che è d'amare e di gustare le cose divine 1389-1.

Il Ven. L. Blosio 1389-2 pensa che questo centro dell'anima dove avviene la contemplazione sia "molto più intimo ed alto delle tre principali facoltà, essendo la fonte od origine di queste stesse facoltà... In questo centro, dice, le facoltà superiori sono tutte una cosa sola, là regna somma tranquillità e perfetto silenzio, perchè non vi può mai giungere imagine alcuna. In questo centro, ove si cela l'immagine divina, noi rivestiamo la forma divina".

1390.   4° In cotesto centro dell'anima produce Dio nello stesso tempo conoscenza ed amore. La conoscenza si fa per affermazione o per negazione.

a) La prima, che è distinta pur restando oscura, colpisce vivamente l'anima, perchè è sperimentale o quasi sperimentale. Dio può causarla in noi in quattro modi principali:

1) Attirando la nostra attenzione col lume dei doni su un'idea che già avevamo ma che non ci aveva finallora colpiti. Sappiamo, per esempio, che Dio è amore, ma ecco che la divina luce ci fa così bene intendere e gustare questo pensiero che ne siamo tutti compresi e compenetrati.

2) Facendoci dedurre da due idee, che già avevamo, una conclusione che questa stessa luce rende vivissima nell'anima. Così dal fatto che Dio è tutto e noi nulla, lo Spirito Santo ci fa capire che l'umiltà è per noi imperioso dovere: Io sono colui che è, e tu, tu sei colui che non è!

3) Producendo in noi specie infuse, le quali, perchè provenienti da Dio, rappresentano le cose divine in modo più perfetto e piu vivo, come avviene in certe visioni o rivelazioni.

4) Concedendo a un'anima in modo passeggiero la visione beatifica, come S. Tommaso ammette per Mosè e per S. Paolo 1390-1, e alcuni Padri per la SS. Vergine 1390-2.

La conoscenza che si fa per negazione ci mostra la trascendenza di Dio e ce ne da quindi un'altissima idea; la descriveremo al n. 1398.

1391.   b) Dio produce pure nell'anima un ineffabile amore: le fa capire con una specie d'intuizione che Egli ed Egli solo è il sommo bene, onde l'attira in modo forte ed irresistibile, come la calamita attira il ferro, senza però violentarne la libertà; allora infatti ella va a Dio con lo stesso ardore con cui va alla felicità, ma liberamente, perchè questa vista, essendo oscura, non le toglie la libertà.

Allora, secondo il Ven. L. Blosio, l'anima esce fuori di sè per trasfondersi tutta quanta in Dio e perdersi nell'abisso dell'eterno amore. "E là, morta a se stessa, vive in Dio senza nulla conoscere nè sentire, tranne l'amore di cui è ebbra. Si perde nell'immensità della solitudine e delle tenebre divine; ma il perdersi là è piuttosto un vero ritrovarsi. Perchè l'anima si spoglia veramente di tutto l'umano per rivestirsi di Dio; è tutta cangiata e trasformata in Dio, come il ferro che sotto l'azione del fuoco ne prende l'aspetto e si cangia in fuoco; ma l'essenza dell'anima così deificata rimane ciò che era, come il ferro incandescente non cessa d'essere ferro. In quest'anima non c'era finallora che freddezza, e quindi innanzi è tutta infiammata; dalle tenebre è passata al più vivo fulgore; un dì insensibile, ora non è più che tenerezza... Tutta consumata dal fuoco del divino amore e tutta liquefatta, è passata in Dio, e, unendosi immediatamente a lui, non fa più con lui che un solo spirito, a quel modo che l'oro e il bronzo si fondono in un solo metallo. Coloro che sono così rapiti e perduti in Dio toccano però altezze diverse, perchè ognuno penetra tanto più avanti nelle divine profondità, quanto maggiore è la sincerita, l'ardore e l'amore con cui si volge a Dio e quanto più intieramente rinunzia, anche in questa ricerca, a ogni proprio interesse 1391-1.

III. Parte dell'anima.

Prevenuta dalla grazia di Dio, l'anima corrisponde liberamente alla divina mozione:

1392.   1° Si lascia liberamente prendere e muovere da Dio, come il bambino che si lascia portare tra le braccia della madre con libero e giocondo consenso; onde è nello stesso tempo passiva ed attiva.

a) È passiva nel senso che è impotente a operare da per sè, come faceva prima; non può più, nel momento della contemplazione, esercitar le facoltà in modo discorsivo; dipende da un principio superiore che la governa, che ne fissa lo sguardo, la mente e il cuore sull'oggetto contemplato, glielo fa amare e gustare, le suggerisce ciò che deve fare e le dà forte impulso a farla operare. Non è però nei primi gradi intiera impotenza; il fenomeno del legamento delle facoltà non avviene che gradualmente e non si ha intieramente che in certi stati più alti di contemplazione, specialmente nelle estasi. Così, nella quiete, la preghiera vocale e la meditazione riesce faticosa all'anima ma non è ordinariamente impossibile 1392-1; nell'unione piena, Dio sospende l'intelletto, non già intieramente impedendogli di operare ma impedendogli di ragionare; ne ferma i pensieri fissandoli su un dato oggetto; fa morir la parola sul labbro così che non si riesce a proferirne se non con penoso sforzo 1392-2.

1393.   b) Ma l'anima, che non può discorrere come prima, non resta oziosa. Sotto l'influsso della mozione divina opera guardando Dio ed amandolo, benchè con atti che sono talora soltanto impliciti. Opera anzi con più attività che mai; perchè riceve un'influsso di forza spirituale che ne decuplica [sic] le energie. Si sente come trasformata da un essere superiore, che è, a così dire, l'anima della sua anima, che la solleva e la rapisce a Dio: è l'effetto della grazia operante a cui giocondamente acconsente.

1394.   2° In questo stato Dio si presenta sotto nuovo aspetto, come realtà vivente che viene afferrata con una specie di conoscenza sperimentale che il linguaggio umano non vale ad esprimere. Non si conosce più Dio per induzione o deduzione ma con semplice intuizione, che non è però la chiara visione di Dio e che rimane oscura compiendosi per una specie di contatto con Dio che ci fa sentire la sua presenza e ci fa gustare i suoi favori.

Nessuno forse meglio di S. Bernardo 1394-1 descrisse questa conoscenza sperimentale: "Il Verbo venne in me (sono stolto a dire queste cose) e più volte venne. Benchè mi abbia visitato spesso, io non potei mai accorgermi del momento preciso in cui giunse. Ma sentii, me ne rammento bene, che c'era. Potei talora presentirne l'arrivo, ma non riuscii mai a sentirne l'entrata o l'uscita. Eppure io conobbi che era vero ciò che avevo letto: che in lui viviamo, ci moviamo e siamo. Beato colui in cui abita, che vive per lui ed è mosso da lui! Ma poichè le sue vie sono impenetrabili, voi mi domandate in che modo io abbia potuto conoscerne la presenza. Essendo egli pieno di vita e di energia, appena è presente mi desta l'anima addormentata; mi muove, ammollisce, ferisce il cuore duro come la selce e molto ammalato; si mette a sradicare e a distruggere, a edificare e a piantare, a innaffiare ciò che è arido, a illuminare ciò che è oscuro, ad aprire ciò che è chiuso, a riscaldare ciò che è freddo, a raddrizzare ciò che è storto, a levigare ciò che è scabro, onde l'anima mia benedice il Signore e tutte le mie potenze lodano il santo suo nome. Entrando dunque in me, lo Sposo divino non fa sentir la sua venuta con segni esterni, col rumor della voce o dei passi; non dai suoi movimenti, non coi miei sensi ne riconosco la presenza, ma, come vi dissi, dal moto del mio cuore; sentendo orrore del peccato e degli affetti carnali, riconosco la potenza della sua grazia; scoprendo e detestando le segrete mie colpe, ammiro la profondità della sua sapienza; riformando la mia vita, sperimento la sua bontà e la sua dolcezza; e il rinnovamento interiore che ne è il frutto mi fa percepire l'incomparabile sua bellezza". Ecco come l'anima che contempla il Verbo ne sente nello stesso tempo la presenza e l'azione santificatrice.

È quindi una conoscenza intermedia tra la fede ordinaria e la visione beatifica, ma che in ultima analisi si riduce alla fede e ne partecipa l'oscurità.

1395.   3° Spesso l'anima ama assai più che non conosca: è la contemplazione serafica, in relazione alla contemplazione cherubica in cui predomina la conoscenza. La volontà infatti afferra il suo oggetto in modo diverso dall'intelletto: l'intelletto conosce solo secondo la rappresentazione, l'immagine, la specie intelligibile ricevuta dalle cose; la volontà o il cuore va invece alla realtà qual e in se stessa. Ecco perchè possiamo amar Dio qual è in sè, benchè il nostro intelletto non ne scopra sulla terra l'intima natura. La stessa oscurità onde s'avvolge non fa che avvivare il nostro amore per lui e ispirarci ardente desiderio della sua presenza. Con uno slancio del cuore, il mistico, che non può veder Dio, varca il mistero che gliene vela la faccia e ama Dio in sè, nell'infinita sua essenza 1395-1. Vi è però sempre qualche conoscenza che precede l'amore; e se pare che certi mistici la neghino, è perchè insistono su ciò che li ha più particolarmente colpiti; ma resta vero, anche nello stato mistico, che non si può amare ciò che assolutamente non si conosce: "nil volitum quin præcognitum".

1396.   4° Vi è nella contemplazione un misto di gaudio e di angoscia: gaudio ineffabile nell'assaporare la presenza dell'ospite divino; angoscia di non possederlo intieramente. Ora domina l'uno ora l'altro di questi sentimenti, secondo i disegni di Dio, le fasi della vita mistica e l'indole. Vi sono quindi fasi particolarmente dolorose appellate notti, e fasi dolci e soavi; vi sono indoli che vedono e descrivono specialmente le prove della vita mistica, come S. Giovanni della Croce e la Chantal; altre che si trattengono con maggior compiacenza sui gaudii e sulle ebbrezze della contemplazione, come S. Teresa e S. Francesco di Sales.

1397.   5° Questa contemplazione rimane ineffabile, inesprimibile, come unanimemente affermano i mistici.

"Impossibile all'anima di discernerla, dice S. Giovanni della Croce 1397-1, e darle un nome; non ne ha del resto alcuna voglia e non trova nè modo, nè maniera, nè calzante paragone, a significar conoscenza così alta e sentimento apirituale così delicato. Per guisa che, anche se l'anima provasse il più vivo desiderio di spiegarsi e accumulasse spiegazioni, resterebbe sempre cosa segreta ed ineffabile... Si trova nella condizione di chi scoprisse cosa non mai vista, senza equivalente da lui conosciuto, che, pur vedendola e gustandola, non la saprebbe denominare nè dir che cos'è, per quanto s'industriasse, e questo pur trattandosi di cose percepite dai sensi; or quanto meno potrà farsi in ciò in cui i sensi non entrano?"

Due ragioni principali spiegano questa impossibilità di descrivere ciò che si è provato: da un lato la mente è immersa nella tenebra divina e non percepisce Dio che in modo confuso ed oscuro sebbene vivissimo; e dall'altro il fatto più forte è quello d'un intenso amore per Dio, che si prova ma non si sa descrivere.

1398.   A) Vediamo prima di tutto che cosa s'intende per tenebra divina, espressione tolta dal Pseudo Dionigi 1398-1.

"Sciolta dal mondo sensibile e dal mondo intellettuale, l'anima entra nella misteriosa oscurità d'una santa ignoranza e, rinunziando a ogni dato scientifico, si perde in colui che non può essere nè visto nè afferrato; si dà tutta a questo sovrano oggetto, senza più appartenere a sè nè ad altri; s'unisce all'ignoto colla più nobile porzione di sè e in ragione della sua rinunzia alla scienza; e attinge infine in questa assoluta ignoranza una cognizione che l'intelletto non potrebbe mai acquistare". Per giungere dunque a questa contemplazione, bisogna innalzarsi sopra la conoscenza sensibile, che non può, com'è chiaro, percepire Dio; sopra la conoscenza razionale, che non conosce Dio che per induzione e astrazione; solo con l'apice dell'intelletto possiamo percepirlo. Ma sulla terra non possiamo vederlo direttamente, onde non ci resta che coglierlo per via di negazione.

S. Tommaso spiega la cosa in modo più preciso: "Di negazione in negazione l'anima sorge più in alto delle più eccellenti creature e si unisce a Dio in quella misura che ora è possibile. Perchè nella vita presente l'intelletto non giunge mai a vedere l'essenza divina, ma solo a conoscere di Dio ciò che non è. Onde l'unione della mente con Dio quale è possibile in questa vita avviene quando conosciamo che Dio supera tutte le più eccelse creature" 1398-2. La stessa nozione di essere, quale la concepiamo noi, è così imperfetta da non potersi applicare a Dio; solo dopo aver eliminato tutto l'essere che gli è noto, l'intelletto giunge a Dio; si trova allora nella tenebra divina, e là abita Dio 1398-3.

Chi chiedesse come mai questa intuizione negativa possa illuminarci su Dio, si può rispondere che, conoscendo così non ciò che è ma ciò che non è, si ha di lui un'altissima idea, che produce nella parte superiore dell'anima una profonda impressione della divina trascendenza e nello stesso tempo un'amore intenso di questo Dio, di cui nulla può esprimere la grandezza e la beltà, e che solo può appagar l'anima. Questa contemplazione confusa e affettuosa basta a fare scaturir dall'anima, sotto l'influsso della grazia, atti impliciti di fede, di confidenza, di amore, di religione, che riempiono tutta l'anima e producono ordinariamente in lei gaudio grande.

1399.   B) Il secondo elemento che rende difficile la descrizione della contemplazione, è l'amore ardente che vi si gusta e che non si sa come esprimere.

"È, dice S. Bernardo 1399-1, il cantico dell'amore; nessuno lo capisce, se l'unzione non glie lo insegnò e non lo imparò per esperienza. Quelli che lo provarono lo conoscono, e quelli che non ne hanno esperienza devono desiderare non di conoscerlo ma di gustarlo. Non è fremito di lingua ma inno del cuore, non rumor di labbra ma moto di gaudio, sono volontà che s'accordano non voci. Non si sente di fuori, non risuona in pubblico; nessuno lo sente fuorchè chi lo canta e a chi si canta, la sposa e lo sposo. È canto nuziale che esprime i casti e deliziosi amplessi delle anime, l'armonia dei sentimenti e la mutua corrispondenza degli affetti. L'anima novizia, l'anima ancor bambina o convertita di fresco, non può cantar questo cantico, che è riserbato all'anima progredita e formata, all'anima che, coi progressi fatti sotto l'azione di Dio, toccò l'età perfetta, l'età nubile coi meriti acquistati, e che, per le sue virtù, è divenuta degna dello sposo".

1400.   6° Quando la contemplazione è arida e debole, come nella prima notte di S. Giovanni della Croce, non se ne ha coscienza; solo più tardi, studiandone gli effetti prodotti nell'anima, se ne può accertar l'esistenza. Quando è saporosa, non è, a quanto pare, sempre avvertita a principio, quando è ancora debole, perchè è difficile scorgerne la differenza dall'orazione di semplicità e perchè si passa talora dall'una all'altra senza accorgersene. Ma quando si fa intensa, se ne ha coscienza; quel che si può dire è che tutte le orazioni soprannaturali descritte da S. Teresa sono di questo genere, come osserveremo spiegando le varie fasi della contemplazione.

1401.   Conclusione. Da quanto abbiamo detto risulta che l'elemento essenziale della contemplazione infusa è la passività quale abbiamo descritta, e che consiste in questo che l'anima è guidata, attuata, mossa, diretta dallo Spirito Santo, invece di guidarsi, di muoversi, di dirigersi da sè, senza però perdere nè la libertà nè l'attività.

Non si deve dunque dire che l'elemento essenziale della contemplazione 1401-1 sia la coscienza della presenza di Dio o la presenza di Dio sentita, perchè questo elemento qualche volta manca, massime nella contemplazione arida descritta da S. Giovanni della Croce quando tratta della prima notte. Ma è uno degli elementi principali, perchè si trova in tutti i gradi di contemplazione descritti da S. Teresa, dalla quiete all'unione trasformativa.

§ II. I vantaggi della contemplazione.

Questi vantaggi superano anche quelli dell'orazione di semplicità, appunto perchè l'anima si trova più unita a Dio e sotto l'influsso di una grazia più efficace.

1402.   1° Dio vi è più glorificato 1402-1. a) Facendoci sperimentare l'infinita trascendenza di Dio, la contemplazione infusa fa che tutto il nostro essere si prostri innanzi alla divina Maestà, ce lo fa benedire e lodare non solo nel momento in cui lo contempliamo ma anche in tutta la giornata; quando si è intravista quella divina grandezza, si rimane colti da ammirazione e da religione dinanzi a lei. Ond'è che, non potendo contenere in sè questi sentimenti, l'anima si sente spinta a invitar tutte le creature a benedire e a ringraziar Dio, come diremo in appresso, n. 1444.

b) Ossequi che riescono tanto più graditi a Dio e tanto più onorifici per lui, in quanto che sono più direttamente ispirati dall'azione dello Spirito Santo: è lui che adora in noi, o piuttosto ci fa adorare con sentimenti di gran fervore ed umiltà. Ci fa adorare Dio qual è in sè e ci fa capire che è questo un dovere del nostro stato e che noi siamo creati unicamente per cantarne le lodi; e, per farcele cantare con maggior ardore, ci colma l'anima di nuovi benefici e di grande soavità.

1403.   2° L'anima vi è maggiormente santificata. La contemplazione infatti diffonde tanta luce, tanto amore e tante virtù, che a ragione vien detta scorciatoia per giungere alla perfezione.

A) Ci fa conoscere Dio in un modo ineffabile e molto santificativo. "Dio allora, quietamente nel segreto dell'anima, le comunica sapienza e conoscenza d'amore, senza atti specificati, benchè permetta talora di tali atti con qualche durata" 1403-1. Questa conoscenza è molto santificativa, perchè ci fa conosere per esperienza ciò che avevamo prima imparato con letture o con riflessioni proprie e ci fa vedere con uno sguardo sintetico ciò che avevamo analizzato con atti successivi.

La cosa è molto bene spiegata da S. Giovanni della Croce 1403-2: "Dio, nell'unica e semplice sua essenza racchiude tutte le virtù, tutte le grandezze dei suoi attributi: è onnipotente, sapiente, buono, misericordioso, giusto, forte, amoroso ecc., ed ha altri attributi e perfezioni infinite che noi ignoriamo. Ora, essendo egli tutto questo nella semplicità del suo essere, quando, unito all'anima, crede bene di aprirsele, le fa vedere distintamente in lui tutte le sue virtù e grandezze... E poichè ognuna di queste cose è l'Essere stesso di Dio in ognuna delle sue persone, o il Padre o il Figlio o lo Spirito Santo, e ognuno dei loro attributi essendo lo stesso Dio e Dio essendo luce infinita e infinito fuoco divino... ne viene che ognuno di questi attributi, che, come dicemmo, sono innumerevoli, e ognuna di queste virtù illuminano e riscaldano come Dio". Si capisce allora ciò che dice S. Teresa 1403-3: "Quando è Dio che sospende e ferma l'intelletto, gli somministra di che ammirare e di che occuparsi e fa che, senza discorrere, intenda più in un credo che non pottemmo [sic] intender noi in parecchi anni con tutte le nostre industrie terrene".

Vi sono, è vero, casi in cui la luce non è così distinta e rimane oscura e confusa; ma anche allora impressiona vivamente l'anima, come abbiamo detto al n. 1368.

1404.   B) Produce poi specialmente un fervidissimo amore che, secondo S. Giovanni della Croce, viene qualificato da tre principali eccellenze: a) Prima di tutto l'anima ama Dio non da sè ma da Lui; eccellenza ammirabile, perchè così ama per mezzo dello Spirito Santo, come s'amano il Padre e il Figlio; secondo che lo stesso Figlio dichiara in S. Giovanni: affinchè sia il loro l'amore con cui mi amasti, e che io pure sia in loro1404-1.

b) La seconda eccellenza è di amar Dio in Dio; perchè in questa ardente unione l'anima si perde nell'amor di Dio e Dio si abbandona all'anima con grande veemenza.

c) La terza eccellenza di questo sommo amore è che l'anima in questo stato ama Dio per ciò che è, vale a dire che l'ama non solo perchè si mostra verso di lei generoso, buono e glorioso ecc., ma molto più ardentemente lo ama perchè è essenzialmente tutto questo.

Possiamo aggiungere con S. Francesco di Sales 1404-2 che quest'amor di Dio è tanto più ardente in quanto che è fondato su una conoscenza sperimentale. Come colui che "con vista molto chiara sente e prova il grato splendore di un bel sol nascente", ama la luce meglio del cieco nato che non ne conosce che la descrizione, così colui che gode di Dio con la contemplazione l'ama molto meglio di colui che non lo conosce che per istudio; "perchè l'esperienza di un bene ce lo rende più amabile che non tutte le scienze che se ne potesse avere". Così, aggiunge, S. Caterina da Genova amò più Dio che non il sottile teologo Ocham; questi lo conobbe meglio colla scienza e quella con l'esperienza, esperienza che la condusse più avanti nell'amor serafico.

Ciò che aumenta ancora quest'amore è che facilita la contemplazione, la quale a sua volta accresce l'amore: "Perchè l'amore, avendo eccitato in noi l'attenzione contemplativa, quest'attenzione fa da parte sua nascere un più grande e più fervido amore, che è in fine coronato di perfezione quando fruisce di ciò che ama... l'amore stimola gli occhi a guardare sempre più attentamente la diletta bellezza, e la vista sforza il cuore a sempre più ardentemente amarla" 1404-3. Il che spiega perchè i Santo amarono tanto.

1405.   C) Quest'amore è accompagnato dalla pratica di tutte le virtù morali nel grado superiore, specialmente dell'umiltà, della conformità alla volontà di Dio, del santo abbandono; e quindi pure del gaudio e della pace spirituale, anche in mezzo alle prove, talora terribili, sostenute dai mistici. Il che vedremo più minutamente quando esamineremo i vari gradi di contemplazione, n. 1440, ecc.

§ III. Della chiamata prossima alla contemplazione.

1406.   Lasciamo per ora da parte la controversa questione della chiamata generale e remota di tutti i battezzati alla contemplazione. Tenendoci, per quanto è possibile, sul terreno dei fatti, vogliamo esaminare queste due questioni:

I. A chi Dio conceda la contemplazione.

1407.   1° Essendo la contemplazione dono essenzialmente gratuito, n. 1387, Dio la concede a chi vuole, quando vuole e come vuole. Ordinariamente però e in via normale, non la concede che alle anime ben preparate.

Per eccezione e in modo straordinario, Dio concede talvolta la contemplazione ad anime spoglie di virtù a fine di strapparle dalle mani del demonio.

È quello che dice S. Teresa 1407-1: "Vi sono anime che Dio sa di poter guadagnare mercè di questi favori. Poichè le vede del tutto traviate, vuole che nulla manchi da parte sua; e benchè siano in cattivo stato e prive di virtù, dà gusti e favori e tenerezze, che cominciano a eccitarne i desideri. Le fa talora entrar perfino in contemplazione, ma è cosa rara e dura poco. Opera così, ripeto, per vedere se, con questi favori, vorranno disporsi a godere spesso della sua presenza".

1408.   2° Vi sono anime privilegiate che Dio chiama alla contemplazione fin dall'infanzia: tale fu S. Rosa da Lima e ai dì nostri S. Teresa del Bembin Gesù. Ve ne sono altre che vi sono guidate e vi fanno progressi rapidissimi che paiono sproporzionati alla loro virtù.

È quanto narra S. Teresa 1408-1: "Ve ne è una di cui mi ricordo in questo momento. In tre giorni Dio la arricchì di beni così grandi, che, se l'esperienza di ormai parecchi anni unita a progressi sempre crescenti non mi rendessero la cosa credibile, io la terrei impossibile. Un'altra lo fu nello spazio di tre mesi. Erano tutte e due di poca età. Ne vidi altre non ricevere questa grazia se non dopo molto tempo... Non si ha da por misura a un Padre così grande e così bramoso di concedere benefici".

1409.   3° Ordinariamente però e in via normale, Dio innalza di preferenza alla contemplazione le anime che vi si sono preparate col distacco, colla pratica delle virtù e coll'esercizio dell'orazione, massime dell'orazione affettiva.

Tal è l'insegnamento di S. Tommaso 1409-1, il quale dichiara che non si può giungere alla contemplazione se non dopo aver mortificato le passioni colla pratica delle morali virtù. (cfr. n. 1315).

S. Giovanni della Croce dice lo stesso, svolgendo ampiamente questa dottrina nella Salita del Monte Carmelo e nella Notte dell'Anima, ove dimostra che, per giungere alla contemplazione, bisogna praticare lo spogliamento più intiero ed universale e aggiunge che se vi sono così pochi contemplativi, è perchè pochi sono gli intieramente distaccati da se stessi e dalle creature: "se l'anima, egli dice, togliesse del tutto questi impedimenti e veli, rimanendosi in pura nudità e povertà di spirito, subito, già semplice e pura, si trasformerebbe nella semplice e pura sapienza divina che è il Figlio di Dio" 1409-2. S. Teresa vi batte sopra continuamente, raccomandando specialmente l'umiltà: "Fate prima ciò che venne raccomandato agli abitanti delle precedenti mansioni, e poi umiltà! umiltà! Per lei il Signore cede a tutti i nostri desideri... Io penso che quando Dio vuol concederla, la dà a persone che vanno già rinunziando alle cose di questo mondo, se non di fatto perchè impedite dal loro stato, almeno col desiderio, poichè le chiama ad attendere in modo speciale alle cose interiori. Quindi io sono persuasa che, se si lascia fare a Dio, non restringerà qui la sua liberalità verso anime che evidentemente chiama a salire più in alto" 1409-3.

1410.   4° Le principali virtù che bisogna praticare sono: a) una grande purità di cuore e un intiero distacco da tutto ciò che può condurre al peccato e turbar l'anima.

Come esempi di imperfezioni abituali che impediscono l'unione perfetta con Dio, S. Giovanni della Croce cita "il chiacchierar molto; qualche leggero attacco che non si ha il coraggio di rompere, a persona, a vestito, a libro, a cella, a cibo preferito, a piccole familiarità, a leggiere inclinazioni ai propri gusti, a volere saper tutto e sentir tutto, e altre simili soddisfazioni". E ne dà la ragione: "Fa lo stesso che un uccello sia legato a un filo sottile o a un grosso; perchè, sebbene sottile, vi starà legato come al grosso, finchè non lo spezzerà per volare... E così è dell'anima che è attaccata a qualche cosa; per quanto sia virtuosa, non giungerà alla libertà della divina unione" 1410-1.

1411.   b) Una grande purità di spirito, vale a dire la mortificazione della curiosità, che turba e inquieta l'anima, la distrae e la dissipa in tutte le parti. Ecco perchè coloro che per dovere del proprio stato hanno da leggere molto e da studiare, devono mortificare spesso la curiosità e fermersi di tanto in tanto per purificare l'intenzione e volgere tutti i loro studi all'amor di Dio. Questa purità vuole pure che si sappiano diminuire e a tempo opportuno abbandonare i ragionamenti nell'orazione, e semplificare gli affetti, per giungere a poco a poco a un semplice sguardo affettuoso su Dio. A questo proposito S. Giovanni della Croce biasima fortemente quegli inetti direttori che, altro non conoscendo che la meditazione discorsiva, vogliono obbligare tutti i penitenti a far incessantemente lavorare le loro potenze 1411-1.

1412.   c) Una gran purità di volontà con la mortificazione della propria volontà e col santo abbandono (nn. 480, 497).

d) Una viva fede che ci faccia vivere in tutto secondo le massime del Vangelo (n. 1188).

e) Un religioso silenzio onde poter trasformare in preghiera tutte le nostre azioni (n. 522-529).

f) Infine, e soprattutto, un ardente e generoso amore, che giunga sino all'immolazione di sè e alla gioconda accettazione di tutte le prove (n. 1227-1233).

II. Segni della chiamata prossima alla contemplazione.

1413.   Quando un'anima, coscientemente o incoscientemente, si è così disposta alla contemplazione, viene il momento in cui Dio le fa capire che deve lasciar la meditazione discorsiva.

Ora, dice S. Giovanni della Croce 1413-1, i segni che indicano questo momento sono tre.

1° "La meditazione diventa impraticabile, perchè l'immaginazione resta inerte e il gusto di questo esercizio è scomparso, e il sapore prodotto altre volte dall'oggetto a cui l'immaginazione s'applicava, si è cangiato in aridità. Quindi, finchè il sapore persiste e si può passare meditando da un pensiero all'altro, non bisogna abbandonarlo, salvo quando l'anima provasse la pace e la quiete di cui si parla nel terzo segno". La causa di questo disgusto, aggiunge il Santo, è che l'anima ha già quasi intieramente tratto dalle cose divine tutto il bene spirituale che con la meditazione discorsiva ne poteva trarre; onde non vi si sa più adattare, il gusto e il sapore più non ritornano; ed ha quindi bisogno di nuova via 1413-2.

1414.   2° Il secondo segno si manifesta colla "nesuna voglia di fissar l'immaginazione o il senso su qualsiasi oggetto particolare interno od esterno. Con ciò non intendo dire che l'immaginazione non vada o venga -- perchè essa anche nel profondo raccoglimento suole divagare -- ma che l'anima non ha nessun desiderio di fissarla di proposito su oggetti estranei".

E il Santo spiega così: "Avviene in questo nuovo stato che l'anima, mettendosi in orazione, assomiglia a uno che abbia acqua dinanzi a sè e soavemente la beva, senza sforzo e senza doverla cavare per mezzo dei tubi delle passate considerazioni e forme e figure. Di quisa [sic] che, appena si mette alla presenza di Dio, si trova in atto di conoscenza confusa, amorosa, pacifica e calma, in cui l'anima sta bevendo sapienza, amore e dolcezza. Questa è la ragione per cui l'anima sente pena e disgusto quando, stando in tal quiete, la vogliono far meditare e lavorare in particolari considerazioni. Le avviene allora come a un bambino, al quale, mentre sta poppando il latte già preparato e raccolto, si togliesse la mammella, costringendolo ad armeggiare e a spremere per riaverlo".

1415.   3° Il terzo e più certo segno è "se l'anima si compiace di starsene da sola con Dio, fissandolo con amorosa attenzione senza particolari considerazioni, in pace interna, quiete e riposo, senza atti ed esercizi delle potenze, memoria, intelletto e volontà, atti ed esercizi discorsivi, che consistono nel passar da una cosa all'altra; contentandosi della conoscenza e dell'attenzione generale ed amorosa di cui parliamo, senza particolare percezione d'altra cosa".

"Quest'amorosa cognizione generale è talora così delicata, così sottile, massime quando è più pura, semplice, perfetta, e più spirituale ed interna, che l'anima, pur stando in lei occupata, non se ne avvede e non la sente. Il che più frequentemente accade, come diciamo, quando questa conoscenza è in sè più chiara, pura, semplice e perfetta; e tale è quando investe un'anima molto netta e lontana da ogni altro genere di cognizioni e notizie particolari a cui l'intelletto o il senso possano appigliarsi... Essendo più pura e perfetta e semplice, meno la sente l'intelletto e più oscura gli sembra. Come per lo contrario quando questa conoscenza sta nell'intelletto meno pura e meno semplice, pare all'intelletto più chiara e di maggior pregio, essendo ella vestita o mescolata o involta in alcune forme intelligibili, più accessibili all'intelletto e al senso" 1415-1.

Il che egli spiega con un paragone: quando un raggio di sole penetra in una stanza, la vista lo coglie tanto meglio quanto è più carico di polvere; spoglio di questo polviscolo, è meno percepibile. Lo stesso avviene della luce spirituale: quanto più è viva e pura, e tanto meno è percepita, così che l'anima si crede allora nelle tenebre; se invece è carica di alcune specie intelligibili, è più facilmente percepibile e l'anima si crede meglio illuminata.

1416.   Notiamo qui con S. Giovanni della Croce che questi tre segni devono trovarsi tutti e tre insieme, perchè l'anima possa con tutta sicurezza abbandonar la meditazione ed entrare nella contemplazione. Aggiungiamo pure col medesimo Santo che, nei primi tempi in cui si gode della contemplazione, è vantaggioso riprendere talora la meditazione discorsiva; il che anzi diventa necessario se l'anima non si sente occupata nel riposo della contemplazione; allora infatti occorre la meditazione finchè l'anima non abbia acquistato l'abitudine di contemplare 1416-1.

Conclusione: Del desiderio della contemplazione.

1417.   Essendo la contemplazione infusa un ottimo mezzo di perfezione, è lecito desiderarla ma umilmente e condizionatamente, con santo abbandono alla volontà di Dio.

a) Che si possa desiderarla risulta dai numerosi suoi vantaggi, n. 1402: "la contemplazione è come l'inaffiamento che fa crescere le virtù e le fortifica, onde acquistano l'ultima loro perfezione" 1417-1.

b) Ma bisogna che questo desiderio sia umile, accompagnato dalla persuasione di esserne indegnissimi, e dal desiderio di non usarne che per la gloria di Dio e pel bene delle anime.

c) Dev'essere condizionato o subordinato in tutto al beneplacito di Dio. Non sarà quindi nè affannoso nè chimerico, rammentandosi che la contemplazione suppone normalmente la pratica delle virtù morali e teologali e che sarebbe persunzione desiderarla prima di essersi lungamente esercitati nelle dette virtù. Bisogna anche persuadersi bene che, se la contemplazione cagiona gaudi ineffabili, è pure accompagnata da prove terribili che le sole anime valorose possono sostenere colla grazia di Dio.

Il che si vedrà anche meglio dalla descrizione delle varie fasi della contemplazione.

ART. II. LE VARIE FASI DELLA CONTEMPLAZIONE.

1418.   La contemplazione infusa non è la stessa per tutti: Dio, che si diletta di variare i suoi doni e di adattarli ai temperamenti e alle indoli diverse, non vincola l'opera sua a rigidi schemi; ond'e che, leggendo i mistici, vi si trovano svariatissime forme di contemplazione 1418-1. Pare per altro che in tutta questa moltiplicità ci sia una certa unità, onde gli autori spirituali poterono classificare le tappe principali percorse dai mistici.

Non riferiremo qui le varie classificazioni fatte dai vari autori 1418-2, che distinguono gradi più o meno numerosi secondo l'aspetto sotto cui guardano la cosa; contando talvolta come gradi diversi quelli che in realtà non sono se non forme varie d'uno stesso stato.

1419.   Essendo, come tutti convengono, S. Teresa e S. Giovanni della Croce i due grandi dottori dell'unione mistica, ci atterremo alle loro divisioni, studiandoci di armonicamente combinarle. I vari gradi si distinguono da un dominio sempre maggiore di Dio sull'anima. 1° Quando s'impossessa della sommità o dell'apice dell'anima, lasciando le facoltà inferiori e i sensi liberi di darsi alla naturale loro attività, si ha l'orazione di quiete; 2° quando afferra tutte le interne facoltà, lasciando alla loro attività i soli sensi esterni, si ha l'unione piena; 3° quando s'impossessa nello stesso tempo delle interne facoltà e dei sensi esterni, si ha l'unione estatica (fidanzamento spirituale); 4° quando poi estende il suo dominio su tutte le facoltà interne ed esterne non più di passaggio ma in modo stabile e permanente, si ha il matrimonio spirituale. Tali sono i quattro gradi distinti da S. Teresa. S. Giovanni della Croce vi aggiunge le due notti o prove passive; ma la prima non è che una specie di quiete arida e penosa; la seconda comprende tutto il complesso delle prove che precedono il matrimonio spirituale e che avvengono nell'unione piena e nell'unione estatica.

Tratteremo dunque:

§ I. L'orazione di quiete.

Quest'orazione generalmente si presenta prima nella forma arida per terminare poi nella soave.

I. Della quiete arida o della notte dei sensi.

1420.   Abbiamo detto che per la contemplazione si richiede grande purità di cuore. Ora anche le anime progredite vanno ancor soggette a molte imperfezioni e sentono rinascere in sè, in forma attenuata, i sette vizi capitali, n. 1264. A purificarle e prepararle a più alto grado di contemplazione, Dio manda loro varie prove, che si dicono passive perchè è Dio stesso che le causa e l'anima non ha che da pazientemente accettarle.

Nessuno descrisse queste prove meglio di S. Giovanni della Croce nella Notte oscura; le chiama notte perchè l'azione divina, legando fino a un certo punto le facoltà sensibili per asoggettarle alla mente e impedendo alla mente di ragionare, questa viene a trovarsi in una specie di notte: per un verso non può più discorrere come prima e per l'altro la luce della contemplazione che riceve è così debole e così penosa che si crede immersa in una notte oscura. Il Santo distingue due notti: la prima è destinata specialmente a staccarci da tutto il sensibile e si chiama notte dei sensi; la seconda ci distacca dalle consolazioni spirituali e da ogni amor proprio.

1421.   Qui non parliamo che della prima notte:

"Dio, dice S. Giovanni della Croce 1421-1, pone l'anima in questa notte sensitiva, a fine di purificare il senso della parte inferiore, e addattarlo, assoggettarlo e unirlo allo spirito, oscurandolo e facendolo cessare dai discorsi".

È uno stato spirituale complesso, uno strano misto di tenebre e di luce, di aridità e di intenso amor di Dio allo stato latente, di impotenza reale e di confusa energia, che è difficile analizzare senza cadere in apparenti contraddizioni. Bisogna leggere lo stesso S. Giovanni della Croce, servendosi del filo conduttore che cercheremo di dare. A questo fine esporremo:

1° GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DI QUESTA PROVA.

1422.   A) Il primo e più essenziale è la contemplazione infusa, che Dio comincia a comunicare all'anima ma in modo segreto ed oscuro, di cui l'anima non ha coscienza e che cagiona dolorosa e affannosa impressione. "È, dice il Santo 1422-1, un principio di oscura ed arida contemplazione per il senso, la quale resta nascosta e segreta a quello stesso che la possiede. Ordinariamente insieme con questa aridità e vuoto del senso dà pure all'anima inclinazione e voglia di starsene da sola e in quiete senza poter pensare a cosa alcuna particolare nè averne voglia".

A far capire questo stato, il Santo usa più avanti 1422-2 un paragone che è bene aver fin d'ora sotto gli occhio: "Quando si getta un pezzo di legno umido nel fuoco, la prima cosa che il fuoco fa è di cominciare a seccarlo, facendogli gemere l'interno umore. Poi lo rende nero, oscuro, brutto e di cattivo odore, e seccandolo a poco a poco, l'accende,... e finalmente lo trasforma in fiamma brillante come lo stesso fuoco... divenuto caldo, riscalda; luminoso, illumina". Qualche cosa di simile avviene quando l'anima, piena ancora d'imperfezioni, è gettata nel fuoco divino della contemplazione; questa, prima di trasformar l'anima, la purifica da ogni sozzura, la rende nera e oscura ai propri occhi, tanto che le pare d'essere peggiore di prima; prima infatti ignorava le sue miserie e la contemplazione gliele fa così chiaramente vedere che, scoprendo ora quello che ignorava, le sembra che la sua indegnità debba eccitar l'orrore di Dio, sebbene nè in sè nè dinanzi a Dio ella sia più cattiva di prima 1422-3.

1423.   B) Questa contemplazione latente produce nell'anima una grande aridità, non solo nelle facoltà sensibili che restano prive di consolazione, ma anche nelle facoltà superiori che non possono più meditare in modo discorsivo come prima. Dolorosa condizione; abituati alla luce, si trovano ora immersi nell'oscurità; essi, che prima facevano ottima meditazione discorsiva traendo dal cuore numerosi affetti, hanno ora perduto questa facilità e l'orazione riesce loro penosissima.

Lo stesso avviene per la pratica delle virtù: gli sforzi che prima giocondamente facevano per diventar virtuosi, costano ora e spaventano.

1424.   È però cosa importante distinguere quest'aridità purificatrice dall'aridità causata dalla negligenza e dalla tiepidezza. Per questa distinzione S. Giovanni della Croce indica tre segni.

1) Non si sente maggior gusto nelle creature che in Dio; se ne sente anzi meno, mentre che i tiepidi, che non hanno gusto per le cose divine, ne hanno invece per i terreni diletti. Può tuttavia accadere, aggiunge il Santo, che questo generale disgusto provenga da indisposizione o tristezza naturale; onde è necessario che a questo primo segno s'aggiunga il secondo.

2) Si ha abitualmente il pensiero di Dio, ma accompagnato da ansietà, da affanno, da disagio, perchè si teme di non servirlo abbastanza bene, di andare anzi indietro per ragione della mancanza di gusto nelle cose divine; nella tiepidezza invece non si ha nessuna interna premura per le cose divine; parimenti quando l'aridità proviene da debolezza fisica, non si ha che disgusto naturale e non v'è cenno di quel desiderio di servire Dio che è segno distintivo dell'aridità purificatrice e che la contemplazione oscura mette nell'anima.

3) Infine si è nell'incapacità di meditare in modo discorsivo, tanto che, a tentarlo, non si riesce a nulla. "La ragione è che Dio comincia allora a comunicarsi, non più per via dei sensi, come faceva prima per mezzo del discorso che richiama ed ordina le cognizioni, ma per via del puro spirito in cui non v'è discorso successivo e ove Dio si comunica con atto di semplice contemplazione" 1424-1. Osserva però che questa incapacità non sempre avviene e che si può talora ritornare alla meditazione ordinaria.

Notiamo pure che questa impotenza non si fa ordinariamente sentire che nelle cose spirituali, potendo poi uno attivamente occuparsi dei propri studi e dei propri affari.

1425.   C) Si associa a questa aridità un doloroso e persistente bisogno di più intima unione con Dio. "A principio ordinariamente questo amor non si sente ma l'aridità e il vuoto di che discorriamo; e allora, in cambio di questo amore che si viene poi accendendo, ciò che muove l'anima in mezzo a quelle aridità e vuoti delle potenze è un'ordinaria premura e sollecitudine di Dio con pena e timore di non bene servirlo... Tal sollecitudine e premura è posta nell'anima da quella segreta contemplazione, la quale, quando abbia poi col tempo purgato in parte il senso, vale a dire la parte sensitiva delle forze e delle affezioni naturali per mezzo delle aridità a cui la riduce, fa che l'amor di Dio incominci a infiammare lo spirito. Prima di quest'ora l'anima è come un malato sottoposto a cura; e in questa notte oscura tutto è patimento e arida purgazione dell'appetito" 1425-1.

L'anima è dunque orientata verso Dio e non cerca più le creature, ma è orientazione ancor vaga e confusa, è come la nostalgia di Dio assente; vuole unirsi a lui e possederlo. Se non sperimentò ancora la quiete soave, è attrazione confusa, segreto bisogno, disagio indefinibile, ma se già gustò l'unione mistica, è franco desiderio di tornare a questa unione 1425-2.

2° LE PROVE CHE ACCOMPAGNANO QUESTA PRIMA NOTTE.

1426.   Gli autori spirituali ne fanno generalmente una esposizione terribile, perchè descrivono ciò che avvenne nell'anima dei Santi, i quali, essendo chiamati ad alta contemplazione, dovettero portare pesantissime croci. Ma altri, chiamati a grado meno alto, sono pure meno provati; cosa buona a sapersi, per tranquillare certe anime timide che dalla paura della croce potrebbero essere impedite dall'entrare in questa via. Bisogna poi ricordarsi che Dio proporziona le grazie alla grandezza delle prove.

A) Oltre la persistente aridità di cui abbiamo parlato, l'anima soffre pure terribili tentazioni: 1) contro la fede: non sentendo nulla, le pare di non creder nulla; 2) contro la speranza: priva di consolazioni, si crede abbandonata, tentata com'è di noia e di scoraggiamento; 3) contro la castità: si palesa allora "l'angelo di Satana, che è spirito di fornicazione, per flagellarla nei sensi con forti e abbominevoli tentazioni e tribolarla nello spirito con sozzi pensieri e vivissime rappresentazioni nella fantasia pena talora più dolorosa della morte" 1426-1; 4) contro la pazienza: in tante noie si è inclinati a mormorare di sè e degli altri; pensieri di bestemmia si presentano alla fantasia in modo così vivo che pare che la lingua ne pronunzi le parole; 5) contro la pace dell'anima: assediati da mille scrupoli e perplessità, s'arruffano talmente nelle idee che non possono nè seguire un consiglio nè cedere ad un ragionamento; è questa una delle pene più vive.

1427.   B) È provata pure da parte degli uomini: 1) qualche volta dai miscredenti che la abbeverano di ogni sorta di persecuzioni: "Et omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu, persecutionem patientur1427-1; 2) ma anche da parte dei superiori e degli amici, che, non comprendendo questo stato, sono male impressionati da quei cattivi successi e da quelle persistenti aridità; 3) qualche volta perfino da parte del direttore, che ora confonde questo stato con la tiepidezza, ora è impotente a consolare cosiffatte angustie.

C) Mali esterni vengono talora ad accrescere questi interni patimenti: 1) si è colti da strane malattie che lasciano i medici confusi; 2) non si riesce più come prima nelle cose o per l'impotenza in cui uno si trova o perchè si è immersi nelle interne pene; uno si sente come inebetito, tanto che se ne accorgono anche gli altri; 3) si incorrono talora perdite temporali cha lasciano in malsicura condizione. Insomma si direbbe che il cielo e la terra siano congiurati contro queste povere anime.

In molti casi tali prove possono esere naturali o appartenere al numero di quelle che Dio manda alle anime fervorose a fine di perfezionarle. Ma, in altri, sono veramente prove mistiche; e si riconoscono alla subitaneità, all'acerbità, e ai buoni effetti che cagionano nell'anima.

3° VANTAGGI DI QUESTA PURIFICAZIONE.

È già vantaggio immenso l'essere introdotti nella contemplazione passiva, anche se oscura e dolorosa. Ma ve ne sono altri che S. Giovanni della Croce chiama accessori.

1428.   1° La conoscenza sperimentale di sè e delle proprie miserie: "Questa notte... fa capire all'anima che da sè non fa nulla e non può far nulla; ond'ella più non si stima e non trova in sè soddisfazione. Or questa poca soddisfazione di sè e lo sconforto che sente di non ben servir Dio vengono da Dio stimati più di tutte le opere e gusti che prima essa godeva... Ne nasce pure un modo più rispettoso e più circospetto di trattar con Dio, modo sempre richiesto quando si ha da trattar coll'Altissimo; il che l'anima non faceva nella prosperità del suo gusto e della sua consolazione. Il goduto favore rendeva l'appetito un poco troppo audace verso Dio e meno rispettoso di quanto doveva" 1428-1. Onde la virtù della religione vi guadagna.

1429.   2° La conoscenza di Dio diviene più pura e più vera e l'amore più libero dal sensibile diletto. L'anima non cerca più le consolazioni e vuole unicamente piacere a Dio: "Non più presunzione nè compiacenza di sè come nel tempo della prosperità, ma piuttosto diffidenza e paura di sè, non avendo di sè soddisfazione alcuna; nel che sta il timora di Dio che conserva ed accresce le virtù" 1429-1.

1430.   3° Onde uno si libera dai vizi capitali di forma raffinata (cf. n. 1263).

a) Si pratica l'umiltà non solo rispetto a Dio, ma anche rispetto al prossimo: "L'anima infatti, vedendosi arida e miserabile, neppure con un primo moto concepisce l'idea di essere più perfetta degli altri... li riconosce anzi migliori di sè. Nasce quindi in lei l'amore del prossimo: è ora piena di stima per tutti; non più come prima quando vedeva sè con molto fervore e gli altri no. Conosce ora bene la propria miseria e la tiene talmente dinanzi agli occhi che non ha più nè tempo nè voglia di fissarli nell'altrui" 1430-1.

b) Si pratica pure la sobrietà spirituale: non potendo più pascersi di consolazioni sensibili, l'anima a poco a poco si distacca da quelle come da tutti i beni creati, per non attendere più che ai beni eterni; onde ha principio la pace spirituale, perchè le consolazioni e gli attacchi alle creature ne turbavano il cuore. E in tal pace si coltiva la fortezza, la pazienza, la longanimità, perseverando in esercizi che non hanno nè consolazioni nè allettative.

c) Quanto ai vizi spirituali, come l'invidia, la collera, l'accidia, l'anima se ne libera e acquista le virtù opposte: divenuta, per effetto delle aridità e delle tentazioni, docile ed umile, si irrita meno facilmente contro il prossimo e contro se stessa.; all'invidia succede la carità, perchè l'umiltà le fa ammirare le doti altrui; e quanto più scorge i proprii difetti, tanto più sente la necessità di lavorare e di sforzarsi a correggersene.

1431.   4° Dio poi mescola a queste aridità alcune consolazioni spirituali; quando l'anima meno vi pensa, le comunica vivissimi lumi intellettuali e purissimo amore; favori di molto superiori a quelli fin allora provati e più santificativi, benchè sul principio così non sembri all'anima perchè quest'influsso rimane segreto.

Riepilogando diremo che queste aridità fanno camminar l'anima con purità nell'amor di Dio; non opera più per amor di consolazioni e vuole piacere unicamente a Dio. Non più presunzione nè vana compiacenza come nel tempo del fervore sensibile; non più moti affannosi, nè slanci naturali troppo vivi; comincia a regnare nel cuore la pace spirituale 1431-1.

Conclusione: Condotta da tenere in questa prova.

1432.   Il direttore delle anime che passano per questa prova deve mostrarsi pieno di bontà e di premura per loro; illuminarle e consolarle, dicendo francamente che si tratta di una prova purificatrice, onde usciranno migliori, più pure, più umili, più sode nella virtù, più accette a Dio.

a) La disposizione principale che deve inculcare è il santo abbandono: bisogna baciare la mano che ci colpisce, riconoscendo che abbiamo ben meritato queste prove; unirsi a Gesù nella sua agonia e umilmente ripeterne la preghiera: "Padre, se è possibile, passi da me questo calice! però non come voglio io ma come vuoi tu: Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste; verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu1432-1.

b) Bisogna pure, non ostante l'aridità, perseverar nell'orazione, uniti con nostro Signore che, nonostante l'agonia, continuava a pregare: "factus in agoniâ prolixius orabat1432-2. Convien rammentare le parole di S. Teresa 1432-3: "Per quanti difetti venga a commettere chi si è dato all'orazione, badi bene di non lasciarla, perchè è il mezzo con cui può riuscire a correggersi, ciò che senza di lei gli sarà assai più difficile. Non lo tenti il demonio, come tentò me, di lasciarla per umiltà"; e noi potremmo aggiungere sotto pretesto d'inutilità.

1433.   c) Ma non si deve tornare alla meditazione discorsiva, riconosciuta che sia la propria impotenza a farla; bisogna lasciar l'anima in riposo, anche se paia che non si faccia nulla, contentandosi di un affettuoso e tranquillo sguardo su Dio.

Quando un pittore fa il ritratto d'una persona, non deve costei muovere continuamente il capo, altrimenti l'artista non riuscirebbe a finire il lavoro; così, quando Dio vuol dipingere il suo ritratto nell'anima nostra e sospende l'attività delle nostre potenze, noi non dobbiamo far altro che starcene in pace e con questa pace s'accende in noi e arde ognor più lo spirito d'amore 1433-1. Questo stato di riposo non è disoccupazione ma occupazione di diverso genere che esclude la pigrizia e il torpore; onde bisogna scacciar le distrazioni. E se, per riuscirvi, occorresse tornare alle considerazioni, si faccia pur liberamente appena sia possibile senza violenti sforzi.

1434.   d) Le virtù poi è chiaro che bisogna continuare a coltivarle, massime quelle che corrispondono a tale stato: l'umiltà, la rinunzia, la pazienza, la carità verso il prossimo, l'amor di Dio nella dolce conformità alla santa sua volontà, la confidente preghiera: tutto sotto forma di santo abbandono nelle mani di Dio. Chi animosamente così si regoli, troverà in questo stato una vera miniera d'oro che potrà sfruttare a maggior bene dell'anima.

e) La durata della prova varia secondo i disegni di Dio, il grado d'unione a cui destina l'anima e il maggiore o minor numero di imperfezioni che restano da purificare: gli autori spirituali dicono che può andare da due a quindici anni 1434-1. Ma vi sono intervalli di tregua, in cui l'anima respira, gode di Dio e riprende forza per nuove lotte. Dunque pazienza, fiducia e santo abbandono: ecco in breve quello che il direttore dovrà consigliare a queste anime tribolate.

II. Della quiete soave.

1435.   Per questo stato e pei seguenti ci gioveremo principalmente delle opere di S. Teresa, che queste orazioni descrisse con sicurezza, rilievo ed esattezza incomparabili. A questa orazione dà vari nomi: quarta mansione del Castello od orazione dei gusti divini, perchè è la prima in cui si avverte la presenza di Dio per via di un certo gusto spirituale; nella Vita (c. XIV) la chiama orazione di quiete e la simboleggia nel secondo modo di irrigazione 1435-1. Altri la denominano orazione di silenzio, appunto perchè l'anima cessa di discorrere.

Questa orazione ha come tre fasi distinte:

1° IL RACCOGLIMENTO PASSIVO.

1436.   A) Natura. Questo raccoglimento è detto passivo per distingerlo dal raccoglimento attivo che si acquista coi nostri sforzi aiutati dalla grazia (n. 1317); il raccoglimento passivo infatti non si ottiene "per opera dell'intelletto, procurando di considerar Dio dentro di noi, nè per mezzo dell'immaginazione, rappresendandocelo in noi" 1436-1, ma coll'azione diretta della grazia divina sulle nostre facoltà. Per questo S. Teresa lo dice la prima orazione soprannaturale che abbia sperimentata: "L'orazione di cui parlo è un raccoglimento interiore che si sente nell'anima, onde pare che abbia dentro di sè dei sensi interni come ha di fuori gli esterni. Pare che voglia, ritirandosi in se stessa, appartarsi dai tumulti esteriori; e sentendoseli alcuna volta venir dentro, le vien voglia di chiudere gli occhi e non vedere, nè udire, nè intendere se non quello in che allora si occupa, che è di poter trattar con Dio da sola a solo. Qui non si perde alcun senso o potenza, poichè tutto rimane intiero ma per occuparsi in Dio" 1436-2.

Altrove lo spiega con un grazioso paragone: le nostre facoltà, uscite dal castello per andarsene con estranei, riconoscendosi poi in colpa, si riavvicinarono al castello senza però rientrarvi. Il gran Re, che abita nel centro del Castello, si degna nella sua grande misericordia di richiamarle a sè: "A guisa di buon pastore, con un fischio tanto soave che quasi esse stesse non l'intendono, fa che conoscano la sua voce e che non vadano tanto perdute ma tornino alla loro mansione. Questo fischio del pastore ha su loro tanta forza che, abbandonando le cose esteriori in cui stavano distratte, rientrano nel castello. Parmi di non aver mai spiegato questo pensiero così bene come ora" 1436-3. S. Francesco di Sales 1436-4 porta un altro paragone non meno espressivo: "Come chi ponesse un pezzo di calamita in mezzo a molti aghi, vedrebbe subito tutte queste punte volgersi verso la diletta calamita e venire ad attaccarsele, così quando Nostro Signore ci fa sentire in mezzo all'anima la deliziosissima sua presenza, tutte le nostre facoltà là volgono la punta per unirsi a quell'incomparabile dolcezza".

Si può quindi definire questo raccoglimento passivo: una dolce e affettuosa immersione dell'intelletto e della volontà in Dio, prodotta da una grazia speciale dello Spirito Santo.

1437.   B) Condotta da tenere. Questo favore è ordinariamente il preludio dell'orazione di quiete, ma potrebbe anche essere solo cosa passeggiera, come avviene in certe occasioni in cui si è più fervorosi, per esempio nel giorno della vestizione, dei voti, dell'ordinazione. Onde due conclusioni pratiche:

a) Se Dio ci dà questo raccoglimento, impediamo soavemente all'intelletto di discorrere, senza però fare sforzi per sospenderlo.

"Senza violenza o strepito, procuri l'anima di troncare il discorso dell'intelletto ma non di sospendere nè l'intelletto nè il pensiero; solo è bene che si ricordi che sta dinanzi a Dio e chi è questo Dio. Se il medesimo Dio che sente in sè, lo sospenderà, tanto meglio; ma non si curi di intendere che cosa sia questo, perchè è dono fatto alla volontà. Lasci che ella se lo goda senza industria alcuna salvo alcune amorose parole" 1437-1.

b) Ma se Dio non ci parla al cuore, dice S. Teresa, "se conosciamo che questo Re non ci ha sentiti nè ci guarda, badiamo di non star lì come balordi" 1437-2. Perchè quando l'anima si sforza d'incatenare il pensiero, cade in maggiore aridità di prima, e la stessa violenza che si fa per non pensare a nulla, le rende più inquieta la fantasia. E poi noi non dobbiamo pensare che alla gloria di Dio e non a consolazioni e a gusti nostri. Quando Dio vuole che l'intelletto cessi di operare, l'occupa altrimenti e l'istruisce meglio che non farebbe la nostra attività. Ma, fuori di questo caso, le nostre facoltà sono fatte per operare.

2° LA QUIETE PROPRIAMENTE DETTA.

Esponiamone la natura, l'origine e i progressi, le varie forme, e la condotta da tenere.

1438.   A) Natura. In quest'orazione, la parte superiore dell'anima, intelletto e volontà, è afferrata da Dio che le fa gustare riposo soavissimo e vivissimo gaudio della sua presenza; ma la ragione o potere di ragionare, la memoria e la fantasia restano libere e sono talora fonte di distrazioni.

a) Ecco come S. Teresa spiega il carattere soprannaturale di quest'orazione e il modo onde la volontà è afferrata da Dio 1438-1: "Questa è già cosa soprannaturale che noi non ci possiamo procurare per quante diligenze facciamo. Perchè è un mettersi dell'anima in pace o, per dir meglio, un mettervela il Signore con la sua presenza, come fece col giusto Simeone. Allora tutte le potenze si quietano e l'anima intende, in una maniera molto diversa dal modo d'intendere dei sensi esterni, che già si trova presso Dio e che con un altro poco arriverà a trasformarsi in lui per union d'amore. Questo non è perchè lo veda con gli occhi del corpo nè con quelli dell'anima... Ma si vede nel regno (o almeno accanto al Re che glie lo ha da dare) e pare che stia con tanta riverenza che nè anco ardisca di chiedere".

"La volontà sola è qui la prigioniera, e se alcuna pena può sentire stando così, è il vedere che ha da tornare ad aver libertà... Niuna cosa dà loro pena nè pare che abbia a dargliela. In somma per tutto il tempo che dura, tutte le facoltà, per la soddisfazione e il diletto che sentono dentro, stanno così immerse ed assorte che non vedono altro da bramare e direbbero volentieri con S. Pietro: "Signore, facciamo qui tre tende".

Essendo prigioniera la sola volontà, le altre due potenze possono divagare, onde la Santa aggiunge 1438-2: "La volontà non faccia caso di loro, ma stiasi nel suo godimento e nella sua quiete. Perchè se vorrà raccoglierle, si smarriranno tutte e tre insieme". Specialmente l'immaginazione va talora in giro e ci stanca col suo chiasso assordante: una vera bàttola da mulino: "lasciamo andare questa bàttola da mulino e attendiamo a macinare la nostra farina, non lasciando di operare con la volontà e coll'intelletto" 1438-3.

1439.   b) Il gaudio spirituale prodotto nella quiete è molto diverso da quello che si gusta nell'orazione attiva. Il che viene da S. Teresa spiegato paragonando i gusti divini causati dalla contemplazione coi contenti o consolazioni dell'orazione attiva. C'è tra loro una doppia differenza proveniente dall'origine e dagli effetti.

1) I gusti divini provengono direttamente dall'azione di Dio, mentre i contenti provengono dalla nostra attività aiutata dalla grazia.

A farlo capire si serve della similitudine di due vasche, delle quali l'una è alimentata da un acquedotto che, prendendo l'acqua da lontano, fa che l'acqua vi entri rumorosamente; è l'immagine delle consolazioni che si gustano nell'orazione attiva; e l'altra è alimentata da una sorgente che zampilla dallo stesso suo fondo e si riempie senza strepito alcuno: immagine della contemplazione e cui l'acqua della consolazione "scorre con grandissima pace e quiete e soavità dal più intimo dell'anima" 1439-1.

2) Quindi i gaudii della contemplazione sono di molto superiori a quelli dell'orazione attiva: "Appena quell'acqua celestiale principia a uscire dalla sua vena... pare che il nostro interno si vada tutto ampliando e dilatando. Si producono allora beni spirituali che non si possono esprimere; e neppur l'anima sa intendere che cosa sia quello che le vien dato in quel momento. Sente una singolare fragranza. Per servirmi d'un paragone, è come se in quel fondo interiore stesse un braciere ove si gettassero odoriferi profumi" 1439-2. Ma la Santa aggiunge che è paragone molto imperfetto. Nella Vita 1439-3 afferma che queste delizie somigliano a quelle del cielo e che l'anima perde il desiderio delle cose della terra: "perchè vede chiaramente che neppure un istante di quella felicità può aversi quaggiù e che non vi sono nè ricchezze, nè signorie, nè onori, nè diletti, che possano darle, neppure per un attimo, questo vero contento e un così pieno appagamento".

La causa principale di questa gioia è la sentita presenza di Dio:

"Vuole Dio per sua munificenza che quest'anima conosca che le sta tanto vicino che non ha più bisogno d'inviargli messageri. Può parlargli lei stessa e senza alzare la voce, perchè le sta tanto dappresso che con un solo muover di labbro la intende" 1439-4. È vero, aggiunge, che Dio è sempre con noi, ma qui si tratta d'una presenza speciale: "Vuole questo Imperatore e Signor nostro che intendiamo qui che egli ci intende e quali sono gli effetti della sua presenza e che vuole cominciare a operare nell'anima particolari meraviglie con quella tanta soddisfazione interna ed esterna che le dà" 1439-5.

1440.   c) Questa dilatazione dell'anima induce ottime disposizioni virtuose e specialmente: il timore di offendere Dio, che prende il posto del timore dell'inferno, l'amore della penitenza e delle croci, l'umiltà e il disprezzo dei mondani diletti:

1) "Non si sente più stringere dal timore dell'inferno, perchè, sebbene le resti maggior timore d'offendere Dio, il timore servile qui si perde e rimane il filiale con gran confidenza d'averlo un giorno o possedere. [sic] 2) Invece di temere come prima di rovinarsi la sanità facendo penitenza, le pare ora che tutto potrà in Dio, e per farla ha desideri maggiori di quelli finallora avuti. Prima temeva le croci, ora le teme di meno perchè la fede è più viva; sa infatti che, se le abbraccia per amor di Dio, la divina Maestà le darà la grazia di sopportarle pazientemente. Anzi alcune volte le desidera, perchè le rimane una gran volontà di far qualche cosa per lui. 3) Conoscendo meglio la grandezza di Dio, si tiene ora per più meschina. 4) Avendo gustato le delizie di Dio, vede che sono spazzatura quelle del mondo, e se ne va a poco a poco allontanando ed è più padrona di sè per farlo. Resta finalmente migliorata in tutte le virtù e andrà sempre crescendo se non che sia un'anima in grande altezza di contemplazione e di virtù, tutto si perde" 1440-1.

1441.   Definizione. Da questa descrizione si può dunque conchiudere che la quiete è un'orazione soprannaturale, non intieramente passiva, che avviene nella parte superiore dell'anima e le fa sentire e gustare Dio presente in lei.

È orazione soprannaturale, vale a dire infusa, e in ciò ci stacchiamo da alcuni Carmelitani che, considerandola come orazione di transizione, pensano che possa essere acquisita come l'orazione di semplicità. Ma diciamo con loro che non è intieramente passiva, perchè solo la volontà (coll'intelletto) è prigioniera, mentre la ragione e l'immaginazione restano libere di divagare. Quanto ai gusti divini e alla virtù che ne sono gli effetti, li abbiamo altrove sufficientemente spiegati n. 1439.

1442.   B) Origine e progresso della quiete. a) La quiete è ordinariamente concessa alle anime che si sono già per notevole spazio di tempo esercitate nella meditazione e che passarono per la notte dei sensi. Talora però precede quest'ultima, specialmente nei giovinetti e nelle anime innocenti che non hanno bisogno di speciale purificazione.

b) A principio non è concessa che di tanto in tanto, in modo assai debole ed inconscio; dura poco, per esempio, dice S. Teresa, lo spazio di un'Ave Maria 1442-1. Poi diventa più frequente continuando di più, fino a una mezz'ora. Ma, non venendo sempre repentinamente nè scomparendo tutto d'un tratto, può, coll'alba e col crepuscolo, giungere sino a un'ora o anche più. Anzi, quando è operosa (n. 1445) e accompagnata da ebbrezza spirituale, può durare uno o due giorni senza per altro impedire di attendere alle occupazioni ordinarie.

c) La quiete saporosa può alternarsi colla quiete arida, finchè non sia compiuta la purificazione dell'anima.

d) Viene poi il tempo in cui la quiete diviene abituale e allora ordinariamente vi si entra appena uno si mette in preghiera; anzi alcune volte coglie l'anima all'improvviso persino nelle occupazioni più volgari. Tende pure a farsi sempre più forte e più consapevole, e, se l'anima corrisponde alla grazia, finisce nell'unione piena e nell'estasi. Che se è infedele, l'anima può decadere e tornare all'orazione discorsiva o anche perdere la grazia.

1443.   C) Forme o varietà della quiete. Se ne distingono tre principali: la quiete silenziosa, la orante, la operosa 1443-1.

a) Nella quiete silenziosa l'anima contempla Dio in un silenzio pieno d'amore, perchè l'ammirazione soffoca, a così dire, ogni parola; la volontà, immersa in Dio, infiammata d'amore, deliziosamente riposa in lui in calma, tranquilla, saporosa unione.

L'anima, come madre che divora cogli occhi il suo bambino, contempla ed ama Dio. "Sta, dice S. Teresa 1443-2, come un bambino ancor lattante, quando sta in seno alla madre e la madre, senza che egli poppi, gli stilla per affetto il latte in bocca". Così qui la volontà beve all'amore senza sforzo della mente.

1444.   b) Talora l'anima, non potendo più contener l'amore, si sfoga in ardente preghiera: è la quiete orante: ora si effonde in dolci colloqui; ora s'abbandona ad impeti di tenerezza e invita tutte le creature a lodar Dio: "dice mille sante stranezze, mirando sempre a piacere a Colui che la tiene così" 1444-1.

S. Teresa faceva allora poesie a descrivere il suo amore e il suo tormento. E Dio risponde qualche volta a questi slanci d'amore con affettuose carezze che producono una specie di ebbrezza spirituale, "la quale, secondo S. Francesco di Sales, ci aliena non dai sensi spirituali ma da quelli corporali, non ci inebetisce nè ci abbrutisce ma ci rende creature angeliche... e ci divinizza... e ci fa uscire fuori di noi per innalzarci sopra di noi" 1444-2.

1445.   c) Vi sono casi in cui la quiete diviene operosa. Quando, dice S. Teresa 1445-1, la quiete è profonda e di lunga durata, essendo incatenata la sola volontà, le altre facoltà rimangono libere di occuparsi nel servizio di Dio, e lo fanno con molto maggiore operosità; allora, pur attendendo ad opere esterne, l'anima non cessa d'amare ardentemente Dio; si ha quindi l'unione di Marta e di Maria, dell'azione e della contemplazione.

IL SONNO DELLE POTENZE.

1446.   Questa terza fase della quiete è forma più alta e prepara l'unione piena delle facoltà interne.

S. Teresa la descrive nel capo XVII° della Vita 1446-1: "Vi è un'altra maniera di unione... Accade spesso in questa maniera di unione che intendo dire (e in particolare a me) che Dio s'impossessa della volontà ed anche, io credo, dell'intelletto, perchè non discorre ma sta occupato in goder Dio, come chi sta guardando fissamente e tante cose gli si presentano da vedere che non sa dove fissar lo sguardo e non può render conto di nessuna. La memoria però rimane libera e dev'essere insieme colla immaginazione. Vedendosi sola, è cosa da stupire la guerra che fa questa potenza e come procura di turbare ogni cosa. Questo a me reca grande affanno e l'abborisco e spesso prego il Signore che me la tolga... Pare una di quelle farfalle notturne, importune e inquiete; così va ella da un capo all'altro. Mi pare che il paragone calzi egregiamente, perchè, quantunque non abbia forza di fare alcun male, tuttavia importuna e infastidisce quelli che la vedono"... Quanto ai mezzi di trionfare di tali scorribande, ne indica uno solo: "non far più caso della memoria o fantasia che si faccia d'un pazzo, lasciandola con la sua pazzia, perchè Dio solo glie la può levare". -- Come si vede, si tratta di un'orazione di quiete in cui l'intelletto stesso è afferrato da Dio, ma dove la fantasia e la memoria continuano a divagare. È preparazione all'unione piena.

CONDOTTA DA TENERE NELL'ORAZIONE DI QUIETE.

1447.   La disposizione generale da coltivare in questo stato è quella di umile abbandono nelle mani di Dio in tutte le fasi di questa orazione dagli inizi sino al suo compimento.

a) Onde non bisogna fare sforzi per mettersi da sè in questo stato, cercando di sospendere le facoltà e perfino il respiro: sarebbe fatica sprecata, perchè Dio solo può darci la contemplazione.

b) Appena si sente l'azione divina, bisogna adattarvisi più perfettamente che sia possibile, cessando di ragionare e docilmente seguendo il moto della grazia:

1) Se siamo chiamati all'affettuoso silenzio, guardiamo e amiamo senza dir nulla, o tutt'al più diciamo di tanto in tanto qualche tenera parola per ravvivare la fiamma dell'amore, ma senza sforzi violenti che potrebbero spegnerla.

2) Se siamo inclinati a fare atti, se gli affetti sgorgano spontaneamente, preghiamo adagio adagio, senza strepito di parole, ma con gran desiderio d'essere esauditi. "Alcune pagliuzze poste con umiltà... saranno qui più opportune e serviranno meglio ad accendere il fuoco che non molte legna insieme di ragionamenti molto dotti a parer nostro, e che potrebbero in un attimo spegnere quella scintilla" 1447-1. Bisogna soprattutto, aggiunge S. Francesco di Sales 1447-2, evitare gli slanci violenti e indiscreti che spossano il cuore e i nervi, e quelle riflessioni sopra se stessi con cui uno si affanna a sapere se la tranquillità di cui gode è veramente tranquilla.

3) Se la mente è l'immaginazione divagano, non occorre inquietarsi nè inseguirle; la volontà "rimanga a godersi il favore che le è concesso come un'ape sapiente in fondo all'alveolo. Se in cambio di entrare nell'alveare, le api si corressero tutte in cerca le une delle altre, come si potrebbe fare il miele?"

§ II. Orazione di unione piena.

1448.   Quest'orazione che corrisponde alla quinta mansione, viene detta unione semplice o unione piena delle facoltà interne, perchè l'anima è unita a Dio non solo con la volontà ma anche con tutte le facoltà interne, onde è più perfetta dell'orazione di quiete. Ne descriveremo:

I. Natura dell'orazione d'unione.

1449.   1° I caratteri essenziali sono due: la sospenzione di tutte le potenze, e la certezza assoluta che Dio è presente nell'anima.

"Tornando dunque, dice S. Teresa 1449-1, al segno che dico essere il vero (per conoscere le opere di Dio, cioè il credere che Dio può fare assai più di quello che possiamo pensar noi), voi vedete che Dio ha reso quest'anima quasi stordita per meglio imprimere in lei la sua sapienza; non vede, nè ode, nè sente, in tutto quel tempo che dura questo favore, tempo sempre breve, che a lei pare anche più breve di quello che veramente è". In altre parole non solo la volontà, ma l'intelletto, l'immaginazione e la memoria sono sospese nel loro esercizio. La Santa continua: "Tanto ferma sede pone Dio nell'interno di quell'anima che, quando torna in sè, le è impossibile di dubitare d'essere stata in Dio e Dio in lei 1449-2. Le rimane questa verità così profondamente impressa, che quand'anche passassero molti anni senza che Dio tornasse a farle tal grazia, non se la può dimenticare nè dubitare di essere stata in Dio".

1450.   2° Da questi due caratteri derivano altri tre:

a) L'assenza di distrazioni, perchè l'anima è interamente assorta in Dio.

b) L'assenza di stanchezza, perchè il lavoro proprio è ridotto a ben poca cosa; basta infatti abbandonarsi al beneplacito di Dio; la manna celeste cade nell'anima, che non ha che da gustarla. Onde quest'orazione, per lunga che sia, non nuoce alla sanità 1450-1.

c) Copia di straordinaria letizia. "Qui non c'è da sentire, dice S. Teresa 1450-2, ma da godere, senza che si intenda quello che si gode. Si intende che si gode un bene che contiene in sè tutti i beni, ma non si comprende questo bene. Tutti i sensi si occupano in questo gaudio per modo che nessun di loro rimane disoccupato da poter attendere ad altro nè all'interno nè all'esterno". Ed aggiunge che un sol momento di queste pure delizie basta a compensare di tutte le pene di quaggiù.

È dunque orazione che si distingue dalla quiete, la quale non afferra se non la volontà e dove, in fin dei conti, si rimane talora incerti se l'anima sia stata unita a Dio.

Onde si può definirla: una intimissima unione dell'anima con Dio, accompagnata dalla sospensione di tutte le interne facoltà e dalla certezza della presenza di Dio.

II. Effetti dell'orazione di unione.

1451.   1° L'effetto principale è una mirabile trasformazione dell'anima che, secondo S. Teresa, può paragonarsi alla metamorfosi del baco di seta.

Queste bacherozzoli si nutrono di foglia di gelso, filano la seta e ne formano il bozzolo, ove si rinchiudono e muoiono; dal bozzolo poi esce a suo tempo una graziosa farfallina bianca. Così l'anima, dopo essersi nutrita di letture, di preghiere e di sacramenti, si costruisce la sua casetta, tesse il suo bozzolo con la rinunzia, muore a se stessa e diventa una graziosa farfalletta bianca 1451-1. Immagine della mirabile trasformazione che coll'orazione di unione si opera nell'anima. L'anima, che prima aveva paura della croce, si sente ora piena di generosità e pronta a fare per Dio i più penosi sacrifici.

E qui S. Teresa, venendo al particolare, descrive lo zelo ardente, che stimola l'anima a glorificar Dio, a farlo conoscere ed amare da tutte le creature; il distacco dalle creature, che giunge sino al desiderio di uscir da questo mondo, ove Dio è tanto offeso; la perfetta sottomissione alla volontà di Dio, onde non si fa alla grazia maggior resistenza di quello che la molle cera faccia all'impressione di un sigillo; una grande carità verso il prossimo, che si palesa colle opere e ci fa godere delle lodi date ad altrui 1451-2.

1452.   2° Quest'unione è il preludio di un'altra molto più perfetta: è come il primo abboccamento col futuro sposo; a cui tiene presto dietro, se si corrisponde alla grazia, lo sposalizio spirituale e poi il mistico matrimonio. Ma non bisogna cessare, dice la Santa, di progredire nella via del distacco e dell'amore. Ogni sosta avrebbe per effetto il rilassamento e il regresso 1452-1.

§ III. L'unione estatica (fidanzamento spirituale) 1453-1.

Quest'unione si presenta sotto due forme: la forma soave e la forma dolorosa.

I. L'unione estatica soave.

1453.   La parola estasi non include necessariamente il fenomeno della levitazione, di cui parleremo nel capitolo seguente, ma solo la sospensione dei sensi esterni, che è la caratteristica di quest'unione. È quindi unione più perfetta delle due precedenti, perchè, oltre gli elementi loro propri, comprende pure la sospensione dei sensi esterni. Ne descriveremo:

1° NATURA DELL'UNIONE ESTATICA.

1454.   Due elementi costituiscono quest'unione: l'assorbimento dell'anima in Dio e la sospensione dei sensi; l'essere l'anima intieramente assorta in Dio è la ragione per cui i sensi esterni paiono come inchiodati su lui o sull'oggetto che manifesta.

A) L'assorbimento in Dio nasce da due principali cagioni, dall'ammirazione e dall'amore, come spiega molto bene S. Francesco di Sales 1454-1:

a) "L'ammirazione nasce in noi dall'imbatterci in qualche nuova verità che ancora non conoscevamo nè ci aspettavamo di conoscere; e se alla nuova verità in cui ci imbattiamo si associa bellezza e bontà, l'ammirazione che ne nasce è grandemente deliziosa... Quando dunque piace alla divina bontà di dare al nostro intelletto qualche speciale illustrazione onde viene a contemplare i misteri divini con straordinaria e altissima contemplazione, allora, scorgendo in quelli maggior bellezza che non pensasse, entra in ammirazione. Ora l'ammirazione di cose gradite fa che la mente fortemente s'attacchi e aderisca alla cosa ammirata, così per l'eccellenza della bellezza che vi discopre come per la novità di tale eccellenza, non potendosi l'intelletto saziare abbastanza di vedere ciò che non aveva mai visto e che è così dilettevole a vedersi".

b) All'ammirazione s'aggiunge l'amore. "Ora questo rapimento d'amore avviene nella volontà in questo modo: Dio la tocca colle soavi sue attrattive, e allora come l'ago tocco dalla calamita, dimentico, a così dire, della sua insensibilità, si muove e si volge verso il polo, così la volontà, tocca dal celeste amore, si slancia e corre verso Dio, lasciando tutte le terrene inclinazioni ed entrando in un rapimento non di conoscenza ma di gaudio, non di ammirazione ma di affetto, non di scienza ma di esperienza, non di vista ma di gusto e assaporamento".

1455.   c) Del resto l'ammirazione cresce coll'amore e l'amore coll'ammirazione:

"L'intelletto entra talvolta in ammirazione vedendo il sacro diletto che la volontà prova nella sua estasi, come la volontà riceve spesso diletto scorgendo l'intelletto in ammirazione, per guisa che queste due facoltà si comunicano a vicenda i loro rapimenti, perchè il guardar la bellezza ce la fa amare e l'amarla ce la fa guardare".

Non è meraviglia che un'anima, tutta abbandonata all'ammirazione e all'amore di Dio, sia, a così dire, fuor di sè e rapita e slanciata verso di lui. Se chi si lascia trascinare dalla passione dell'amore umano, giunge ad abbandonar tutto per darsi all'oggetto amato, dovrà far meraviglia che l'amore divino, impresso nell'anima da Dio stesso, ci assorba così da farci dimenticar tutto per non vedere e non amare che lui?

1456.   B) La sospensione dei sensi è il risultato dell'assorbimento in Dio; si fa progressivamente e non giunge in tutti allo stesso grado.

a) Quanto ai sensi esterni: 1) si ha dapprima l'insensibilità più o meno spiccata e il rallentamento della vita fisica, della respirazione, e quindi la diminuzione del calore vitale: "Pare, dice S. Teresa 1456-1, che l'anima non animi più il corpo, onde il corpo si sente mancare molto sensibilmente il calore naturale e si va raffreddando, benchè con grandissima soavità e diletto".

2) Si ha poi una certa immobilità, onde il corpo conserva l'atteggiamento in cui venne colto e lo sguardo rimane fisso sopra un oggetto invisibile.

3) Questo stato, che naturalmente dovrebbe indebolire il corpo, gli dà invece novelle forze 1456-2. È vero che, risvegliandosi, si sente una certa stanchezza, ma presto la vigoria fisica riprende più forte.

4) La sospensione dei sensi è alcune volte intiera, altre volte invece è incompleta e permette di dettare le rivelazioni che si ricevono, come si vede nella vita di S. Caterina da Siena.

b) I sensi esterni sono sospesi anche più perfettamente che nell'unione mistica di cui abbiamo già parlato.

1457.   c) Si fa questione se la libertà sia essa pure sospesa. Si risponde comunemente, con S. Tommaso, Suarez, S. Teresa, Alvarez de Paz, che la libertà rimane, onde l'anima può meritare anche nell'estasi; l'anima infatti liberamente riceve i favori spirituali che le sono allora concessi.

d) Quanto alla durata, l'estasi varia molto: l'estasi completa non dura generalmente che alcuni istanti, talora una mezz'ora; ma, essendo preceduta e seguita da momenti in cui è incompleta, può durare anche più giorni, chi tenga conto di tutte le alternative per cui passa.

e) Si esce dall'estasi col risveglio spontaneo o provocato: 1) nel primo caso si prova una certa angoscia, come se si tornasse da un altro mondo, e l'anima non riprende che a poco a poco la sua azione sul corpo. 2) Nel secondo caso, il risveglio è provocato dall'ordine o richiamo di un superiore: se è orale, è sempre obbedito; ma se è mentale, non sempre.

2° LE TRE FASI DELL'UNIONE ESTATICA.

1458.   Ci sono tre fasi principali nell'estasi: l'estasi semplice, il ratto e il volo dello spirito.

a) L'estasi semplice è una specie di deliquio che avviene dolcemente, cagionando all'anima una ferita dolorosa e deliziosa nello stesso tempo: lo Sposo le fa sentire la sua presenza ma per un po' di tempo soltanto, mentre lei ne vorrebbe godere continuamente, onde soffre di tal privazione. Questo godimento però è più saporoso che nella quiete.

Ascoltiamo ciò che dice S. Teresa 1458-1. "L'anima sente di essere dolcissimamente ferita ma non riesce a spiegarsi nè come nè da chi; conosce però bene che è cosa preziosa, così che non vorrebbe guarir mai di tale ferita. Si lamenta, non potendo far altro, collo Sposo con parole di amore anche esteriormente; perchè conosce che è presente ma non vuole manifestarsi in modo da lasciarsi godere. È pena vivissima quantunque soave e piena di dolcezza... e le dà più diletto che la saporosa sospensione dell'orazione di quiete, che pur non porta seco alcuna pena".

Vi sono già in questa fase locuzioni soprannaturali e rivelazioni, di cui diremo appresso.

1459.   b) Il ratto s'impossessa dell'anima con impetuosità e violenza, onde non vi si può resistere. È come se un'aquila gagliarda ti rapisse sulle sue ali senza saper dove si vada. Non ostante il diletto che si prova, la umana debolezza risente le prime volte un brivido di terrore. "Ma è terrore misto a grandissimo amore, che di nuovo si concepisce per colui che così grande lo mostra a un verme che altro non è che putridume" 1459-1. Nel ratto avviene lo sposalizio spirituale: delicato pensiero da parte di Dio, perchè, se l'anima conservasse l'uso dei sensi, morrebbe forse al vedersi così vicina a questa grande Maestà 1459-2. Passato il ratto, la volontà rimane coma ebbra, nè può più occuparsi che di Dio; nauseata delle cose terrene, sente insaziabile desiderio di far penitenza, tanto che si lamenta quando non ha da patire 1459-3.

1460.   c) Succede al ratto il volo dello spirito, che è così impetuoso da parere che lo spirito si separi dal corpo senza che gli si possa resistere.

"Pare all'anima, dice S. Teresa 1460-1, di essere trasportata tutta intiera in altra regione molto diversa da quella in cui viviamo, ove le si mostra una luce novella con altre cose così diverse da quelle di quaggiù, che non sarebbe mai riuscita a immaginarsele, quand'anche vi avesse impiegata tutta la vita. Talora le sono in un istante insegnate tante cose insieme, che, dove si fosse coll'immaginazione e coll'intelletto affaticata i lunghi anni a metterle insieme, non sarebbe mai riuscita a raccapezzarne la millesima parte".

3° PRINCIPALI EFFETTI DELL'UNIONE ESTATICA.

1461.   A) L'effetto che compendia tutti gli altri è una grande santità di vita che giunge sino all'eroismo, così che, se manca questa, l'estasi è sospetta.

Tal è l'osservazione di S. Francesco di Sales 1461-1: "Quando dunque si vede una persona che nell'orazione ha dei ratti... ma non ha poi estasi nella vita, vale a dire non ha vita santa e unita a Dio, col rinnegamento delle mondane cupidigie e colla mortificazione dei desideri e delle inclinazioni naturali, colla interna dolcezza, semplicità, umiltà, soprattutto poi con una continua carità, credi pure, o Teotimo, che tutti questi ratti sono grandemente sospetti e pericolosi; sono ratti da fare stupire gli uomini ma non da santificarli".

1462.   B) Le principali virtù causate dall'unione estatica sono: 1) Un perfetto distacco dalle creature: Dio fa, a così dire, salir l'anima in cima ad una fortezza, donde scopre chiaramente il nulla di queste basse cose. Onde l'anima non vuol più avere volontà propria e rinunzierebbe anzi volentieri, se fosse possibile, al libero arbitrio. 2) Un immenso dolore dei peccati commessi: il suo cruccio non è il timore dell'inferno ma quello d'offendere Dio. 3) Una frequente e affettuosa vista della santa umanità di Nostro Signore e della SS. Vergine. E che ottima compagnia quella di Gesù e di Maria! Le visioni immaginative e intellettuali, che diventano allora più numerose, danno l'ultima mano al distacco dell'anima e la sprofondano vie più nell'umiltà. 4) Infine una mirabile pazienza onde valorosamente sopportare le nuove prove passive che il Signore le manda, il che si appella purificazione di amore.

Accesa di desiderio di veder Dio, l'anima si sente come trafitta da un dardo di fuoco ed esce in alte grida al vedersi separata da Colui che è da lei unicamente amato. Principia un vero martirio, martirio dell'anima e martirio del corpo, accompagnato da ardente desiderio di morire per non esser più separata dal Diletto, martirio interrotto talora da inebrianti delizie; cosa che intenderemo meglio quando avremo studiato la seconda notte di S. Giovanni della Croce, la notte dello spirito.

II. La notte dello spirito.

1463.   La prima notte purifica l'anima a fine di prepararla ai gaudii della quiete, dell'unione e dell'estasi; ma, prima delle delizie ancor più pure e più durevoli del matrimonio spirituale, è necessaria una purificazione più profonda e più radicale, che ordinariamente avviene durante l'unione estatica. Ne esporremo:

IL PERCHÈ DELLA NOTTE DELLO SPIRITO.

1464.   Per unirsi a Dio in quel modo così intimo e durevole che avviene nell'unione trasformativa o matrimonio spirituale, è necessario mondarsi dalle ultime imperfezioni che restano nell'anima. Imperfezioni che, come dice S. Giovanni della Croce 1464-1, sono di due specie: abituali le une, attuali le altre.

A) Le prime consistono in due cose: a) in affetti e in abiti imperfetti, che sono come radici rimaste nello spirito là dove la purificazione del senso non potè penetrare, per esempio certe amicizie un po' troppo vive, che bisogna quindi sradicare; b) una certa fiacchezza spirituale, hebetudo mentis, onde l'anima facilmente si distrae e si versa al di fuori: difetti incompatibili coll'unione perfetta.

B) Le imperfezioni attuali sono anch'esse di due specie: a) un certo orgoglio e una vana compiacenza di sè, provenienti dalla copia delle consolazioni spirituali che si ricevono; sentimenti che portano spesso all'illusione e fanno scambiar per vere false visioni e false profezie; b) un'eccessiva arditezza con Dio, onde si perde quel rispettoso timore che è tutela di tutte le virtù.

Onde è necessario purificare e riformare nello stesso tempo queste tendenze; al quale intento Dio manda le prove della seconda notte.

PROVE DELLA NOTTE DELLO SPIRITO.

1465.   A purificare e riformar l'anima, Dio lascia l'intelletto nelle tenebre, la volontà nell'aridità, la memoria senza ricordi e gli affetti immersi nel dolore e nell'angoscia. Dio, dice S. Giovanni della Croce 1465-1, opera questa purificazione col lume della contemplazione infusa, lume vivo in sè ma oscuro e doloroso per l'anima, a cagione delle sue ignoranze e della sua impurità.

A) Patimenti dell'intelletto. a) Il lume della contemplazione, vivo e puro com'è, offende l'occhio del nostro intelletto che è così debole ed impuro da non poterlo sopportare; a quella guisa che l'occhio infermo è offeso dalla viva e chiara luce, così l'anima ancora infermiccia è torturata e come intorpidita dalla luce divina, tanto che la morte le parrebbe liberazione.

b) Dolore fatto più intenso dall'incontro del divino e dell'umano nella stessa anima: il divino, vale a dire la contemplazione purificatrice, la invade per rinnovarla, perfezionarla, divinizzarla; l'umano, vale a dire l'anima coi suoi difetti, ha l'impressione come di un annientamento e di una morte spirituale per cui deve passare onde giungere alla risurrezione.

c) A cosiffatto dolore s'aggiunge la vista profonda della propria povertà e miseria; immersa la parte sensitiva nell'aridità e la parte intellettiva nella tenebra, l'anima è nello stato angoscioso di chi si trovasse sospeso in aria senza appoggio; vede anzi talora l'inferno spalancato a inghiottirla per sempre. È certo un parlar figurato ma che dipinge bene l'effetto di quella luce che mostra da un lato la grandezza e la santità di Dio, e dall'altro il nulla e le miserie dell'uomo.

1466.   B) I patimenti della volontà sono anch'essi ineffabili. a) L'anima si vede priva di ogni gaudio, persuasa che sarà sempre così; neppure il confessore riesce a consolarla.

b) A sorreggerla nella prova, Dio le manda intervalli di sollievo in cui gode di pace soave nell'amore e nella familiarità di Dio. Ma dopo tali momenti la dolorosa vicenda riprende e l'anima s'immagina di non essere più amata da Dio, di essere da lui giustamente abbandonata: è il supplizio dell'abbandono spirituale.

c) In questo stato è impossibile pregare; pregando, prova tanta aridità che le pare di non essere più ascoltata da Dio. Vi sono casi in cui non può nemmeno più occuparsi dei suoi affari temporali, perchè la memoria più non le serve: è il legamento delle potenze che si estende alle azioni naturali.

Insomma è una specie d'inferno per il dolore che si prova e di purgatorio per la purificazione che ne è il frutto.

SANTI EFFETTI DELLA PURIFICAZIONE DELLO SPIRITO.

1467.   A) Tali effetti sono da S. Giovanni della Croce 1467-1 compendiati così:

"Questa fortunata notte offusca l'intelletto, ma non lo fa che per illuminarlo in tutte le cose; e se l'umilia e lo rende miserabile, non è se non per esaltarlo e affrancarlo; e se l'impoverisce e lo vuota d'ogni affezione naturale, è per farlo capace di divinamente godere della dolcezza di tutte le cose dell'alto e del basso". A spiegar questi effetti, il Santo usa il paragone di un pezzo di umido legno che venga gettato in un braciere, paragone che abbiamo già spiegato al n. 1422.

1468.   B) Li riduce quindi a quattro punti principali: a) Un ardente amor di Dio: fin dal principio di questa notte l'anima aveva nella parte superiore un tal amore, ma senza averne coscienza; Dio poi glie la dà, e allora è pronta a osar tutto e a tutto fare per piacere a lui.

b) Un vivissimo lume: questo lume non le mostrava a principio che le sue miserie, ond'era doloroso; ma, tolte con la compunzione coteste imperfezioni, le mostra le ricchezze che l'anima verrà acquistando, onde riesce consolantissimo.

c) Un gran sentimento di sicurezza: perchè questo lume la preserva dall'orgoglio, che è il grande ostacolo all'eterna salute, facendole vedere che è Dio stesso che la guida e che i patimenti da lui inviatile le sono più utili dei godimenti; e mettendole infine nella volontà la ferma risoluzione di non far nulla che possa offenderlo e di nulla trascurare di ciò che ne promuova la gloria.

d) Una mirabile forza per salire i dieci gradi d'amor di Dio amorosamente descritti da S. Giovanni della Croce 1468-1 e che bisogna diligentemente meditare, chi voglia farsi un'idea delle mirabili ascensioni che conducono all'unione trasformativa.

§ IV. L'unione trasformativa o matrimonio spirituale.

1469.   Dopo tante purificazioni, l'anima giunge finalmente a quell'unione calma e durevole che è detta unione trasformativa e che pare l'ultimo termine dell'unione mistica e preparazione immediata alla visione beatifica.

Ne esporremo:

I. Natura dell'unione trasformativa.

Rileviamone:

1470.   1° I principali caratteri sono: l'intimità, la serenità, l'indissolubilità.

A) L'intimità. Perchè più intima delle altre, quest'unione si appella matrimonio spirituale; tra sposi non v'è segreto: è fusione di due vite in una sola. E tale è l'unione che corre tra l'anima e Dio; S. Teresa la spiega con un paragone 1470-1: "È come l'acqua del cielo che cade nell'acqua d'un fiume... e che con lei talmente si confonde da non poterle più dividere nè distinguere quale sia l'acqua piovana e quella del fiume".

B) La serenità. In questo stato non più estasi nè ratti o almeno molto rari; quelli erano svenimenti e deliqui, che sono ormai quasi intieramente scomparsi, per far posto a quello stato dell'anima dolce e calmo in cui vivono gli sposi sicuri ormai del loro mutuo amore.

C) L'indissolubilità. Le altre unioni erano passeggiere, questa invece diventa di natura sua permanente come è del matrimonio cristiano.

1471.   Ma tale indissolubilità trae seco l'impeccabilità? Su questo argomento S. Giovanni della Croce e S. Teresa sono di opposto parere. Il primo pensa che l'anima sia allora confermata in grazia 1471-1: "Io son d'avviso che non si ha mai questo stato senza che l'anima vi sia confermata in grazia... Sono lasciate da parte e dimenticate tutte le tentazioni, i turbamenti, le pene, le sollecitudini e tutti i pensieri". S. Teresa parla altrimenti 1471-2: "Pare che io voglia dire che, quando l'anima giunge ad aver da Dio questa grazia, sia sicura di salvarsi e di non più cadere. Non dico questo; e dovunque parlassi in maniera da parere che l'anima stia in sicurezza, s'ha da intendere finchè la divina Maestà la terrà così di sua mano ed ella non l'offenderà. Io almeno so di certo che quella tal persona, quantunque si vegga in questo stato e vi duri da anni, non per questo si tiene per sicura". Il linguaggio di S. Teresa ci pare più conforme a quello della Teologia, la quale insegna che la grazia della perseveranza finale non può meritarsi; per essere sicuri della propria salvezza, occorrerebbe una rivelazione speciale, che riguardasse non solo lo stato presente di grazia ma anche la perseveranza in tale stato sino alla morte 1471-3.

1472.   2° La descrizione di S. Teresa contiene due apparizioni: una di Nostro Signore e l'altra della SS. Trinità.

A) Gesù stesso introduce l'anima nell'ultima mansione con duplice visione: una immaginaria e l'altra intellettuale.

a) In una visione immaginaria, che avvenne dopo la comunione, Gesù apparve alla Santa 1472-1 "con forma di grande splendore e bellezza e maestà, come dopo risuscitato".

"E le disse ch'era ormai tempo che ella prendesse le cose di lui per sue, e che egli si darebbe pensiero di quelle di lei"... "Quindi innanzi tu ti darai pensiero del mio onore, non solo perchè sono tuo Creatore, tuo Re e tuo Dio, ma anche perchè tu sei mia vera sposa. L'onor mio è onor tuo e l'onor tuo è onor mio"  1472-2.

b) Viene quindi la visione intellettuale: "Quello che allora Dio comunica all'anima in un istante è così grande arcano e grazia tanto sublime ed è sì forte e soave il diletto che ella sente, che io non so a che paragonarlo. Dirò soltanto che in quell'istante il Signore si degna manifestarle la beatitudine del cielo in maniera più sublime di qualsivoglia visione o godimento spirituale. Non si può esprimere quanto intimamente l'anima, o piuttosto lo spirito dell'anima, diventi, per quello che si può conoscere, una cosa sola con Dio" 1472-3.

1473.   B) Visione della SS. Trinità. Introdotta l'anima in questa settima mansione, le tre persone della SS. Trinità in una visione intellettuale le si mostrano con una certa rappresentazione della verità e in mezzo a una fiamma che, a guisa di fulgidissima nube, viene diretta al suo spirito. Le tre divine Persone si mostrano distinte; e l'anima, con una mirabile cognizione che le viene comunicata, intende con assoluta certezza che tutte e tre queste Persone non sono che una sola sostanza, una sola potenza, una sola scienza, un solo Dio.

"Così, quello che noi teniamo per fede, l'anima ivi l'intende, si può dire, per vista, benchè non sia vista di occhi corporali, non essendo questa una visione immaginativa. Qui le si comunicano tutte e tre le divine Persone e le parlano e le svelano il senso di quel passo del Vangelo in cui disse Nostro Signore che verrà col Padre e collo Spirito Santo ad abitare coll'anima che l'ama e che ne osserva i comandamenti. O mio Dio! quanto è diverso udir queste parole e crederle dall'intendere in questa maniera quanto son vere! 1473-1. Ogni dì più si stupisce quest'anima, perchè le pare che queste tre divine Persone non si siano da lei più partite e chiaramente vede, nel modo ch'io dissi, che stanno nell'interno dell'anima; giù giù nell'interno, in una cosa molto profonda, che non sa dir come sia perchè non è letterata, sente in sè questa divina compagnia" 1473-2.

II. Effetti dell'unione trasformativa.

1474.   Unione così intima e così profonda non può che produrre mirabili effetti di santificazione; effetti che si compendiano in una sola parola: l'anima è talmente trasformata in Dio che, dimentica di sè, non si dà più pensiero che di Dio e della sua gloria. Quindi:

1° Un santo abbandono nelle mani di Dio, tanto che l'anima è sommamente indifferente a tutto ciò che non è Dio; nell'unione estatica desiderava la morte per unirsi al suo Diletto, ora è indifferente alla vita o alla morte, purchè Dio sia glorificato: "Ogni suo pensiero è di piacergli sempre più, di trovare occasioni e mezzi per dimostrargli l'amore che gli porta. Qui tende tutta la sua orazione; a ciò serve questo matrimonio spirituale: che nascano sempre opere, opere" 1474-1.

1475.   2° Un grande desiderio di patire, ma senza inquietudine, in perfetta conformità con la volontà di Dio:

"S'egli vuole che patiscano, bene; se no, non se ne affliggono più come solevar [sic]. Hanno parimenti queste anime un grande godimento interno quando sono perseguitate, con assai maggior pace di quello che s'è detto, e senza alcun risentimento contro coloro che fanno loro del male e glie ne vorrebbero fare. Anzi li amano di particolare affetto" 1475-1.

1476.   3° Assenza di desideri e di pene interiori. "I desideri di queste anime non sono più di carezze o di consolazioni... Hanno un costante desiderio di starsene solitarie od occuparsi di cose che siano di giovamento al prossimo. Non patiscono aridità nè pene interiori, ma stanno sempre teneramente occupate di Nostro Signore e non vorrebbero mai far altro che lodarlo" 1476-1.

1477.   4° Assenza di ratti. "Arrivando qui l'anima, se le tolgono tutti i ratti (s'intende quanto al perdere i sensi), fuorchè alcuna volta, nè soggiace più a quelle estasi e a quei voli dello spirito di cui ho parlato, se non molto di rado nè quasi mai in pubblico, cosa prima molto ordinaria" 1477-1. Pace dunque e serenità perfetta: "In questo tempio di Dio, in questa mansione sua, solo Lui e l'anima dolcemente si godono l'un l'altro in altissimo silenzio" 1477-2.

1478.   5° Uno zelo ardente, ma circospetto, per la santificazione delle anime. Non basta restare in questo dolce riposo, bisogna operare, darsi all'azione, soffrire, farsi lo schiavo di Dio e del prossimo, lavorare a progredir nelle virtù, massime nell'umiltà, perchè il non andare avanti è un tornare indietro. Fare nello stesso tempo l'ufficio di Maria e di Marta: qui sta la perfezione. Si può far del bene alle anime senza uscir dal chiostro; e senza pensare a giovare a tutto il mondo, si può far del bene a quelli con cui si vive:

"E l'opera sarà tanto maggiore perchè siete loro più obbligate. Pensate che sia poco giadagno se colla profonda umiltà, collo spirito di mortificazione e di sacrifizio, colla tenera carità per le sorelle, coll'amore grande a Nostro Signore, le infiammerete tutte di questo fuoco celeste e con le altre virtù le verrete sempre più stimolando? Farete molto e renderete assai grato servizio a Nostro Signore." 1478-1.

Ma soprattutto bisogna fare queste cose per amore: "Il Signore non guarda tanto alla grandezza delle opere quanto all'amore con cui si fanno" 1478-2.

1479.   Terminando, la Santa invita le suore ad entrare in queste mansioni, se piace al padrone del Castello di introdurvele, ma a non volerne sforzare l'ingresso.

"Vi avverto di non usar veruna violenza in caso di qualche resistenza, perchè lo infastidireste per guisa che ve ne chiuderebbe l'entrata per sempre. Egli è molto amico dell'umiltà: riputandovi indegne di pur entrare nelle terze mansioni, ne guadagnerete più presto la volontà di introdurvi nelle quinte; e fin di lì lo potete servire, col recarvi di frequente ad esse, in tal maniera da meritare di essere da lui ammesse nella stessa mansione riservata" 1479-1.

SINTESI DEL SECONDO CAPITOLO.

1480.   Percorse le quattro grandi fasi della contemplazione con l'alterna loro vicenda di prove dolorose e di inebrianti dolcezze, mi pare che ne esca sufficientemente confermata la nozione di contemplazione infusa da noi data: "la progressiva presa di possesso che Dio fa dell'anima col libero suo consenso.

1° Dio s'impossessa gradatamente dell'intiera anima contemplativa: prima della volontà nella quiete; poi di tutte le facoltà interne nell'unione piena; delle facoltà interne e dei sensi esterni nell'estasi; e finalmente dell'anima intiera, non più di passata ma in modo permanente, nel matrimonio spirituale.

Ora, Dio s'impossessa dell'anima per inondarla di luce e di amore e comunicarle le sue perfezioni. a) Questa luce a principio è debole e dolorosa finchè l'anima non è sufficientemente purificata; ma poi diviene più forte e consolante, sebbene per la debolezza di nostra mente rimanga sempre mista di oscurità. Fa viva impressione perchè proviene da Dio e perchè dà all'anima conoscenza sperimentale della grandezza, della bontà, della bellezza infinita di Dio, e della piccolezza, del nulla, delle miserie della creatura. bL'amore largito all'anima contemplativa è ardente, generoso, avido di sacrifici; l'anima, obliando se stessa, vuole immolarsi per il suo Diletto.

1481.   2° L'anima acconsente liberamente a questo divino possesso e si dà liberamente e giocondamente a Dio coll'umilità più profonda, coll'amore della croce per Dio e per Gesù, col santo abbandono. A questo modo si viene ognor più purificando delle sue imperfezioni, si unisce a Dio e si trasforma in lui, onde si avvera quanto più pienamente è possibile l'ardente brama di Nostro Signore: "Ut et ipsi in nobis unum sint1481-1.

Tale la vera mistica, che vuol essere ben distinta dal falso misticismo o dal quietismo.

APPENDICE: IL FALSO MISTICISMO O QUIETISMO.

1482.   Accanto ai veri mistici, di cui abbiamo ora esposta la dottrina, ci furono falsi mistici, che, sotto nomi diversi, pervertirono il concetto di stato passivo e caddero in errori dottrinali moralmente assai perniciosi: tali furono i Montanisti e i Begardi 1482-1. Ma l'errore più famigerato fu il Quietismo, che si presente sotto triplice forma:

1° IL QUIETISMO DI MOLINOS 1483-1.

1483.   Michele Molinos, nato nella Spagna nel 1640, passò la maggior parte della vita a Roma, ove disseminò i suoi errori con due opere che ebbero molto esito: La Guida spirituale e L'Orazione di quiete.

L'errore fondamentale di Molinos sta nell'affermare che la perfezione consiste nell'intiera passività dell'anima, in un atto continuo di contemplazione e di amore che, fatto che sia, dispensa da ogni altro atto e perfino dal resistere alle tentazioni; il suo motto è: lasciamo fare a Dio.

1484.   Perchè si colgano meglio tutte le particolarità di quest'errore, contrapporremo su due distinte colonne la dottrina cattolica e le aberrazioni di Molinos.
Dottrina cattolica.Errori di Molinos.
1) Vi è uno stato passivo in cui Dio opera in noi colla grazia operante; ma normalmente non ci si arriva se non dopo aver lungamente praticato le virtù e la meditazione. Non vi è che una via, la via interna o la via della contemplazione passiva, che ognuno può procurarsi da sè colla grazia comune; onde bisogna entrar subito nella via passiva e annientar così le proprie passioni.
2) L'atto della contemplazione non dura che poco tempo, sebbene lo stato che nell'anima ne risulta possa anche durare alcuni giorni. L'atto della contemplazione può durare intieri anni e anche tutta la vita, perfino nel sonno, senza essere rinnovato.
3) La contemplazione contiene in modo eminente gli atti di tutte le cristiane virtù, ma non ci dispensa dal fare, fuori del tempo della contemplazione, atti espliciti di queste virtù. La contemplazione, essendo perpetua, dispensa da tutti gli atti espliciti delle virtù, che servono solo per gl'incipienti, per esempio, gli atti di fede, di speranza, di religione, di mortificazione, la confessione, ecc.
4) L'oggetto principale della contemplazione è Dio stesso, ma Gesù ne è l'oggetto secondario, e fuori dell'atto contemplativo non si è dispensati dal pensare a Gesù Cristo, mediatore necessario, nè dall'andare a Dio per mezzo di lui. È imperfezione pensare a Gesù Cristo e ai suoi misteri; è necessario e sufficiente inabissarsi nell'essenza divina: chi si serve di immagini o di idee non adora Dio in ispirito e verità.
5) Il santo abbandono è perfettissima virtù, ma non deve arrivare sino all'indifferenza riguardo alla salute eterna; che anzi bisogna desiderarla, sperarla e chiederla. Nello stato di contemplazione bisogna essere indifferenti a tutto, anche alla propria santificazione e salvezza, e perdere la speranza, onde l'amore sia disinteressato.
6) Può avvenire nelle prove interiori che l'immaginazione e la sensibilità siano profondamente turbate mentre l'apice dell'anima gode pace profonda; ma la volontà è sempre obbligata a resistere alle tentazioni. Non bisogna darsi pensiero di resistere alle tentazioni; le più oscene immaginazioni e gli atti che ne conseguono non sono riprovevoli, perchè opera del demonio. Sono prove passive che i Santi stessi esperimentarono e che bisogna guardarsi bene dal dire in confessione. Si giunge così alla purità perfetta e all'intima unione con Dio 1484-1.

L'esposizione che abbiamo fatto della vera dottrina cattolica ci dispensa dal confutare questi errori. Ma dalla storia del quietismo si può trarre la conclusione che, quando si vuole giungere troppo presto alla contemplazione e ingerirvisi da sè senza aver prima mortificate le passioni e praticate le cristiane virtù, si cade tanto più bassi quanto più alti si pretendeva salire: Chi vuol far da angelo finisce con diventar bestia.

2° IL QUIETISMO MITIGATO DI FÉNELON 1485-1.

1485.   Il quietismo di Molinos fu ripreso, sotto forma temperata e spoglio delle conseguenze immorali che l'autore ne aveva tratte, dalla Signora Guyon, che, rimasta vedova in giovane età, si diede con ardore a una pietà sentimentale e fantastica da lei detta la via dell'amor puro. Guadagnò presto alle sue idee il barnabita P. Lacombe e poi, fino a un certo punto, lo stesso Fénelon, che, nella Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore, 1697, espose un quietismo mitigato, in cui si studiava di illustrare la dottrina del puro amore, "carità pura e senza mescolanza alcuna di motivo del proprio interesse".

Tutti gli errori contenuti in questo libro si possono, a giudizio di Bossuet, ridurre alle quattro seguenti proposizioni: 1) "Si dà in questa vita uno stato abituale di puro amore, in cui più non entra il desiderio della salute eterna. 2) Nell'ultime prove della vita interiore può un'anima essere persuasa, con persuasione invincibile e riflessa, di essere giustamente riprovata da Dio, e in questa persuasione fare a Dio il sacrificio assoluto dell'eterna sua felicità. 3) Nello stato del puro amore l'anima è indifferente alla propria perfezione e alla pratica delle virtù. 4) Le anime contemplative perdono, in certi stati, la visione distinta, sensibile e riflessa di Gesù Cristo" 1485-2...

1486.   È certo un quietismo assai meno pericoloso di quello di Molinos; ma le quattro proposizioni sono false e potrebbero condurre a funeste conseguenze.

1) È falso che ci sia sulla terra uno stato abituale di puro amore che escluda la speranza; perchè, come giustamente dice il 5° articolo d'Issy 1486-1, "ogni cristiano, in ogni stato, benchè non a ogni momento, è obbligato a volere, a desiderare, a esplicitamente chiedere l'eterna salute, come cosa che Dio vuole lui e vuole che vogliamo noi per la sua gloria". -- Di vero c'è che, nei perfetti, il desiderio della beatitudine è spesso regolato dalla carità e che ci sono momenti in cui non pensano esplicitamente all'eterna salute.

2) La seconda proposizione è pure falsa. Vi furono, è vero, Santi che nella parte inferiore dell'anima ebbero impressione vivissima di essere giustamente riprovati; ma non era persuasione riflessa della parte superiore; e se alcuni fecero il sacrifizio condizionato dell'eterna salute, non era però un sacrificio assoluto.

3) Non è neppure esatto il dire che l'anima, nello stato di puro amore, sia indifferente alla propria perfezione e alla pratica delle virtù; abbiamo invece visto che S. Teresa non cessa di raccomandare, anche nei più alti stati di perfezione, lo studio di progredire e di praticare le virtù fondamentali.

4) In fine è falso che negli stati perfetti si perda la vista distinta di Gesù Cristo. Nell'unione trasformativa, come s'è visto al n. 1472, S. Teresa aveva visioni della santa umanità di Gesù Cristo; di vero c'è che, in certi momenti passeggieri, non si pensa esplicitamente a lui.

TENDENZE SEMIQUIETISTE 1487-1.

1487.   In certi libri di pietà, per altro ottimi, s'incontrano talora tendenze più o meno quietiste, che, se fossero prese a norma di direzione per le anime ordinarie, condurrebbero ad abusi.

L'errore principale insinuato in cotesti libri sta nell'inculcare, si direbbe, a tutte le anime, anche alle poco progredite, disposizioni di passività che non convengono veramente che alla via unitiva. Si vuol giungere troppo presto a semplificar la vita spirituale, dimenticando che per la maggior parte delle anime questa semplificazione non può vantaggiosamente farsi se non dopo esser passate per la meditazione discorsiva, per gli esami particolari di coscienza e per la pratica delle virtù morali. Siamo agli eccessi di una cosa in sè buona: si vuole portare le anime alla perfezione molto alla svelta, sopprimendo le tappe intermedie, e suggerendo fin da principio i mezzi che riescono bene alle anime più progredite.

1488.   a) Quindi, sotto pretesto di fomentare l'amor disinteressato, non si da alla speranza cristiana il posto che le spetta; si suppone che il desiderio dell'eterna felicità non sia che cosa accessoria e la gloria di Dio sia tutto. Ora, chi ben guardi, la gloria di Dio e l'eterna felicità sono due cose intimamente connesse; perchè la conoscenza e l'amore di Dio sono la via a procurarne la gloria e questa conoscenza e quest'amore costituiscono nello stesso tempo la nostra felicità. Onde, anzichè separarli bisogna unirli questi due elementi, e mostrare come si conciliano e si compiono a vicenda, pur notando che, chi li consideri separatamente, è la gloria di Dio quella che prevale.

b) Così pure si insiste troppo sul lato passivo della pietà: lasciare che Dio operi in noi, che ci porti in braccio, senza aggiungere che Dio questo ordinariamente non fa se non dopo che ci siamo lungamente esercitati nella pietà attiva.

c) Venendo poi ai mezzi di santificazione, si propongono quasi esclusivamente quelli che convengono alla via unitiva: si critica, per esempio, la meditazione metodica e scompartita, come la chiamano; le risoluzioni particolari che, dicono, spezzano l'unità della vita spirituale; i minuti esami di coscienza, sostituendovi una semplice occhiata. Ma si dimentica che gl'incipienti non arrivano ordinariamente all'orazione di semplicità se non per la via della meditazione metodica; che per loro le risoluzioni generali di amar Dio con tutto il cuore debbono essere specificate; e che per conoscere i propri difetti e correggerli è necessario scendere al particolare: sono già abbastanza portati a contentarsi d'uno sguardo superficiale sopra sè stessi, il quale passioni e difetti lascerà come prima.

Insomma si dimentica troppo che, prima di arrivare all'unione con Dio e allo stato passivo, ci sono tappe parecchie da percorrere.


1386-1 S. Tommaso, IIª IIæ, q. 180-182; S. Bonaventura, De triplici viâ; Itinerarium mentis ad Deum; E. Susone, Le livre de la Sagesse; Le livre de la vérité; B. G. Ruysbroeck, L'Ornamento delle Nozze spirituali (Carabba, Lanciano); Gerson, La montagne de la contemplation; La théologie mystique spéculative et pratique; Dionigi Certosino, De fonte lucis et semitis vitæ; De contemplatione; Lodovico Blosio, Institutio spiritualis; D. A. Baker, Sancta Sophia; S. Teresa, Autobiografia; Cammino della perfezione; Il Castello Interiore; S. G. della Croce, La Salita del Monte Carmelo; La Notte oscura; La fiamma d'amor viva; S. Fr. di Sales, Teotimo, l. VI-VII; Alvarez de Paz, De vità spirituali, t. III, l. V; M. Godinez, Praxis theologiæ mysticæ; P. Lallemant, Doctrine spirituelle, Principio VII; Scaramelli, Direttorio mistico; Ribet, La mystique divine; P. de Maumigny, Pratique de l'oraison mentale, t. II; P. Poulain, Delle grazie d'orazione; D. V. Lehodey, Le vie dell'orazione, P. IIIª; A. Sandreau, I gradi della Vita spirituale, t. II; L'état mystique; A. Maynard, Tr. de la vie intérieure, t. II; P. Lamballe, La contemplation; Mgr Farges, Les phénomènes mystiques; F. D. Joret, La contemplation mystique d'après saint Thomas; R. Garrigou-Lagrange, Perfect, chrét. et contemplation.

1386-2 Sum. theol., IIª IIæ, q. 180, a. 3, ad. 1; a. 7, ad 1: "Contemplatio pertinet ad ipsum simplicem intuitum veritatis... principium habet in affectu, in quantam videlicet aliquis ex caritate ad Dei contemplationem incitatur; et quia finis respondet principio, inde est quod etiam terminus et finis vitæ contemplativæ habet esse in affectu, dum scilicet aliquis in visione rei amatæ delectatur, et ipsa delectatio rei visæ amplius excitat amorem".

1386-3 Teotimo o Trattato dell'amor di Dio, l. VI, c. 3.

1387-1 Le relazioni che della sua coscienza S. Teresa fece ai suoi direttori spirituali sono varie: questa al Padre Rodrigo Alvarez è la più importante; nell'edizione spagnuola del P. Silverio è detta Relacion Primera ma nella versione italiana del P. Federico di S. Antonio è segnata Relazione IV e si trova nel t. II, Parte II, p. 205, ove mancano però i cinque ultimi numeri (N. D. T.).

1387-2 Autobiografia, c. XVIII, n. 9.

1387-3 La Salita del Monte Carmelo, l. I, c. 13, n. 1.

1387-4 La Fiamma d'amor viva, stanza III, v. 3, n. 42-43 (in certe edizioni § 8-9).

1387-5 L'état mystique, 2ª ed. 1921, p. 19-20. -- La stessa cosa dichiara il P. Janvier (Quaresimale 1923, Ritiro, 2ª istruzione): "La contemplazione infusa è grazia eminente e speciale, a cui non si giunge coi propri sforzi, ma che Dio dà a chi gli piace, quando gli piace, e quanto gli piace". (Marietti, Torino).

1389-1 Meynard, Traité de la Vie Intérieure etc. t. II, n. 159, p. 224-227.

1389-2 L'institution spirit., c. XII, t. II, delle Opere, p. 101-103, ed. 1913.

1390-1 Sum. theol., IIª IIæ, q. 175, a. 3, ad. 1.

1390-2 Suarez, in Iam, c. 30, n. 18; "Non sunt tam facile hujusmodi dispensationes afferendæ aut extendendæ. De Beatissimâ autem Virginie pie credi potest, et quidem si alicui hoc privilegium concessum est, illi maxime datum est".

1391-1 L. de Blois, L'Institution spirituelle, c. XII, § 2, p. 89-90.

1392-1 S. Teresa, Relazione al P. Rodrigo: vedi qui sopra la nota prima, a p. 850; Cammino della perfezione, c. XXXI.

1392-2 S. Teresa, Relazione al P. Rodrigo.

1394-1 Sermo in Cant., LXXIV, 5-6.

1395-1 Joannes a S. Thoma, in Iam IIæ, q. 68-70 disp. 18, n. 11-12; Joret, Vie spirituelle, sett. 1920, p. 455-456.

1397-1 Notte, l. II, c. 17.

1398-1 Théol. mystique, c. I, § 3, trad. Darboy.

1398-2 Comment. de div. nomin., c. XIII, lez. 3.

1398-3 S. Tommaso, I Sent., dist. 8, q. I, a. 1 ad. 4.

1399-1 Serm. in Cantic., I, n. 11-12.

1401-1 Anche il P. Poulain, (Delle Grazie d'orazione, c. V), pur dando questa presenza di Dio sentita come elemento fondamentale della contemplazione, aggiunge che nei gradi inferiori (nella quiete) Dio non fa sentir la sua presenza che in modo assai oscuro.

1402-1 S. Giovanni della Croce, La Fiamma d'amor viva, stanza III, v. 5 e 6.

1403-1 S. Giovanni della Croce, La Fiamma ecc; stanza III, v. 3, n. 31.

1403-2 La Fiamma, ecc, stanza III, v. 1, n. 3.

1403-3 Vita, XII, n. 5.

1404-1 Joan., XVII, 26.

1404-2 Il Teotimo, l. VI, c. 4.

1404-3 Ibid., c. 3.

1407-1 Cammino della perfezione, c. XVI, n. 8.

1408-1 Concetti sull'Amor di Dio, c. VI.

1409-1 IIª IIæ, q. 180, a. 2.

1409-2 La Salita del Monte Carmelo, l. II, c. XIII (certe edizioni c. XV).

1409-3 Castello interiore, quarta mansione, c. II, n. 9; c. III, n. 3.

1410-1 La Salita, l. I, c. XI, n. 3.

1411-1 "Onde dicono all'anima: "Via, lasciate queste pratiche, non sono che oziosità e perdita di tempo! Operate, meditate, fate atti interiori... tutto il resto non è che illusione ed inganno... I maestri di spirito che operano così non capiscono dunque nulla nè del raccoglimento nè della solitudine spirituale dell'anima e delle sue proprietà. In questa solitudine Dio rassoda nell'anima queste preziose unzioni, ed essi invece sovrappongono o frappongono altri unguenti di più basso esercizio spirituale, che è il fare che l'anima operi". (La Fiamma, stanza III, v. 3, n. 40 e 42). Anche S. Teresa si lamenta di quei direttori che fanno lavorare le potenze anche di domenica (Vita, c. XIII).

1413-1 La Salita del Monte Carmelo, l. II, c. XI (in certe edizioni XIII).

1413-2 Le spiegazioni di ognuno di questi tre segni si trovano al c. XII (in certe edizioni XIII) della Salita.

1415-1 La Salita, l. II, c. XII, n. 6 (in certe edizioni c. XIV).

1416-1 La Salita, l. II, c. XIII (in certe edizioni c. XV).

1417-1 Congresso Carmelitano di Madrid, tema VI.

1418-1 Cf. La Mère Suzanne-Marie de Riants de Villerey; Ami du Clergé, 2 Agosto 1923, p. 488.

1418-2 S. J. Ribet, Mystique divine, t. I, c. X, enumera le principali classificazioni. Alvarez de Paz ne conta 15: l'intuizione della verità, il concentramento interno delle forze dell'anima, il silenzio, il riposo, l'unione, l'audizione della parola di Dio, il sonno spirituale, l'estasi, il rapimento, l'apparizione corporale, l'apparizione immaginaria, la visione intellettuale, l'oscurità divina, la manifestazione di Dio, la visione intuitiva di Dio. -- Schram ha una nomenclatura più completa e più confusa. -- Il P. Scaramelli distingue dodici gradi: raccoglimento, silenzio spirituale, quiete, ebrietà d'amore, sonno spirituale, ansie e sete di amore, tocchi divini, unione mistica semplice, estasi, rapimento, unione stabile e perfetta. (Osserva però lo Scaramelli che i quattro ultimi gradi non sono altro che ampliamento dell'ottavo grado: "L'unione semplice di amore, di cui ci accingiamo a trattare, e gli altri gradi di orazione infusa di cui parleremo nel residuo del presente Trattato, altro in sostanza non sono che l'unione mistica e trasformativa che abbiamo dichiarata nei capitoli precedenti. Differiscono però tra loro questi gradi di orazione, in quanto alla maggior perfezione e in quanto al modo diverso con cui tali gradi uniscono e trasformano l'anima in Dio". Direttorio mistico, Trattato terzo, cap. XVII -- N. D. T.). Il P. Filippo della SS. Trinità ne conta sei: il raccoglimento, la quiete, l'unione ordinaria, l'impulso divino, il rapimento, il matrimonio spirituale.

1421-1 Notte, l. I, c. X, n. 7.

1422-1 Notte, l. I, c. IX, n. 5.

1422-2 Notte, l. II, c. X, n. 1.

1422-3 Ecco un paragone atto a far capir la cosa: quando si esamina ad occhio nudo un bicchiere d'acqua, non ci si vede nulla che dia fastidio; ma se si guarda armati d'un potente microscopio, si resta inorriditi alla vista dei mostriciattoli che vi si scoprono. Ora la contemplazione è come un microscopio che ci aiuta a conoscere meglio i nostri difetti.

1424-1 Notte, l. I, c. IX, n. 6.

1425-1 Notte, l. I, c. X, n. 6.

1425-2 Dom Lehodey, Le vie dell'orazione (Marietti, Torino).

1426-1 Notte, l. I, c. XIII, n. 1, (in certe edizioni c. XIV).

1427-1 II Tim., III, 12.

1428-1 Notte, l. I, c. XI, n. 2, 3 (alias c. XII).

1429-1 Notte, l. I, c. XII, n. 10 (alias c. XIII).

1430-1 Notte, l. I, c. XI, n. 6 (alias c. XII).

1431-1 Notte, l. II, c. XII, n. 11, 12 (alias c. XIII).

1432-1 Matth., XXVI, 39.

1432-2 Luc., XXII, 43.

1432-3 Autobiografia, c. VIII, n. 5.

1433-1 Notte, l. I, c. X, n. 4

1434-1 Il Card. Bona (Via compendii ad Deum, c. 10, n. 6) dice che S. Francesco d'Assisi passò due anni in queste prove purificative; S. Teresa diciotto; S. Chiara da Montefalco quindici; S. Caterina da Bologna cinque; S. M. Maddalena de' Pazzi, prima cinque anni, poi altri sedici; il V. Baldassarre Alvarez, sedici. -- Queste cifre comprendono certo la durata delle due notti, che sono generalmente separate da notevole intervallo di dolci consolazioni.

1435-1 Santa Teresa, nella sua Autobiografia o Vita scritta da lei stessa in 40 capitoli, apre al capitolo 11 una parentesi, per esporre con una graziosa similitudine quattro modi di orazione. Assomiglia l'anima di chi si dà all'orazione a un giardino in cui il padrone, Dio, schiantate le male erbe, ve ne piantò delle buone, lasciando al giardiniere, che è l'anima, l'incarico di irrigarle, perchè quelle tenere pianticelle crescano in bellissimi e odorosi fiori, fra i quali poi possa il divino padrone deliziarsi. Ora, dice la Santa, il giardiniere può irrigare il giardino in quattro diversi modi: 1° cavando l'acqua da un pozzo con un sechiello a forza di braccia; 2° maneggiando una macchina, poniamo la noria o la tromba; 3° derivando acqua da una sorgente o da un fiume e conducendola nei solchi o nelle aiuole del giardino; 4° colla benefica pioggia del cielo. Nel corso poi dei dieci seguenti capitoli applica la similitudine di questi quattro modi di irrigazione, spiegando con sapiente dottrina pratica i quattro modi di orazione che sono le quattro mistiche acque; prima acqua: l'orazione mentale ordinaria; seconda acqua: l'orazione di quiete; terza acqua: l'orazione di unione; quarta acqua: l'estasi (N. d. T.).

1436-1 S. Teresa, Castello, Mansione quarta, c. III, n. 3 (vers. del P. Federico, T. II, pag. 265).

1436-2 Relaz. al P. Rodrigo Alvarez, (versione del P. Federico, T. II, Parte seconda, Relazione IV, pag. 205).

1436-3 Castello, Mansione quarta, c. III, n. 2, 3 (versione del P. Federico, T. II, Parte Prima, p. 265).

1436-4 Teotimo, l. VI, c. 7 (Libreria Salesiana, Torino-Roma).

1437-1 Castello, Mans. quarta, c. III, n. 7 (versione del P. Federico, T. II, p. 267).

1437-2 Castello, Mans. quarta, c. III, n. 5 (versione del P. Federico, T. II, p. 266).

1438-1 Cammino della perfezione, c. XXXI, n. 2. (versione del P. Federico, t. II, p. 218). -- La Santa non parla che della volontà, perchè, come regina delle facoltà, è quella che per la prima e più fortemente viene afferrata, essendo la contemplazione atto di amore più che di conoscenza; ma non operando la volontà se non illuminata dall'intelletto, anche questo è in qualche modo sotto il governo di Dio.

1438-2 Vita, c. XIV, n. 3 (versione del P. Federico, T. II, Parte 1, p. 42).

1438-3 Castello, Mansione quarta, c. I, n. 13 (vers. ital., T. II, Parte 1, p. 262).

1439-1 Castello, Mansione quarta, c. II, n. 2-5 (versione ital., p. 263).

1439-2 Castello, Mansione quarta, c. II, n. 6 (versione ital. p. 264).

1439-3 Vita, c. XIV, n. 4; (versione ital., T. II, Parte I, p. 42-43).

1439-4 Vita, c. XIV, n. 5.

1439-5 Vita, c. XIV, n. 6.

1440-1 Castello, Mansione quarta, c. III, n. 9 (versione italiana, p. 267).

1442-1 S. Giov. della Croce fa osservare (Salita, l. II, c. XIV) che il tempo corre così rapido quando si gode della contemplazione, che uno talora s'inganna sulla sua durata: ciò che pare non esser durato che due o tre minuti può molto bene aver continuato di più.

1443-1 Cassiano aveva già notato queste varietà, (Conf. X, c. 24).

1443-2 Cammino della perfezione, c. XXXI, n. 9; (versione italiana, T. II, Parte I, p. 220).

1444-1 Vita, c. XVI, n. 4; (versione ital. T. II, Parte I, p. 49-50).

1444-2 Teotimo o Trattato dell'Amor di Dio, l. VI, c. VI (versione del Prof. Fabre, Libreria Salesiana, Torino-Roma).

1445-1 Cammino della perfezione, c. XXXI, n. 4 e 5; (versione italiana, T. II, Parte I, p. 219).

1446-1 Vita, c. XVII, n. 5, 6, 7; (Vers. ital. pag. 52-53).

1447-1 S. Teresa, Vita, c. XV, n. 7; (vers. ital. del P. Federico, pag. 46).

1447-2 Teotimo, l. VI, c. 10, (Libreria Salesiana, Torino-Roma).

1449-1 Castello, Mansione quinta, c. I, n. 9; (versione italiana, p. 271). Cfr. Vita, c. XVIII.

1449-2 Ne dà la ragione, Castello, c. I, n. 5 (versione italiana, p. 270): "Se veramente è unione di Dio, non può il demonio entrare nè fare alcun danno, perchè sta il Signore tanto unito e congiunto coll'essenza stessa dell'anima, che il demonio non ardirà neppure di avvicinarsi".

1450-1 Vita, c. XVIII, n. 11; (edizione italiana, p. 56). "Quest'orazione, per lunga che sia, non fa danno, almeno a me non lo fece mai. Per inferma ch'io fossi, quando Dio mi faceva questa grazia non ricordo che mi ci sentissi mai male; anzi rimanevo dopo con gran miglioramento".

1450-2 Vita, c. XVIII, n. 1; (versione italiana, pagg. 53-54).

1451-1 Castello, Mansione quinta, c. II, n. 2; (versione italiana, p. 272).

1451-2 Ibid., c. II et III; (versione italiana, pagg. 273-278).

1452-1 Ibid., c. IV; (versione italiana, pagg. 278-280).

1453-1 Fidanzamento, sponsali, sposalizio, sono sinonimi nel linguaggio dei Trattatisti di Mistica: sposalizio si oppone a matrimonio o nozze spirituali. S. Teresa nel Castello interiore, mansione settima, capo II, n. 2, scrive: "È si grande la differenza che passa tra sposalizio e matrimonio spirituale quanto quella che passa tra sposi e quelli che non si possono più separare". Vedi pure lo Scaramelli, Direttorio mistico, Trattato terzo, capo XII, n. 211. Poichè nel Vocabolario italiano sposalizio è anche sinonimo di matrimonio, si badi, parlando di mistica, a non confondere i due termini e, ove occorra, si usi piuttosto fidanzamento. (N. d. T.)

1454-1 Teotimo, l. VII, c. IV-VI, (versione del Prof. Fabre, Libreria Salesiana, Torino-Roma).

1456-1 Vita, c. XX, n. 3; (versione italiana, p. 61).

1456-2 Vita, c. XVIII e XX.

1458-1 Castello, Mansione sesta, c. II, n. 2; (versione italiana, p. 284).

1459-1 Vita, c. XX, n. 7; (versione italiana, p. 62).

1459-2 Castello, Mansione sesta, c. IV, n. 2; (versione italiana, p. 289).

1459-3 Ibid., c. IV, n. 15; (versione italiana, p. 292).

1460-1 Ibid., c. V, n. 7; (versione italiana, p. 294).

1461-1 Teotimo, l. VII, c. VII, (Libreria Salesiana, Torino-Roma).

1464-1 Notte oscura, libro II ossia Notte dello spirito, c. II, n. 1.

1465-1 Notte, l. II, c. V.

1467-1 Notte, l. II, c. IX, n. 1.

1468-1 Notte, l. II, c. XIX-XXII.

1470-1 Castello, Mansione settima, c. II, n. 4; (versione italiana, p. 315).

1471-1 Cantico spirituale, stanza XXII, n. 3.

1471-2 Castello, Mansione settima, c. II, n. 9; (versione italiana, p. 316).

1471-3 Talora il matrimonio spirituale vien celebrato con ceremonie speciali, come scambi d'anelli, cantici angelici, ecc.; ad esempio di S. Teresa, lasciamo da parte tutti gli accessori.

1472-1 Castello, Mansione settima, c. II, n. 1; (versione italiana, p. 314).

1472-2 Relaz. XXV, t. II, dell'edizione critica spagnuola, p. 63.

1472-3 Castello, Mansione settima, c. I, n. 6; (versione italiana, p. 313).

1473-1 Si notino queste espressioni che indicano bene la differenza immensa che passa tra il semplice atto di fede e la conoscenza o persuasione data dalla contemplazione.

1473-2 Castello, Mansione settima, c. I, n. 6; (versione italiana, p. 313).

1474-1 Castello, Mansione settima, p. 308; (versione italiana, p. 321).

1475-1 Ibid., c. III, n. 4 e 5; (versione italiana, p. 317).

1476-1 Ibid., c. III, n. 8; (versione italiana, p. 318).

1477-1 Ibid., c. III, n. 12; (versione italiana, p. 319).

1477-2 Ibid., c. III, n. 11; (versione italiana, p. 319).

1478-1 Ibid., c. IV, n. 14; (versione italiana, p. 323).

1478-2 Ibid., c. IV, n. 15; (versione italiana, p. 323).

1479-1 Castello, Chiusa, n. 2; (versione italiana, p. 323-324).

1481-1 Joan., XVII, 21.

1482-1 P. Pourrat, La spiritualité chrétienne, t. I, pp. 97-99, 104-107; t. II, pp. 320-321, 327-328.

1483-1 P. Dudon, Le Quiétiste espagnol Michel Molinos, Paris, 1921.

1484-1 Chi voglia conoscere fin dove arrivava Molinos, legga le proposizioni estratte dai suoi libri o dalle sue dichiarazioni e condannate da Innocenzo XI (Decreto del 28 Agosto e Constit. Cælestis Pastor del 19 nov. 1687), in Denzinger, Enchiridion, n. 1221-1288.

1485-1 Fénelon, Maximes des Saints; nuova ed. di A. Chérel, 1911; Gosselin, Œvres de Fénelon, t. IV; L.Crouslé, Bossuet et Fénelon, 1894; Huvelin, Bossuet, Fénelon, le quiétisme; A. Largent, Fénelon, (Diz. di Teol., t. V, col. 2138-2169).

1485-2 Vedi nell'Enchiridion del Denzinger, 1327-1349, le proposizioni di Fénelon condannate da Innocenzo XII.

1486-1 Questi articoli furono redatti nel Seminario d'Issy come risultato delle Conferenze tenute tra Bossuet, Noailles, vescovo di Châlons, Fénelon e Tronson, 1694-1695.

1487-1 P. José, Etudes relig., 20 dic. 1897, p. 804; Mgr A. Farges, Phén. mystiques, p. 174-184.


Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@gmail.com>.
Ultima revisione: 14 febbraio 2006.